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Genova non è finita

1 Ottobre 2007

Gianni Biondillo, che ho beccato al cinema mentre ci gustavamo entrambi la rassegna sui film di Venezia, mi ha chiesto se era possibile avere un report a scadenza regolare su come stava andando Genova. I processi sono in dirittura di arrivo, e io mi sto puppando tutte le udienze che riesco grazie al sostegno dei miei compagni e compagne in supportolegale. Le udienze sono sette in cinque giorni quindi dovrei essere pure ubiquo, ma ancora non ce la faccio. In compenso trovare spazi dove fare emergere che i processi non sono finiti e che come sempre a pagare di più saremo noi, è fondamentale (ogni gancio è ben accetto, anche la rivista Gnosis, se vogliono 🙂

Ripropongo il pezzo che è uscito oggi su Nazione Indiana anche qui. Presto ne farò uno anche per Carmilla. Intanto forse sarebbe il caso che ci si ricordasse che a novembre finirà il processo contro 25 manifestanti accusati di devastazione e saccheggio che verosimilmente prenderanno 10 anni a testa di galera, mentre tra novembre e febbraio finiranno i processi per l'irruzione alla Diaz e per le torture di Bolzaneto, che si spera vedranno almeno in primo grado qualche condanna (ovviamente non ve lo dico neanche che in questo caso ci penserà la prescrizione a chiudere il processo prima di una sentenza definitiva).

Genova non è finita

Sono passati sei anni dal G8 di Genova, e ogni volta parlarne per
cercare di dare un’idea di quello che ha significato e di quello che
significa ancora oggi diventa sempre più difficile. I giorni di Genova
e le loro conseguenze sono un evento estremamente complesso, dai
chiaroscuri ancora tutti da definire, un pezzo di storia ancora poco
digerito sia da chi lo ha vissuto sia da chi vorrebbe assumersi la
responsabilità di includerlo o escluderlo dalle storiografie ufficiali.
Genova è ancora viva, non solo nella nostra memoria, che dimentica fin
troppo in fretta, ma anche nel lavoro quotidiano che diverse persone –
sempre troppo poche – svolgono quotidianamente seguendo i processi che
rappresentano una delle responsabilità più gravose di quei giorni.
I processi stanno arrivando alla loro conclusione (intorno a questo
inverno). Questo primo dispaccio vuole essere un modo per
familiarizzare i lettori di questo blog con la densità che gli eventi
di Genova ancora hanno nella nostra vita di tutti i giorni. Genova è
tutti i giorni.

