Stephen King e la complessità della pop culture
Riposto in calce un articolo uscito in questi giorni su Unità e Carmillaonline, scritto da Wu Ming 1, che affronta il nodo della crescita della complessità dei prodotti della cultura pop: racconti, film, libri di genere sono opere con un tessuto sempre più complesso, che spaventerebbero anche i più temerari tra i lettori e gli spettatori di solo trent'anni fa. Il ritmo di "evoluzione" dei fruitori e dei produttori di cultura pop è un indice abbastanza elementare di quanto la realtà che ci circonda abbia aumentato la sua energia cinetica, il numero di messaggi che ci avvolgono quotidianamente, costringendoci a diventare dei processori di informazione molto più rapidi che in passato, anche se non necessariamente migliori.
Mi sono trovato spesso a chiedermi quanto questo processo sia all'origine di una generalizzata minore capacità di stratificazione delle conoscenze, di una loro comprensione superficiale, di un appiattimento generalizzato di ogni differenza, proprio nel momenot in cui la natura relativa di quasi tutto diventa più evidente. O quanto sia all'origine di una cesura sempre più prepotente tra chi riesce a "governare" questa complessità, ad assumerla in qualche modo, e chi invece la subisce disperatamente.
Forse è questa cesura a far sì che la dimensione relativa dei singoli eventi della realtà non ha stimolato una valorizzazione della diversità, del molteplice, ma spinto a un enfasi dell'omogeneità, dell'omologazione, in modi che il passato ha difficilmente conosciuto: nessuna età dell'oro, solo una rete con maglie molto più rade e più possibilità di tesserne pezzi nuovi o di cadervi attraverso.
di Wu Ming 1, articolo apparso su L'Unità il 31/12/2006
L'odierna letteratura popolare, discendente diretta e mutante del feuilleton, ci propone strutture, linguaggi e personaggi sempre più complessi, anche in opere che scalano le classifiche con facilità e non-chalance. E' il caso dell'ultimo best seller di Stephen King, La storia di Lisey (Sperling & Kupfer, 2006, pp. 619, €18).
Zoom out: in realtà è tutta la cultura pop a essere sempre più complessa e articolata, e a richiedere a chi la fruisce un maggiore lavoro cognitivo. Un cinespettatore ibernato trent'anni fa e svegliato oggi sarebbe molto turbato non soltanto da pellicole come Syriana, The Prestige o Il ladro di orchidee, ma anche da prodotti di penultima generazione come Fight Club o I soliti sospetti. Li troverebbe astrusi, ansiogeni, impossibili da seguire. E stiamo parlando di cinema narrativo, film “di cassetta”, non di Godard.
Un telespettatore di trent'anni fa, abituato a narrazioni lineari e dozzinali come Chips, Le strade di San Francisco o i cartoons di Hanna & Barbera, non capirebbe nulla non dico di Lost o 24, ma nemmeno di ER: ritmo ipercinetico, vasta congerie di personaggi, intrichi di sottotrame, narrazione frammentata, episodi non autoconclusivi, rimandi di non immediata decifrazione etc.
All'inverso, una serie come Ai confini della realtà, negli anni Sessanta ritenuta un gioiellino di complessità, profondità e tv intelligente, oggi ci appare come una raccolta di favolette: ogni elemento è sottolineato ad nauseam, il lettore è accompagnato scena dopo scena, tutto è congegnato per essere “a prova di stupido” e non richiedere alcuno sforzo interpretativo.
E che dire dei cartoons? Da Scooby-Doo e Braccobaldo ai Simpson e Futurama il salto è di svariati anni-luce. E persino la tv-spazzatura di oggi, quella di cui faremmo volentieri a meno, è comunque più complessa della tv-spazzatura d'antan: seguire tutti i giochini psicologici, le alleanze transitorie, lo svolgersi della minirete sociale del Grande fratello richiede sicuramente più attenzione, concentrazione e attività sinaptica di quanta ne richiedessero Ok, il prezzo è giusto o la Carrà che ti chiedeva di indovinare quanti fagioli contenesse un vaso.
