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Docenti 24h in cattedra? No, 36! Ma nella scuola che meritano!

19 Ottobre 2012 9 commenti

Si sa che io sono prono all’eterodossia e all’anticonformismo, quindi nessuno si stupirà se aggredisco un tema di attualità nella scuola italiana da un punto di vista un po’ diverso da quello dell’indignazione per un aumento di orario a parità di salario. Perché questa misura, prospettata a tradimento dal Ministro in una leggina, è esemplare di come intende il proprio lavoro il Governo di oggi (e di ieri, e sospetto anche di domani): tagliare, risparmiare, senza alcun riguardo al futuro e al progetto di un Paese (o di una società, per chi non ha molto apprezzamento per i confini) diverso. E’ la tipica procedura economicista a cui ci hanno abituato, rendendoci ciechi alla necessità di immaginare un modo diverso di fare le cose e di progettare la nostra vita (individuale e collettiva), volendo più ambizioso, ancorché più faticoso.

Ebbene, io dico che il problema non è aumentare l’orario degli insegnanti (18 ore in cattedra, sommato a tutto il tempo per preparare le lezioni, partecipare ai momenti collegiali, correggere, ecc ecc) con sei ore eventuali, al solo fine di far risparmiare alla tesoreria di Stato i due spicci delle supplenze brevi e delle ore buche coperte con i docenti già in organico (tradizione molto recente e dovuta ai tagli voluti dai precedenti governi che hanno reso impossibile fare fronte a tali ore con i docenti già assunti dalla scuola, peraltro). Il problema è ripensare completamente la scuola in maniera più vicina alle necessità dei nostri territori e dei nostri alunni (prima di tutto) oggi.

Fosse per me, aumenterei l’orario dei docenti a 36 ore. Fine della polemica (anche tra poveri, dico).

Però c’è un però. Io vorrei lavorare 36 ore in una scuola dove gli insegnanti hanno un loro ufficio dove poter elaborare verifiche, programmi, approfondimenti, e ricevere genitori e alunni nel pomeriggio che hanno bisogno di essere aiutati, o di momenti individuali, o esigenze particolari. Vorrei una scuola con aule non fatiscenti in cui un ragazzo o una ragazza possano entrare senza sentirsi schiacciati da una testimonianza tanto materiale di un Paese senza futuro (per loro e per gli adulti che li circondano). Vorrei una scuola con connessioni decenti e con un progetto digitale solido, sostenuto da persone competenti e che vi si possono dedicare. Vorrei una scuola piena di giovani che portano idee nuove e di anziani (nel senso di saggi, capiamoci) che li guidano e li aiutano nelle scelte e nella gestione delle mille difficoltà.

E vorrei anche far notare che a quel punto il patto storico che sta alla base della bassa retribuzione dei docenti italiani (che nonostante quello che dice il disinformato ministro è tra le più basse non solo in Europa, ma nel mondo, ammesso e non concesso che si debba sempre guardare altrove come un modello da imitare senza pensarne uno in proprio) viene meno: finita la storia che “vi paghiamo poco perché fate solo 18 ore e 3 mesi di vacanze” (una frase peraltro che contiene una sola verità, cioé quella per cui i docenti sono pagati poco).

Fateci lavorare 36 ore a scuola, in una scuola che meritiamo, per le nostre competenze, la nostra passione e la nostra dedizione. Pagateci quello che meritiamo. E i docenti che hanno a cuore il loro mestiere sapranno assumersi quel ruolo di seconda famiglia (molto spesso prima famiglia considerata la situazione disastrosa delle famiglie italiane) oltre che di formatori ed educatori che gli è richiesto incessantemente nei territori. Perché forse non ci si è resi conto che a furia di tagliare il welfare italiano le famiglie sono disperate e usano la scuola anche come assistenti sociali e fonte di servizi extra che spetterebero ad altre aree dell’amministrazione.

Cosa dovremmo fare noi docenti? E gli alunni? E le famiglie? Insomme, cosa dovrebbero fare i protagonisti del mondo scolastico?
Di quello che dovrebbero fare i sindacati non parlo, perché hanno già dimostrato da tempo di avere scarso interesse per i desideri, i sogni e i bisogni dei lavoratori, impegnati come sono a difendere il proprio orticello di micropotere. Eppure in realtà ne parlo perché penso che siamo noi, cittadini e lavoratori, che possiamo imporre a chi si suppone ci rappresenti i nostri interessi.

Cogliamo questa proposta bollente e scriteriata (proprio perché buttata lì) delle 24 ore per fare un ragionamento più grande, per immaginarci un mondo nella scuola tutto diverso. Combattiamola, ma per spingerci più in là, per spingere più in là anche il Governo, i Sindacati e chi più ne ha più ne metta. Chiediamo di riaprire tutto, di ricominciare da capo. Puntiamo al bersaglio grosso. Anche a partire dal contratto nazionale: allora sì che la battaglia in piazza e nelle mobilitazioni avrà forza e senso. Perché se vogliono cambiare le carte in tavola per toglierci oltre che il presente pure il futuro dobbiamo spiegare loro che si sbagliano di grosso. Ma non per difendere un orticello spelacchiato e già traballante, ma per rilanciare un’idea diversa di scuola che è possibile e che cerchiamo di praticare tutti i giorni pur nella difficoltà estrema in cui siamo costretti a lavorare.