Lunedì.
Mi sveglio alle sei e mezza, prendo il treno da Milano per Genova alle
sette e dieci, in mezzo a pendolari con l’aria stralunata, e gente che
torna da una notte insonne di lavoro più o meno legale e disperato.
Nonostante la tratta sia di soli centoventi chilometri, ogni volta chi
prende quei vagoni deve subire la frustrazione di venti minuti minimo
di ritardo all’arrivo, inspiegabili e inspiegati dagli addetti delle
ferrovie dello stato. Litigare non ha più neanche senso quando capisci
che è un problema strutturale. Almeno ho l’abbonamento, penso con
rassegnazione.
Arrivato a Principe prendere il 35 e scendere in De Ferrari o farsi a
piedi tutta via Balbi fino all’Annunziata, via Cairoli e Fontane
Marose, fino a sfruttare il passaggio pedonale dietro il teatro, sono
più o meno equivalenti dal punto di vista cronometrico. Alla fine la
decisione ha sempre una forte componente gastrometereologica. Per le
nove e trenta entro in Tribunale a Genova, di fronte alla statua del
Balilla che lancia un sasso contro le soverchianti forze della
repressione, e scendo negli inferi dell’aula bunker, praticamente
prenotata in pianta stabile per i processi del G8.
Oggi c’è la prima udienza del processo sui fatti di Bolzaneto, dopo i
due mesi di ferie di giudici e avvocati: 45 persone tra poliziotti,
agenti della DIGOS, agenti della penitenziaria, medici, infermieri,
generali dell’Arma dei Carabinieri (e all’elenco solo per la solita
solidarietà di casta manca anche un magistrato) sono chiamati a
rispondere di lesioni, abuso d’ufficio, falso ideologico e tortura, se
il codice penale italiano avesse recepito le richieste europee per
l’istituzione di questo reato. Nella caserma di Bolzaneto trecento
persone, fermate in molti casi senza un reale motivo – le testimonianze
del processo raccontano di persone rastrellate mentre camminano lungo
un marciapiede – sono state sottoposte a sevizie mentali e fisiche per
ore, in alcuni casi per quasi un giorno intero: pestaggi gratuiti,
minacce di violenze sessuali, gente a cui è stata lacerata una mano
tirando da parti opposte medio e anulare, organizzazione di cori sui
motivetti del Duce per rieducare le “zecche rosse”. Ovviamente i
singoli agenti che hanno commesso questi delitti non sono mai stati
identificati e le persone che sono chiamate a processo denunciano di
non aver visto, di non aver sentito, di non aver ordinato. Altrettanto
naturalmente nessuno degli indagati è stato sospeso per accertamenti, o
punito in alcun modo, ma ha continuato la sua serie di promozioni senza
alterazioni nell’iter burocratico.
L’udienza finisce subito, perché uno degli imputati (un poliziotto) si
rifiuta di rispondere. Come se avesse qualcosa da nascondere. Come se
si vergognasse. Sarebbe già un passo avanti rispetto alla boria con cui
altri affrontano le accuse che gli vengono mosse. Intanto io sono a
Genova, scrivo il comunicato stampa, lo passo a uno dei miei soci per
spammarlo a mille giornalisti che non scriveranno manco una riga. Passo
nella segreteria legale, per vedere come va avanti il lavoro di
consulenza per il processo Diaz, poi alle tre riprendo il treno e torno
a Milano. Arrivo alle sei tra un ritardo e l’altro. Vado a casa,
mangio, e poi ho tutta la sera per lavorare.

Martedì.
Altra sveglia alle sei e mezza. Altro treno alle sette e dieci. Altro
ritardo. Altra corsa per arrivare in tempo in aula. Oggi non è
nell’aula bunker sotterranea, ma al quinto piano (che in realtà è il
primo, ma vai a capire come hanno numerato i pianerottoli del Tribunale
di Genova). D’altronde nel processo contro 25 manifestanti non ci sono
trecento parti civili e relativi avvocati come nel caso dei processi
contro le forze dell’ordine: i danni li chiede il comune e un paio di
poliziotti, pochi altri. Tutti i negozianti disperati che riempirono i
tg nei giorni subito successivi non si sono curati di seguire il
processo: hanno fatto le loro testimonianze retoriche e qualunquiste, e
si sono fatti dare i soldi dalla provincia. Mi siedo dietro i nostri
difensori, accendo il pc e inizio a trascrivere fedelmente quello che
si dice in aula, anche le frasette a mezza voce che non entrano nel
verbale ufficiale dell’udienza, ma che fanno capire il clima. Il
processo ormai aspetta solo le arringhe di accusa e difesa, e
l’atmosfera è molto più distesa. I pm sentono avvicinarsi il momento in
cui si potranno gloriare di aver condannato 25 persone a 10 anni di
carcere per un reato chiamato “devastazione e saccheggio” che è stato
pensato per frenare i saccheggi durante la seconda fase della seconda
guerra mondiale e che ora viene usato per poter punire persone che si
ritengono presenti a una manifestazione che degenera in scontri, senza
avere l’onere di accusare ognuno di loro di quello che hanno
esattamente fatto o meno. “Compartecipazione psichica e morale
all’evento criminoso”: in pratica eri lì, mentre succedeva il delirio,
mentre un ragazzo moriva per strada, mentre diecimila persone venivano
caricate, mentre la porta di un carcere prendeva fuoco dopo che i
coraggiosissimi carabinieri a difesa della struttura erano scappati a
gambe levate davanti a qualche decina di persone a volto coperto. Eri
lì e quindi eri d’accordo. Eri lì e quindi meriti di fare la galera.
Poco importa che questa sentenza sia antistorica rispetto al senso di
Genova, alla sua simbologia come possibilità di resistenza a un mondo
che sta andando a rotoli. Poco importa. Hai fatto il tuo mestiere, pm,
hai trovato la tua verità e vuoi che il tribunale la santifichi.
Ogni volta che trascrivo le udienze di questo processo assurdo guardo
gli imputati e ascolto le parole dei testimoni dell’accusa, ripasso
mentalmente le sensazioni dei giorni di Genova, e mi viene voglia di
spaccare tutto. Poi mi fermo e ricomincio a colpire i tasti del
portatile, nella speranza che quello che facciamo riesca a fare
emergere il senso tutto politico di questi processi.
L’udienza ci delizia con un quinto della requisitoria del pm. Sono le
sei di sera e si rinvia al venerdì per continuare. Esco, corro verso
una connessione a Internet. Intanto telefono a uno dei miei soci di
supportolegale per dirgli cosa mettere nel comunicato stampa che va
spammato al più presto a giornalisti che non scriveranno una riga, se
non per citare qualche nome famoso o per accondiscendere alla richiesta
dell’avvocato di questo o quel poliziotto molto conosciuto. Gli dico di
telefonare anche all’avvocato B. oppure a D. della segreteria legale
per sapere come è andata l’altra udienza che c’è il martedì, quella di
Bolzaneto. Finalmente collego il pc a Internet, pubblico la
trascrizione sul sito di supportolegale, mando mail a destra e a manca
per avvisare della cosa, scarico le mail e mi viene da piangere a
pensare alle altre quattromila cose che dovrei fare. Mangiamo qualcosa
al volo e poi chiamo A. per farmi ospitare stanotte a dormire. Alle
dieci e mezza sono uno straccio e svengo nel suo letto.