Ancora: trent'anni dopo Pacman, i ragazzini sono esperti di videogames complicatissimi, mondi virtuali dove occorre tener conto di infinite variabili, avere capacità relazionali, saper risolvere problemi ed enigmi, sforzare la memoria. E che dire della nomenclatura del mondo-Pokemon, complessa oltre i limiti del cervellotico eppure perfettamente comprensibile ai nostri figli e fratelli minori?
Insomma: grandi masse di persone sono in grado di seguire, decodificare, commentare (nonché interagire creativamente con) prodotti culturali che ieri sarebbero stati avanguardia, comprensibili solo a minoranze colte, mentre oggi mandano in tilt gli indici d'ascolto e battono record di vendite.
Anche se a volte non sembra, il pubblico è maturato, è diventato più attento ed esigente. Soprattutto, si sente – ed è – sempre più coinvolto e partecipe, non vuole più essere soltanto “audience”. La cultura pop contemporanea tende a formare comunità aperte di fruitori-riutilizzatori. Per ogni serie TV o videogame esiste una sottocultura di massa, formata da persone che discutono, dissezionano livelli ed episodi, citano, rielaborano, producono addirittura guide ufficiose, manuali on line, compilano il Dizionario Inglese-Klingon, realizzano video amatoriali dedicati alla loro passione etc. Costoro siete "Voi", gli "You" a cui Time ha appena dedicato la copertina di fine anno.
Le possibili cause di tutto questo sono svariate, avremo occasione di elencarle e rifletterci sopra nei prossimi articoli, basandoci su ricerche e riflessioni di studiosi come Henry Jenkins del MIT di Boston (che studia il ruolo dei fans e la natura partecipativa della cultura pop nell'epoca di Internet) o Steven Johnson, autore di quel Tutto ciò che fa male ti fa bene (Mondadori Strade Blu, 2006) dove s'indagano i rapporti tra la crescente complessità dell'ambiente culturale e l'Effetto Flynn, cioè lo spiccato aumento, da trent'anni a questa parte, del QI medio dei bambini occidentali.
Zoom in: Stephen King è lo scrittore più influente del pianeta. Libri, cinema, tv, fumetti, ovunque ti giri trovi segni del suo passaggio. E' anche uno dei padri dell'attuale complessità narrativa, e i figli lo riconoscono senza problemi: Donnie Darko di Richard Kelly era un omaggio a King, Lost è una lunga catena di omaggi a King, e così via.
Tuttavia, anche i tomi di King di venti-trent'anni fa erano più semplici e lineari. Narrativa di genere epica e memorabile, horror innovativi, ma pur sempre genere, pur sempre horror. Erano libri definibili.
La storia di Lisey è indefinibile, perché fa tesoro delle sperimentazioni ed esplorazioni condotte dallo scrittore di Bangor negli ultimi tre lustri, azzardi che spesso hanno deluso e irritato lo “zoccolo duro” dei lettori. Su L'Unità ne abbiamo già parlato: ha iniziato Beppe Sebaste (8/3/2003), poi il sottoscritto è tornato due volte sull'argomento ( 16/12/2005 e 4/3/2006).
Il Re ha affrontato il viaggio iniziatico alla Torre Nera, si è tuffato nella “polla del linguaggio” e ne è uscito rinvigorito. Con La storia di Lisey ci mette tra le mani il suo libro più bello dai tempi di Dolores Clayborne, e ci offre l'atipico caso di un maestro che ri-supera gli allievi che lo avevano superato. Per complessità narrativa, linguistica e psicologico-emotiva, Lisey fa mordere la polvere non soltanto a molti romanzi “d'Autore” (quelli ritenuti più “artistici” e “seri”), ma anche a molte opere-monstre del panorama pop contemporaneo.
