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William Gibson parla del presente attraverso la SF

21 Agosto 2007

William Gibson è stato senza dubbio uno degli autori più importanti nel panorama della letteratura di genere e non degli anni ottanta e novanta: negli ottanta quando scriveva e nei novanta per l'eco dei suoi libri degli anni ottanta. Negli anni novanta si è perso, uccidendo la stima che ognuno di noi provava per il suo talento con libri indignitosi (Idoru o Virtual Light andrebbero cancellati dagli annali delle pubblicazioni). Il nuovo millennio ha portato all'autore di stanza Vancouver nuova linfa e ispirazione: dopo un decollo modesto in American Acropolis, il suo penultimo libro Pattern Recognition è un capolavoro sui livelli di Neuromancer. Ogni volta che vado in Inghilterra mi porto indietro una nuova pubblicazione che in Italia si vedrà tra mesi: l'anno scorso ho potuto gustarmi Anansi Boys di Neil Gaiman (molto modesto a dire il vero), e quest'anno ho messo in saccoccia Spook Country

Gibson con il precedente libro è tornato a scrivere Science Fiction nel senso più profondo del termine: libri che descrivono paradigmi per interpretare la realtà, chiavi di lettura per decifrare quello che ci sta accadendo intorno, con l'alibi vagamente tranquillizzante della collocazione in un futuro più o meno remoto. In una recente intervista l'autore adottato da Vancouver ha spiegato perché la sua Science Fiction non è più ambientata nel futuro ma nel presente. Oltre a confermare il carattere di modulo interpretativo del presente che la fantascienza ha da sempre avuto, Gibson sintetizza molto bene l'immediatismo a cui i nostri tempi ci hanno destinato: "There's a character in my previous novel, Pattern Recognition ,
who argues that we can't culturally have futures the way that we used
to have futures because we don't have a present in the sense that we
used to have a present. Things are moving too quickly […]"

Spook Country è sicuramente un lavoro meno intenso da un punto di vista delle potenzialità e della profondità delle sue implicazioni cognitive e culturali, rispetto a Pattern Recognition, ma segna un ritorno a molte delle cose che hanno reso William Gibson unico nel panorama letterario, senza per questo imboccare la strada suicida della monotonia: il romanzo usa il classico stile di montaggio a mosaico senza sbavature, e inserisce la tecnologia nella quotidianità, rendendola al tempo stesso un perno della storia e una scusa per parlare di altro. Come al solito lo scrittore nordamericano risulta sempre un po' artefatto quando parla di tecnologia in senso stretto, ma questo è un limite che all'epoca dei suoi primi romanzi (nell'1982) era diventato un suo punto di forza, traducendo le prospettive tecnologiche in qualcosa di verosimile ma non scontato, accennato, sfumato nella sua possibilità.

Il libro e l'autore si crucciano su un nodo culturale su cui anche io mi incastro da tempo: le tecnologie, in particolare alcune tecnologie, modificano in maniera sostanziale la nostra percezione della realtà, definiscono il nostro contesto cognitivo e di fatto alterano la nostra visione di ciò che siamo, di ciò che sono gli altri e il mondo in cui ci muoviamo. Le tecnologie sono un fattore di pesante influenza antropologica e culturale in altre parole.

Il problema, adesso come negli anni ottanta e novanta (e come anche nell'800, basti pensare allo scontro ideologico tra Tesla e Edison), è che le tecnologie non sono di tutti, ma appartengono a persone ben precise, alla sfera dell'economia, a soggetti che attraverso il controllo di queste tecnologie possono esercitare un controllo profondo sulla nostra evoluzione come esseri umani (individualmente e collettivamente, socialmente).

"The original only exists on the server, when I'm done, in virtual dimensions of depth, width, height. Sometimes I think that even if the server went down, and took my model with it, that that space would still exist, at least as a mathematical possibility, and that the space we live in…" He frowned.
"Yes?"
"Might work the same way." He shrugged, and picked up his burger.
You, she thought, are seriously creeping me out. 

[…]

"Right now, if you hadn't been told it was here, there'd be no way for you to find it, unless you had its URL and its GPS coordinates, and if you have those, you know it's here. You know something's here, anyway. That's changing, though, because there are an increasing number of sites to post this sort of work on. If you're logged into one of those, have an interface device" – he pointed to the helmet – "a laptop and wifi, you're cruising."
She thought about it. "But each one of those sites, or servers, or… portals…?"
He nodded. "Each one shows you a different world. Alberto's shows me River Phoenix dead on a sidewalk. Somebody else's shows me, I don't know, only good things. Only kittens, say. The world we walk around in would be channels."
She cocked her head at him. "Channels?"
"Yes. And given what broadcast television wound up being, that doesn't sound so good. But think about blogs, how each one is actually trying to describe reality."
"They are?"
"In theory."
"Okay."
"But when you look at blogs, where you're most likely to find the real info is in the links. It's contextual, and not only who the blog's is linked to, but who's linked to the blog."
[…]
"Then why aren't more people dooing it? How's different from virtual reality? remember when we were all going to be doing that?" The yellow rectangle was made of die-cast yellow metal, covered with glossy paint. Part of a toy.
",We're all doing VR, every time we look at a screen. We have been for decades now. We just do it. We didn't need the goggles, the gloves. It just happened. VR was an even more specific way we had of telling us where we were going. Without scaring us too much, right? The locative, though, lots of us are already doing it. But you can't just do the locative with your nervous system. One day, you will. We'll have internalized the interface. It'll have evolved to the point where we forget about it. Then you'll just walk down the street…" He spread his arms, and grinned at her.
"In Bobbyland," she said.