Mercoledì.
Mi alzo felice che non siano le sei e mezza, ma le otto e mezza.
Colazione, giornale, Tribunale. Di nuovo aula bunker. Però oggi è il
turno del processo Diaz. La notte del 21 luglio, quando ormai era tutto
finito, e la disfatta della gestione da parte delle forze del
(dis)ordine era evidente, i dirigenti più capaci della polizia italiana
decidono di fare una perquisizione nelle scuole dove c’erano gli uffici
del Genoa Social Forum, degli avvocati, di indymedia, e dei sanitari. A
chiunque non abbia le fette di salame sugli occhi è evidente che si
tratta di una vendettina schiumante rabbia, nel tentativo di
raddrizzare la situazione da un punto di vista comunicativo: andiamo
lì, arrestiamo i capi del black bloc, dimostriamo che erano tutti culo
e camicia con Agnoletto, e facciamo andare un po’ le mani che così
facciamo sfogare i ragazzi. Peccato che: l’operazione finisce per
sfuggire di mano e si ritrovano decine di televisioni e radio che
riprendono le scene di violenza e terrore su un centinaio di ragazzi e
ragazze che dormivano pacifici dentro una delle due scuole, la
Diaz-Pertini; tutti notano immediatamente che la perquisizione del
media center non ha fondamento legale e che serve solo a impedire che
qualcuno filmi l’irruzione – anche se almeno un paio di persone di
indymedia riescono a farlo lo stesso dal tetto – e a rastrellare le
testimonianze dei pestaggi avvenuti nei giorni precedenti e degli
avvocati disposti a curarne le denunce; nel giro di pochi giorni le
accuse contro tutti e 93 i fermati di resistenza aggravata e
associazione sovversiva finalizzata alla devastazione e saccheggio
vengono archiviate.
Comincia così il processo contro 29 poliziotti equamente divisi tra
dirigenti di un nucleo speciale di Roma del Reparto Mobile accusati di
non aver evitato che i propri uomini massacrassero persone inermi, e
alti dirigenti della polizia italiana tra cui il capo delle squadre
mobili Francesco Gratteri, il catturatore di Provenzano Calderozzi, il
capo di tutte le DIGOS Luperi accusati di aver falsificato le prove che
nel verbale di arresto accusato i 93 fermati. Le armi trovate sono in
realtà attrezzi da cantiere, nessuno ha potuto rilevare una resistenza
che i poliziotti hanno usato come scusa per i pestaggi, uno degli
agenti che ha affermato di essere stato aggredito con un coltello viene
smentito dai RIS, e – dulcis in fundo – due bottiglie molotov trovate
alla Diaz si scoprono essere reperti sequestrati il pomeriggio dai
poliziotti stessi in Corso Italia: in un video si vedono tutti i
dirigenti che con in mano il sacchetto con le molotov si apprestano a
posizionarle nella scuola Diaz per poi accusarne i fermati.
L’indagine di questo processo e il suo svolgimento sono il paradigma di
Genova: non si sa quali agenti hanno partecipato all’operazione, non si
sa chi la dirigeva, non si riescono a ottenere le foto dei
partecipanti, le dichiarazioni di tutti i poliziotti si contraddicono e
si autoaccusano, tanto che il capo della polizia Gianni De Gennaro e
l’ex questore Colucci vengono iscritti nel registro degli indagati per
aver indotto e aver reso falsa testimonianza, rispettivamente.
Il clima in aula è forse il peggiore: gli avvocati delle forze
dell’ordine sono solidali con i propri assistiti e non si risparmiano
il sarcasmo e l’ironia di fronte alle testimonianze della gente
massacrata e all’evidenza di quello che i propri assistiti hanno
combinato. In assenza di altro se la prendono con pm e avvocati delle
parti civili, insultandoli e denigrandoli ricordandomi i
collaborazionisti nei film sulla resistenza. E’ molto difficile
resistere alla tentazione di spaccare tutto. Ma resisto.
L’udienza finisce alle quattro, solita corsa per pubblicare la
trascrizione, solita corsa per scrivere un comunicato stampa che non
servirà a molto, soprattutto dopo che durante tutte le ore passate in
tribunale vedi i giornalisti di ansa, secolo xix e via dicendo che
tubano con gli avvocati delle forze dell’ordine, una faccia, una razza.
Quella dell’establishment a tutti i costi.
Alle sei prendo il treno e torno a Milano. Ho un’altra assemblea. Corro
per arrivare in tempo. Poi non ho testa per seguirla, e mi perdo metà
delle discussioni. Poi vado a letto. Mi aspettano ancora giovedì e
venerdì.