Questo è un romanzo sull'amore, il matrimonio e il lutto, ma anche sui rapporti tra sorelle, tra fratelli, tra padri e figli, scrittore e scrittura, scrittore e lettori, celebrità e privacy. E' un libro emotivamente stratificato, intriso di perturbante tenerezza, che mette in luce gli aspetti meno scontati e più contro-intuitivi di amore, angoscia, nostalgia e paura. Lisey Debusher è la vedova di Scott Landon, famoso scrittore morto da due anni. Il loro è stato un matrimonio felice e al contempo oscuro, pregno di rimozioni e segreti. Segreti risalenti all'infanzia di Scott, trascorsa in un'isolata fattoria della Pennsylvania insieme al fratello maggiore Paul, entrambi alla mercé di un padre psicotico e autolesionista che nondimeno amava i suoi figli, li amava con forza e disperazione.
Lisey è incapace di elaborare il lutto e sgombrare lo studio di Scott (un fienile riconvertito), ma è assediata da fans, accademici e maniaci, tutti interessati a eventuali romanzi inediti o incompiuti, e deve decidere che fare. Una mattina entra nello studio e ricorda, ricorda a cerchi concentrici, a partire dal giorno del 1988 in cui salvò la vita a suo marito. Lisey ha anche quattro sorelle, una delle quali, Amanda, ha seri problemi neurologici. Quando Amanda precipita in uno stato catatonico, Lisey scopre che Scott, prima di morire, ha predisposto per la sua amata una sorta di caccia al tesoro (“a bool-hunt”), un percorso oltre i confini del nostro mondo, al termine del quale la vedova avrà elaborato il lutto.
Il romanzo è intelaiato su quattro flashback disposti “a matrioska”, ricordi rimossi che contengono ricordi rimossi che contengono ricordi rimossi. Nel 2006 viene ricordata una situazione verificatasi nel 1996, al cui interno era riaffiorato un ricordo del 1979, a sua volta imperniato sul racconto di fatti avvenuti negli anni Sessanta. Tutti questi eventi e ricordi sono a cavallo tra due dimensioni, due mondi paralleli: uno è il nostro, l'altro è Booya'moon, universo sospeso tra vita e morte, silenzio e parola, orrore e sollievo. King si muove all'indietro e lateralmente, passa continuamente da un livello all'altro e da un mondo all'altro, e mentre lo fa cambia i tempi verbali, chiude i capitoli a metà frase, interrompe bruscamente i flussi di coscienza dei personaggi, addirittura opera un radicale slittamento del punto di vista saltando dal penultimo all'ultimo flashback.
Scelte di questa portata, in passato, erano appannaggio di romanzi ipercolti e “illeggibili”; oggi le troviamo in un libro pop e di successo, in coesistenza pacifica coi mille trucchi del mestiere di narratore (suspence, colpi di scena, McGuffin, agnizioni etc.).
Ho letto l'edizione inglese chiedendomi a ogni riga come avrebbe fatto Tullio Dobner a tradurre i dialetti privati e “lessici famigliari” inventati da King. La storia di Lisey è zeppo di neologismi, strani modi di dire e misteriosi acronimi. I personaggi parlano almeno tre gerghi distinti: quello della famiglia Debusher (ricco di nomignoli e parole piegate a nuovi significati, come “hollyhocks”), quello della famiglia Landon (con parole inventate come “bool”, “blood-bool”, “gomer” e “bad-gunky”) e quello della coppia Scott-Lisey (con vocaboli come “smucking”, “sowisa” e “incunk”). Oltre a tutto ciò, King si sofferma molto sulle differenze tra accenti e pronunce del Maine, della Pennsylvania e del Tennessee. Non ho ancora avuto tra le mani il testo italiano ma, come sempre, Dobner ha tutta la mia solidarietà.
Rileggiamo la descrizione che ho appena dato di La storia di Lisey e rendiamoci conto che quest'opera sta vendendo decine di milioni di copie in tutto il mondo. E' uno dei tanti sintomi di una trasformazione epocale, ma in Italia si fatica a capirlo. Da noi il dibattito “ufficiale” sulla cultura è dominato da quanti, magari in nome dell'arte “vera”, o per difendere il proprio ruolo di mediatori, o perché credono in teorie post-francofortesi sulla malvagità della tv e della “cultura di massa”, oppure per semplice snobismo, si rifiutano di conoscere e scagliano anatemi. Salvaci, padre King, dal bad-gunky di questi tromboni. Forse solo tu puoi farlo. Finché non verrà quel giorno, beh, sowisa.