Chawki Senouci ieri sera a Radio Popolare diceva che i politici di oggi sono nani in confronto a quelli del passato (a prescindere dalla condivisione delle loro idee politiche). Ha ragione. Il problema però è che anche i cittadini del presente sono dei nani, spesso concentrati sul proprio orticello e anche nell’indignazione, nella protesta, mai orientati a una visione di un mondo nuovo da conquistare, da ricercare, per cui combattere. Lamentarsi di un sopruso non è certo una cosa sbagliata, ma farlo senza avere in mente qualcosa di nuovo e migliore da costruire difficilmente conferisce le energie necessarie a vincere una battaglia. Allons profs de l’ecole italienne, le jour de rever est arrivé! 🙂

PS: quando ho parlato di questo con alcuni miei colleghi mi hanno detto che sono pazzo e che mi avrebbero denunciato al sindacato (ovviamente era una battuta, eh, prima che qualcuno si offenda). Sarò pazzo, ma penso che la società di oggi ha bisogno di nuove strutture, non di collegi di antica e vetusta memoria, ma di convivi di platonica e pitagorica tradizione. Pensiamoci. Insieme.

Zero History: per Gibson è la fine o l’inizio della storia come la conosciamo?

16 Novembre 2010 Commenti chiusi

E’ difficile prendere posizione su un libro di uno dei tuoi autori preferiti, specie se è un mostro sacro come William Gibson. Zero History, appena uscito all’estero, prevedo almeno tra un annetto nelle librerie italiane, è il terzo episodio di una saga cominciata con Pattern Recognition (L’Accademia dei Sogni) e proseguita con Spook Country (Guerreros). Sul secondo episodio ho scritto una recensione abbastanza lunga, mentre per il primo purtroppo mi sa che il blog non era ancora uno strumento che usassi molto. Il terzo episodio chiude il cerchio, anche se non lo fa con un’opera degna delle due precedenti. Ma anche questo è un grande classico di Gibson: mi ricordo la delusione di Mona Lisa Overdrive rispetto a Neuromancer o Count Zero; il lupo perde il pelo ma non il vizio.

Il romanzo parte da dove ha lasciato il precedente, dal problema di come venga definita la realtà attraverso le tecnologie, di come non ci possa essere un futuro definito come eravamo abituati a fare, dato che il presente è definito in maniera estremamente nuova. Già dal titolo Zero History vuole parlare del passato, ma non in senso classico. Ne parla come di qualcosa che non esiste più, che è zero, facendo scontrare il personaggio principale, sempre Hollis Henry con il deus ex machina di tutti e tre i libri, l’eclettico imprenditore Hubertus Bigend. Hollis siamo noi e Hubertus rappresenta la sintonia con il mondo (post)moderno: Hubertus è nemico della stasi e ossessionato dall’idea dell’atemporalità, e cerca un modo per far scomparire il mercato attraverso la sua trasformazione in un eterno presente, impossibile da prevedere e anche da ricordare. Hollis è l’imprevisto, il cuore di tutto ciò che è motore del cambiamento e della resistenza ad un mondo che si allontana da noi: perché per Gibson sono gli esseri umani l’unica speranza. Forse è invecchiato, o forse sono invecchiato io, ma faccio fatica a concordare. 🙂

Questa battaglia tra eterno presente e umanità del tempo si collega in maniera non del tutto lineare con gli altri temi della trilogia, e in particolare con la funzione dei brand e del mercato nella definizione della nostra vita, del paradigma in cui ci muoviamo, come una sorta di vera e propria bussola semantica. Se una visione moderna del brand è quella per cui i “target” non comprano merce, ma narrazioni, ontologie direbbe qualcuno, lo scontro semiotico sullo sfondo del libro è quello che cerca un superamento di questo stadio evolutivo del marchio: Bigend cerca disperatamente di comprendere i meccanismi di un brand che non è un brand, e che tuttavia genera ontologie capaci di stimolare un senso di appartenenza e di mitopoiesi superiori a quelli della moderna narrazione epica via fidelizzazione commerciale. Dall’altro chi ha immaginato questo meccanismo, che ha reso la segretezza del mito l’essenza stessa del mito e la sua adattabilità alla vita di ogni persona, continua con un processo di costante sottrazione alla definizione di ciò che è, di ciò che è stato e di cio che sarà. E’ una salto quantico nell’isolamento temporale dell’eterno presente.

Un tempo sempre presente, mai identico a sé stesso, capace di generare attenzione e percezione di altro, della vita e degli esseri umani, di nuovo al centro della creazione e della storia. Il cerchio si chiude. Zero History o History Zero? Gibson evidentemente è diventato un’ottimista, mentre il sottoscritto pensa che l’umano abbia poche speranze di smentire la sua vocazione alla sopravvivenza attraverso la degenerazione e la ferocia. Spero abbia ragione il mitico William.

Voto: 7,5