Giovedì.
Sveglia alle sei e mezza. Treno, ritardo, corsa, entrata in tribunale.
Oggi c’è il processo Perugini, ma anche quello per la Diaz continua.
Dato che il processo Perugini ha un’udienza ogni due mesi decido di
saltare l’altro: mi farò dare gli audio dai ragazzi di Radio Radicale e
poi in qualche modo trascriveremo le testimonianze. Poi al massimo
chiamo gli avvocati per sapere come è andata e fare il comunicato
stampa.
Il processo Perugini è il primo per il quale si è avuta una condanna
contro le forze dell’ordine: Giuseppe De Rosa, un DIGOS di Milano, ha
patteggiato l’accusa di lesioni ed è stato condannato a 20 mesi di
carcere con la condizionale e 10.000 euro di multa. Oltre a lui ci sono
altri 5 funzionari DIGOS di Genova (tra cui l’ex vicecapo dell’ufficio
Alessandro Perugini) che attendono la sentenza. Queste sei persone sono
indagate come responsabili del pestaggio di una decina di ragazzini che
sabato pomeriggio al margine della manifestazione di trecentomila
persone erano seduti in terra e canzonavano le forze dell’ordine: avete
presente la scena in cui c’è un ragazzino (minorenne all’epoca) che
grida in una telecamera mostrando il proprio zigomo spostato qualche
centimetro fuori dalla sua faccia? Ecco quella scena lì. Fortunatamente
in questo caso nessuno ha dubbi su come finirà il processo. Però è
interessante sentire cosa dicono i poliziotti coinvolti: “secondo noi
stavano resistendo perché erano seduti al di qua della zona che noi
interpretavamo come proibita”; “un poliziotto come me che ha
partecipato alla liberazione del generale Dozer sa che non si va per il
sottile, stavano resistendo e li abbiamo arrestati; non ho mai avuto
così tanta paura come in quei giorni” (di un quattordicenne disarmato e
seduto in terra?). Bella figura la polizia italiana.
L’udienza è rapida e fastidiosa, ma il processo è quasi finito. Faccio
in tempo a scendere nell’aula bunker e trascrivere anche un pezzo
dell’udienza Diaz.
Alle quattro finito tutto, altra girandola: Internet, doppio comunicato
stampa, pubblicazione sul sito, quattro chiacchiere in segreteria
legale e con gli altri di supportolegale. Alle otto riesco a prendere
il treno e tornare a Milano.