Pubblicato Gennaio 1, 2007 04:04 PM
A me sembra che la conclusione di WM1 non tenga minimamente per esistente o possibile il pericolo dell’omologazione e dell’appiattimento che invece tu (a mio avviso giustissimamente) tiri in ballo. Mi sembra invece che lui finisca per riproporre – come sempre – la sua ideologia totalizzante: come se oggi la cultura pop fosse la sola possibile, la sola veramente sovversiva…
Ma:
1) Esiste solo UNA cultura pop?
2) Perché contrapporla a una presunta “arte vera” additata a modello negativo (un po’ come l’arte borghese decadente e separata dalla vita reale del popolo di sovietica e staliniana memoria)? Non è anche questo un gesto di semplificazione ideologica?
3) E’ possibile criticare gli aspetti deteriori della tv e della cultura di massa (quali sperimento personalmente ogni giorno sul posto di lavoro, per stare sul personale) senza essere tacciati di snobismo e di scagliare anatemi?
– Stephen King
+ Stephen Hawking
Chiariamo alcune cose:
1) l’ho scritto chiaramente che esiste la tv-spazzatura, e lo sappiamo tutti che c’è tantissima merda nella cultura di massa, è una terribile e banalissima constatazione da fare, è davvero utile ripetere quest’ovvietà che è al centro di tutte le riflessioni che sentiamo migliaia di volte al giorno e leggiamo sulle pagine culturali di tutti i quotidiani? Non è meglio far notare che anche nella tanto aborrita e demonizzata pop culture stanno succedendo cose interessanti e sono in corso processi che sarebbe il caso di seguire senza pregiudizi? Rimproverarmi di non dire quel che tutti gli altri stanno dicendo è un’argomentazione povera e poco utile. E’ come se, in un clima di islamofobia e razzismo dilagante, uno scrivesse un pezzo su alcune iniziative positive prese da una comunità islamica, e lo si rimproverasse perché non ha detto che ci sono anche arabi delinquenti.
inoltre
2) non ho mai affermato da nessuna parte che la cultura pop sia “la sola possibile”, sarebbe un’assurdità insostenibile,
infine
3) non ho mai contrapposto la cultura pop a una presunta “arte vera” da me additata a modello negativo.
Non si può affrontare ogni argomento in 9000 battute destinate a un giornale, questa recensione di King va vista nel contesto di quel che ho scritto sull’argomento nel corso degli anni. La mia posizione è, semplicemente, che bisogna tenere conto della complessità e della ricchezza di quel che ci circonda e non abbandonarsi alla solita narrazione della decadenza, ché davvero non se ne può più.
Non confondiamo le discussioni “illuminate” che avvengono in nicchie come questa con i discorsi che si fanno fuori. Pensiamo all’ignoranza arrogante e censoria nei confronti dei videogame, pensiamo alle campagne d’allarme scatenate dal videomaking diffuso. La nostra classe intellettuale (perlomeno i settori che hanno più accesso ai media) si crogiola nell’insipienza e non comprende nulla dei fenomeni che pure avrebbe sotto gli occhi. Questo atteggiamento di chiusura totale è pericoloso.
Io voglio riflettere sulla pop culture senza pregiudizi, né negativi né positivi. E in ogni caso, mi importa sottolineare non le differenze formali o la qualità dei risultati espressivi, ma le dinamiche sociali, di interazione, di cooperazione, di riutilizzo, di scambio, di costruzione di comunità.
Non capire che queste dinamiche sono importanti anche (absit iniuria) politicamente, significa condannarsi a non capire nulla del futuro prossimo.
