Home > movimenti tellurici, storia e memoria > Schiavi e Colonie: una cronaca da un punto di vista insolito

Schiavi e Colonie: una cronaca da un punto di vista insolito

14 Ottobre 2006

E' ormai qualche mese che spilucco un libro molto interessante, ma un po' palloso, che ho incrociato al Fort Van Sjakoo ad Amsterdam (uno dei miei spot preferiti nella capitale olandese, secondo solo ad ascii e al divano di janneke 🙂 mentre cercavo materiale di documentazione sulle interazioni tra schiavi, deportati e popolazioni locali. Un post di oggi su BibliOdissey mi ha fatto tornare in mente che devo ancora finirlo e continuare la ricerca.

Il post presenta la pubblicazione completa online di una cronaca del primo secolo di colonizzazione in Perù realizzato da un indigeno che conservava un atteggiamento ambivalente nei confronti dei colonizzatori: se da un lato ne conosceva e narrava i soprusi, non poteva evitare di provare un certo fascino per gli spagnoli di cui aveva imparato la lingua. La cronaca è illustrata in maniera molto bella ed è abbastanza assodato che fu uno dei pochi libri a raggiungere Filippo III e a dargli un assaggio di quello che i suoi uomini stavano combinando nell'America Meridionale.

Come molti temi, che a prima vista sembrano poco approfonditi, anche il tema delle relazioni tra strati più poveri e derelitti delle colonie (nativi, schiavi, bianchi deportati, ovvero servi e fuorilegge) è un tema estremamente interessante, perché come sappiamo la storia la scrive chi vince, e tutta la fatica che i colonizzatori hanno fatto per sottomettere le esperienze di libertà e di libera sperimentazione di forme di società altre nelle prime fasi della colonizzazione è un pezzo di storia sociale totalmente taciuta. Quando avrò finito il libro cercherò di postare qualche estratto significativo, ma per il momento posso già segnalare qualche link di approfondimento su The Many-Headed Hydra: da Common-place, da struggle.ws, da un sito di eco-attivismo, da Aspen Review Politics and Culture. Ripeto: il libro è molto interessante ma il suo taglio a metà tra lo storico e il sociologico lo rende un po' pesantino da digerire.

  1. black_revolution
    15 Dicembre 2006 a 8:56 | #1

    Nell’anno 1789 la colonia francese di Santo Domingo nelle Antille
    francesi forniva alla madrepatria i due terzi del suo commercio
    internazionale e rappresentava il massimo mercato della tratta europea
    degli schiavi. Era la colonia più fiorente del mondo, l’orgoglio della
    Francia e l’invidia di ogni altra nazione imperialista.
    Nell’agosto del 1791 scoppiò sull’isola la rivolta degli schiavi, che si
    sarebbe protratta per i successivi 12 anni e sarebbe sfociata, nel 1803,
    nella dichiarazione d’indipendenza di Haiti.
    Storicamente, l’insurrezione antillese è la prima rivolta contro la
    schiavitù a conoscere un esito positivo; la prima forma di indisciplina
    di massa contro l’uomo bianco e la sua dominazione coloniale; il primo
    indelebile scacco degli eserciti nazionali di fronte a una moltitudine
    di schiavi.
    Dalla rivolta degli schiavi antillesi prenderanno le mosse i movimenti
    di liberazione nazionale che hanno, nel corso del XIX e XX secolo,
    progressivamente smantellato gli antichi imperi coloniali. A questa
    rivolta, e al suo principale protagonista Toussaint Louverture,
    guarderanno tutti i rivoluzionari che nell’arco dei due secoli si sono
    battuti per la liberazione delle popolazioni oppresse del Sud del mondo.
    Toussaint Louverture, l’ex schiavo nero che guiderà la rivolta contro
    gli eserciti europei, diventa così l’emblema di un’esperienza a cui
    guardare anche oggi, alla luce dei fallimenti di quei movimenti di
    liberazione nazionale che con tanta forza si opposero al colonialismo.

    Cyril Lionel Robert James
    Cyril Lionel Robert James, nato a Port of Spain (Trinidad) nel 1901,
    emigra in Inghilterra nel 1932. Teorico marxista, pioniere del movimento
    panafricanista, storico, scrittore, critico letterario e specialista di
    cricket, è anche autore di Marinai, rinnegati e reietti. La storia di
    Herman Melville e il mondo in cui viviamo (ombre corte, 2003). Nel 1938
    si trasferisce negli Stati Uniti, dove scrive, tiene conferenze e
    organizza le attività del Socialist Worker’s Party. Nel 1953 viene
    espulso e ritorna in Inghilterra dove continua la propria attività di
    scrittore e militante fino alla morte, avvenuta a Londra nel 1989. I
    giacobini neri, pubblicato per la prima volta nel 1938 e più volte
    ristampato in lingua inglese, è il suo libro più importante.

