Cinacittà

23 Ottobre 2008

 

Ci ho pensato un po’, prima di affrontare un minimo questa recensione. Tommaso Pincio è un ottimo autore italiano, in crescita libro dopo libro, ci sentiamo ogni tanto via mail e quando accade mi sembra di conoscerlo bene. Poi ha scelto un nome che me lo ha reso simpatico subito, come chi mi conosce in quanto a gusti letterari potrà ben immaginare. Mi è spiaciuto non sapere della presentazione del suo libro ieri, anche se non avrei potuto parteciparvi, dato che era una giornata infernale. 

Quando ho scoperto che era uscito Cinacittà sono rimasto colpito: un altro meme che si è diffuso non si sa bene come nell’aria. Proprio mentre io e il mio socio ragioniamo sulla stesura di un’ucronia a base di espansionismo cinese, qualcun altro usa il medesimo setting per sviluppare la sua storia. Anche lui, come noi, usa il contesto dell’ucronia per parlare di altro, della sua città e dello stato delle cose nel luogo in cui vive o a cui sente di appartenere. Anche lui, come noi, non è proprio ottimista 🙂

Cinacittà parla del tracollo culturale, umano e "morale" (non so se apprezzerebbe questo termine Tommaso e anche io non lo amo molto)  dell’Italia di oggi, della Roma di oggi, o delle città di oggi. Parla di nuovi barbari che vengono a spazzare via non un Impero imponente e ammirato, ma un Paese piccolo piccolo già di suo, ingombro di ipocrisie e di scarsa immaginazione. E forse per questo i nuovi barbari non sono possenti e brutali, ma crudeli e minuti, sottili e volgari. Alla fine ho deciso per questa chiave di interpretazione, perché stimo troppo Tommaso per pensare che il suo lungo vivere in Piazza Vittorio, china town romana ormai irreversibile, lo abbia reso un po’ razzista. La troppa vicinanza con qualsiasi gruppo omogeneo (etnico, culturale, religioso, politico) genera in ogni persona intelligente un po’ di insofferenza verso i limiti del gruppo stesso, i nei si vedono a una distanza troppo ravvicinata per poterli inquadrare in una qualsiasi prospettiva, ma penso che Pincio abbia sfruttato questa sensazione per dipingere le tinte fosche del crepaccio in cui gli italioti si sono infilati (compresi noi) e da cui difficilmente usciranno. I barbari sono qui, e ci faranno male, anche se in maniera diversa da quanto hanno fatto in passato, un po’ come se al posto di un’alabarda di ghisa usassero una lama monomolecolare di gibsoniana memoria. 

Cinacittà è scritto molto bene, come mi ha detto lui stesso rappresenta un passetto nella direzione di quella scrittura dickiana che lui – come me – ama molto. Devo dire che all’epoca de "La Ragazza che non era lei" non mi era piaciuto molto il passaggio stilistico, mentre in questo libro lo apprezzo molto di più (e forse riesco a mettere in prospettiva anche il suo secondo libro). Non ho molto tempo e quindi mi fermerò qui, consigliando vivamente a tutti il libro, che necessita però di una lettura intelligente e attenta, per essere gustato appieno. A prima vista è un libro rischioso, ma di questi tempi se non proviamo a scuotere un pochino chi ci sta intorno difficilmente vedremo accadere qualcosa. 

 

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