Questo è quello che mi interessa. Ma non si arriva a tale consapevolezza senza spiegare a chi ancora non se n’è accorto che molta pop culture di oggi, lungi dall’operare un lavaggio del cervello, costringe i neuroni a lavorare, e parecchio. Se non si mantiene questo come punto fisso, non si possono nemmeno vedere le potenzialità. E se vogliamo cambiare lo statu quo, è di potenzialità che dobbiamo occuparci, non di vicoli ciechi. Le “ideologie totalizzanti” sono oggi quelle imperniate sulla contemplazione del fondo di vicoli ciechi, non quelle che cercano di *aprire* e *dare aria*.
P.S. Ovviamente no, non esiste UNA cultura pop. Se il panorama non fosse molteplice, non susciterebbe in alcun modo il mio interesse. Nel mondo della “coda lunga”, esistono INNUMEREVOLI culture pop. E’ questa la cosa più eccitante: è un mondo di differenze.
P.S. 2 La mia posizione è “+ Stephen Hawking, + Stephen King”. E va detto che Stephen Hawking è un grandissimo produttore di divulgazione scientifica in chiave di pop culture (“Dal Big Bang ai buchi neri” è un best seller pop), che ha recitato in una puntata di “Star Trek: The Next Generation”, che ha dato il permesso per essere utilizzato come personaggio ne “I Simpson” etc. etc. Insomma, ha meno pregiudizi di certi commentatori 🙂
Il punto però non mi pare accademicamente dissertare sul numero di culture pop, su suoi nemici, amici, falsi amici e via dicendo.
La chiusura di WM1 mi pare indicare una cosa che è sotto gli occhi di tutti: il dibattito culturale in Italia è stantio, farcito di vecchi tromboni che hanno dato tutto sommato poco alla cultura italiana o internazionale che sia, assurti al ruolo in cui sono per la carenza di intelligenze migliori negli ultimi cinquant’anni, cechi mediamente a tutto ciò che non ha dato loro vanto nei decenni passati e chiusi all’evidenza di ciò che accade loro intorno.
Il mondo della cultura italiano sa di muffa da tempo, e gli spazi per le cose nuove sono annullati.
Ma al di là di questa verità lapalissiana (che chiunque può verificare andandosi a leggere le biografie dei grandi nomi della nostra cultura, la loro età anagrafica, e che cosa hanno dovuto fare i pochi quarantenni esistenti nell’ambito per essere “omologati” come “intellettuali”, bleah!), il punto mi pare un altro, e l’articolo di WM1 lo solleva ma lo esplora solo in parte, perché giustamente come dice anche lui in 9000 battute si può fare il giusto 🙂
Il punto mi pare proprio essere la dinamica cognitiva e culturale che si sviluppa a partire da questo aumento della complessità dei prodotti di largo consumo culturale. Come scrivevo nel post che introduce l’articolo, suppongo che la speranza di molti in un contesto in cui l’assoluto è ormai stato definitivamente sconfitto, in cui la complessità ha vinto sulla linearità, fosse quella di poter vedere crescere persone più consapevoli delle potenzialità del mondo e della propria volontà, delle proprie capacità di espressione/creazione/azione. Invece lo spettacolo deludente che ci troviamo di fronte è quello di un terrore cieco della complessità che siamo costretti ad affrontare anche solo per prendere la metropolitana, un rifiuto atavico di assumere le possibilità che essa ci presenta, e una fuga incondizionata nella resa, nell’omogeneo, nel conformismo, nell’anonimato.
E l’approccio del mondo culturale mainstream alla cultura pop (in generale) appeso tra disprezzo dell’intelligentia e osanna da parte dei mille parassiti che mangiano alla tavola imbandita del conformismo, non fa che facilitare la vittoria schiacciante del pensiero unico.
Ieri sera mi sono rivisto Zelig, dopo aver visto al cinema Il Grande Capo di Von Trier, e devo dire che rimane tuttora uno dei migliori manifesti a favore della cultura pop e contro il pensiero unico (e il film del danese non fa che rilanciare la palla).