    un assaggio…
    Dalla Prefazione di Sandro Chignola
    1. «La tradizione degli oppressi – ha scritto Walter Benjamin – ci
    insegna che lo “stato di eccezione” in cui viviamo è la regola». La
    storia non è orientata da una legge che la inclini al compimento. Con
    buona pace di Habermas, la modernità non è un processo solo
    provvisoriamente incompiuto e tuttavia destinato a realizzare le proprie
    premesse. Essa è fatta piuttosto di rimozioni, di censure, di silenzi. E
    ancora, di tensioni non cumulabili, di lacerazioni non recuperabili, di
    zone d’ombra irraggiungibili allo sguardo sovrano dello storico.
    Sibylle Fischer, in un suo formidabile libro, ha di recente portato
    esempi decisivi in merito. Il Dizionario critico della Rivoluzione
    francese, preparato da François Furet e Mona Ozouf in occasione del
    bicentenario e autentico repertorio autocelebrativo della cultura
    politica liberale – a conferma di ciò che C. L. R. James chiama la
    «curious disinclination» degli storici a trattare il tema – non ha una
    sola voce dedicata al colonialismo o alla schiavitù. La Rivoluzione di
    Santo Domingo, l’intera vicenda di liberazione di cui tratta I giacobini
    neri, non viene in esso affatto menzionata. E la stessa Hannah Arendt si
    dimostra letteralmente incapace di pensare una rivoluzione che
    disabiliti il codice binario sul quale costruisce On Revolution.
    L’insorgenza dello schiavo contro i propri padroni mette in crisi la
    netta opposizione tra politico e sociale che sta alla base della
    differenza tra Rivoluzione americana e Rivoluzione francese e che ne
    divarica inesorabilmente i processi.
    Inesistente per i liberali – perché difficile a collocarsi nel lineare
    decorso di un’idea di progresso tutta occidentale ed eurocentrica – e
    impossibile a pensarsi per una filosofia politica che, come quella di
    Arendt, inscrive nella figura vittimale del profugo il «diritto ad avere
    diritti», la presa di parola dello schiavo, la materiale soggettivazione
    dell’escluso, e assegna una diversa qualità alla storia. Ne ritrascrive
    codici e processualità.
    Zittire il passato è stato il lavoro dell’idea di modernità. Che ha
    potuto essere mobilitata per qualificare come semplicemente residuale la
    violenza sulla quale si è ritagliato il suo profilo d’epoca. E costruire
    la serie del proprio tempo vuoto, il modo per definire il sistema di
    fatti da mobilitare di volta in volta come premessa da compiere o come
    promessa da adempiere. Dentro questa serie non c’è posto per lo schiavo.
    Esso viene di volta in volta assegnato a un passato remoto che la
    modernità ha ritrascritto, oppure confinato nello spazio di una pura
    eccedenza. La schiavitù come esperienza di una violenza inassegnabile,
    altra. Al limite traccia di una cultura subalterna, di una resistenza o
    di un rifiuto che marcano e confermano un’esteriorità. La storia rimane
    quella del progresso, il suo sito l’Europa e il tempo dello schiavo è
    integralmente sussunto nello schema emancipativo che conferma quel quadro.
    Detto altrimenti: la modernità non ha nulla a che fare con la schiavitù.
    Il suo presente, tutt’al più, rappresenta il futuro che redime il
    ritardo di quanti il colonialismo – passato facilmente riscattato da uno
    sguardo benevolo che indulge sulle contraddizioni del «terzo mondo» – ha
    incrociato per un istante e poi abbandonato. E invece non è così. La
    regola è lo stato di eccezione, dice Benjamin, come insegnano gli
    oppressi. Perché la loro voce, strettamente intrecciata a quella degli
    oppressori, fa letteralmente saltare la rappresentazione universale
    della storia. Non c’è modernità che sia possibile separare dal proprio
    passato. Un passato che insiste nel presente e che lo abita come sua
    immanente contraddizione.
    Il problema non è semplicemente definire la modernità come razzista ed
    eurocentrica, o affermare il suo tragitto come ciò che il subalterno è
    costretto a – oppure pretende soggettivamente di – incrociare. Il
    problema è comprendere la sua natura intrinsecamente conflittuale.
    Pensare il progresso, la modernità, come la posta in gioco di uno
    scontro in cui vengono sempre ridefinite e contrattate nuove posizioni
    di forza.
    2. C. L. R. James, questo, lo sapeva bene. È la contraddizione che gli
    si squaderna davanti agli occhi – a lui, nativo di Trinidad, militante
    marxista e attivista nero la cui vita diasporica attraversa l’intero XX
    secolo e un’infinità di luoghi – come la contraddizione che nessun
    futuro può redimere e che al cuore delle metropoli occidentali evidenzia
    l’«ancora possibile» di una condizione coloniale che non è concesso
    pensare come abbandonata al passato. Il Sudafrica dell’apartheid.