Ma nel libro di Gibson, come nella realtà esistono meccanismi che sfuggono tra le pieghe di una maglia non così fitta come la si vorrebbe di controllo della definizione della realtà. Nei libri dell'autore di Vancouver (ed è questo l'altro tema che ritorna con prepotenza negli ultimi due libri e che non si viveva con intensità dai tempi di Neuromancer  e Count Zero) la linea di fuga dell'uomo è rappresentata dalla coscienza, dalla consapevolezza dei processi in atto, anche solo intuitiva: il personaggio più enigmatico del libro si fa guidare nelle sue missioni dagli spiriti, fondendo e fondando la sua percezione della realtà su un curioso miscuglio di dati reali e di intuizioni a livello irrazionale e intimo. Gli spiriti entrano tanto quanto la tecnologia nella definizione della sua realtà, la modificano, la costruiscono: i loa cubani di Tito (in questo libro al Voodoo haitiano Gibson sostituisce la Santeria cubana) rappresentano nella letteratura di Gibson il sincretismo delle vie di fuga dell'uomo con una realtà definita nei suoi paradigmi interpretativi da un presente tecnologico, l'irrazionale che costituisce un elemento cruciale della percezione del sé e del mondo interpolandosi con il razionale. Per non renderlo tutto troppo mistico ovviamente Gibson inserisce altri personaggi che incarnano l'uomo che attraversa la tecnologia integrandola nella propria percezione della realtà, ma i loa rimangono la dimensione più evocativa di questo scontro tra imposizione di realtà e costruzione di realtà.

In fondo in fondo i loa sono agenti culturali, come uno scrittore, come un giornalista, o come anche qualcuno che cerca di portare il proprio modo di fare politica e di percepire il mondo soprattutto all'interno del mondo reale e non nel proprio idilliaco ghetto in cui tutti (e in maniera abbastanza scontata) la pensano più o meno in maniera simile (alla fine il paradigma imposto della compagnitudine non è molto meglio del paradigma imposto da Google… ci sembra solo più ideologically correct, ma non è detto che questo sia meglio del politically correct del colosso di Mountain View e del suo don't be evil…)

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  1. Ainolop
    22 Agosto 2007 a 17:56 | #1

    ciao blicerino mio sono una tua fan io non capisco niente di computer ma mi hanno detto che tu sei il capo hacker quelli bravi e mi piacerebbe incontrarti rispondi mi raccomando ho visto una tua foto su internet ma non ti vedevo bene mettine una più grossa
    riguardo al commento del tuo manoscritto non so cosa dirti rispondi

  2. nero
    22 Agosto 2007 a 18:33 | #2

    accetto solo proposte sessuali dettagliate a mezzo e-mail. grazie.

  3. Ainolop
    22 Agosto 2007 a 20:48 | #3

    ciao blicerotto sono molto contenta della tua risposta visto che sei un hacker di quelli proprio bravi ma che non rispondono a tutti io non ho la email perchè uso computers viandanti che trovo in giro e mi collego come un razzo perchè se no magari tu che sei un hacker di quelli bravi mi scopri l’indirizzo del computer da dove ti scrivo mio caro se vuoi le proposte sessuali posso fartele solo qua e mi piacerebbe tanto che scrivessi tra i tuoi “friends” anche il mio nome per favore rispondimi subito bacio

  4. Ainolop
    22 Agosto 2007 a 21:05 | #4

    senti scusa mi ero dimenticata di chiederti un favore grande che quando inserisci il mio nome nella tua lista “friends” se potessi non metterlo vicino a Slavinia bacio grande rispondimi ti prego

  5. mosquito
    23 Agosto 2007 a 19:04 | #5

    ecco non vorrei disturbare…
    ma il post mi è piaciuto per gli argomenti sollevati: vado un po’ a ruota libera ok?
    Allora: tecnologie, mutamenti percettivi, mutamento della realtà, tutti passano da qui: le tecnologie sono strumenti di controllo? strumenti di dominio? In quanto a consapevolezza credo che anche il solo sollevare il problema in questi termini possa aiutare… in sostanza se la tecnologia è qualcosa che ci precede, ci anticipa, nel senso che non siamo noi a scegliere le innovazioni con cui poi dobbiamo fare i conti, allora non è mai neutra e non ha senso parlare di neutralità della tecnologia, così come non ha senso parlare di neutralità della tecnica o della scienza (elementi che ultimamente è sempre più difficile distinguere), in pratica non vale il vecchio ragionamento “x non è né buono né cattivo, dipende dall’uso che ne fai”.

    In quanto ai Loa… prima di tutto voglio dire che nutro un profondo rispetto per i loa anche se li conosco solo di vista, si può dire?… Loa: si può provare a immaginarli come agenti di significazione? Ciò di cui il protagonista del libro di Gibson si serve per crearsi un quadro cognitivo ragionevole entro cui muoversi e fare delle scelte? Si può dire che il Loa è un modello di interpretazione del reale che l’individuo elabora di continuo nel corso delle sue esperienze?
    Non sopporto le affermazioni dogmatiche.

    C’è un elemento che accomuna così loa e tecnologie: se entrambi ci precedono (nel senso che dicevo prima per le tecnologie) allora non sono entrambi strumenti di controllo/dominio?
    Non dipende, forse per entrambi, dalla capacità di elaborazione propria di ciascun individuo (di un gruppo etc.)?

    Ciao
    m.

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