    L’impero inglese nel subcontinente indiano e i migranti a Londra. Il
    segregazionismo del Sud degli Usa e le Pantere Nere a Oakland e Detroit.
    I ghetti neri. La guerra di Algeria. Gli arabi nelle banlieues. Il corpo
    della donna, nera e operaia («the negro woman», scrive James, «when she
    goes out to work, is a woman, a negro and a worker»), come la superficie
    di inscrizione di un codice dell’esclusione e dello sfruttamento che
    resta, almeno in apparenza, inviolabile.
    Di nuovo Benjamin, allora. «Lo stupore perché le cose che viviamo sono
    “ancora” possibili nel XX secolo è tutt’altro che filosofico», egli
    scrive. «Non è l’inizio di alcuna conoscenza, se non dell’idea che la
    storia da cui proviene non sta più in piedi». Il progresso non redime la
    storia. Non c’è progresso della civiltà in grado di saldare i conti con
    l’orrore della schiavitù, di consegnarla al passato. Sfruttamento e
    violenza sono sempre attuali. Attraversano il presente e lo
    riconfigurano in luogo dei possibili e dell’evento.
    Di questo permanente «stato d’eccezione» è fatta la storia. E il
    recupero del passato non si rappresenta, per chi ne abbia la
    consapevolezza, come curiosità antiquaria o come fissazione di un
    termine rispetto al quale misurare il progresso, ma come recupero della
    perfetta contemporaneità di vicende che, per quanto lontane sul piano
    temporale, riaprono sempre e di nuovo la storia all’alea materiale di
    una sconfitta o di una vittoria. Su di un presente del dominio o della
    rivoluzione.
    Quello di James non è solo un grande libro su una vicenda censurata e
    accantonata, sulla Rivoluzione di Santo Domingo come parte fondamentale,
    interna, della Rivoluzione francese. È anche, con Benjamin, un «balzo di
    tigre nel passato» in grado di riattivare l’attualità di un tempo della
    liberazione che balena dal passato come ciò che scuote e spacca il
    presente. È pensato come un libro sulle lotte di autodeterminazione dei
    neri in Africa e nelle colonie e come strumento di formazione politica
    per le lotte di liberazione dei neri in America e in Europa.
    Un paio di circostanze sembrano confermarlo. La prima è la ricorrenza
    dell’allestimento dell’opera teatrale dedicata a Toussaint Louverture,
    all’esordio e alla fine della biografia intellettuale e politica di
    James. Qualche tempo prima della pubblicazione de I giacobini neri viene
    messo in scena a Londra, tratto dal manoscritto, uno spettacolo dedicato
    alla Rivoluzione di Santo Domingo. Esso verrà rivisto e riallestito nel
    1986, ancora a Londra, tre anni prima della morte dell’autore. L’intera
    vita di C. L. R. James – a dispetto dell’impressionante mole di libri,
    articoli e interventi prodotti a partire dagli anni Trenta – è racchiusa
    nel cerchio disegnato da quell’opera. Una vita di intellettuale e di
    militante dedicata a sfatare il mito della passività e della docilità
    dei neri («the docile negro is a myth», egli annota); a imporre al
    movimento socialista internazionale l’autonomia della lotta
    abolizionista e anticoloniale da parte dei neri come legittima parte di
    uno stesso percorso e a ritrascrivere l’idea stessa di civiltà e di
    progresso. «The only place where negroes did not revolt is in the pages
    of capitalist historians», scrive James. Rendere allo schiavo quanto gli
    è effettivamente dovuto, è il passo decisivo per trasformare la nostra
    visione complessiva della storia, dirà in altro luogo.
    La seconda circostanza è raccontata dallo stesso James. Durante le
    celebrazioni per l’indipendenza del Ghana, nel 1957, egli incontra
    alcuni giovani attivisti sudafricani, che gli raccontano quanto I
    giacobini neri sia stato importante per loro. Una copia del libro era
    disponibile nella biblioteca della Black University ed era stato un
    professore bianco a consigliarne la lettura. Leggere il libro significa,
    per gli studenti, comprendere la rilevanza delle relazioni di meticciato
    nella lotta abolizionista. Capire l’importanza del complesso intreccio
    di alleanze tattiche con le altre identità e le altre «razze» che è
    necessario stabilizzare come componente fondamentale dell’insorgenza
    rivoluzionaria contro il regime di apartheid. Di qui la circolazione
    clandestina del libro. Il suo essere copiato, riorganizzato per
    estratti, il suo essere diffuso come strumento di discussione e di
    formazione politica tra i militanti di ogni colore. La Rivoluzione di
    Santo Domingo come insorgenza contro l’apartheid sudafricano diviene la
    contemporaneità del non contemporaneo, in cui i subalterni producono la
    propria soggettivazione.

    http://www.deriveapprodi.org/estesa.php?id=250&stato=novita

I commenti sono chiusi.