Venerdì.
Di nuovo: sei e mezza, sette e dieci, nove e venti, nove e trenta. I
tempi del mio calvario di prima mattina. Oggi dovrei andare a sentire
l’altra udienza del processo contro i 25 manifestanti per devastazione
e saccheggio, ma decido di farmi aggiornare dagli avvocati e dalla
segreteria legale sui processi per i cosiddetti “fatti di strada”: in
pratica centinaia di persone sono state fermate nei giorni di genova e
picchiate; alcune di esse hanno sporto querela per arresto illegale e
lesioni. In molti casi il processo contro i fermati è ancora in corso,
mentre la causa civile per chiedere i danni per l’illegalità della
condotta delle forze dell’ordine è ancora in alto mare. Ultimamente ci
sono stati un po’ di casi confortanti in questo senso: tre persone
hanno ottenuto dei risarcimenti dallo Stato per i pestaggi subiti
ingiustamente. Speriamo si continui così. Finito di farmi aggiornare
chiamo a Cosenza, che oggi c’è anche quel processo lì: un processo
contro 13 persone avviato dopo che i carabinieri hanno questuato in
tutte le procure italiane un pm che credesse alla serie di panzane che
avevano messo insieme i militari per accusare gli imputati di
associazione sovversiva. Anche qui la compartecipazione psichica, anche
qui messaggi ironici via mail scambiati per piani di battaglia,
telefonate in diretta alla radio interpretate come forma organizzata di
coordinamento tra manifestanti. Una farsa che farebbe molto ridere se i
13 imputati non rischiassero vent’anni di galera. Ma si sa, i
carabinieri e i pm a loro compiacenti hanno un senso dell’umorismo
tutto loro.
Oggi finisco presto. A mezzogiorno mangio un’insalatona a tre euro e
mezzo in piazza delle cinque lampade e faccio addirittura in tempo a
meravigliarmi per la differenza del costo della vita tra la città
ligure e Milano, dove l’avrei pagata tra i sette e gli otto euro.
Prendo il treno e torno su. Ritarda e arrivo a casa alle cinque.
Quasi non ci credo che ho il venerdì per bermi una virgin colada e stare tranquillo.

Sabato. Domenica.
Riposo? Dipende. A volte c’è una presentazione. A volte c’è una
trasmissione radio. A volte c’è un’emergenza anche per processi a
Milano, un corteo, una scadenza politica. A volte c’è la vita di tutti
i giorni, a volte c’è la sfiga. A volte invece tutto bene. Non sempre
però. Il problema è l’atterraggio, no?

Supportolegale era un gruppo di lavoro della rete di Indymedia
Italia, ora è un collettivo autonomo da altre strutture che si è sempre
occupato, da quando è nato nel 2004, di raccogliere fondi per le spese
legali relative ai processi per il G8 di Genova e per altri processi
importanti per i movimenti, nonché di offrire supporto tecnico e
comunicativo a tutti coloro che sono coinvolti nella lunga coda di
eventi legali e repressivi del G8 di Genova. Inoltre Supportolegale
vorrebbe dare una prospettiva politica diversa sulle operazioni di
repressione e controllo che quotidianamente dominano la vita dei
movimenti italiani e non solo. Unico principio: si difendono tutti i
manifestanti, senza alcuna distinzione. Tutti coloro che a Genova hanno
resistito e lottato meritano di essere difesi e sostenuti: Genova non
sono 25 sovversivi o 29 mele marce nella polizia. Genova sono
trecentomila sovversivi che possono oliare il meccanismo collettivo
della memoria e rivelare le menzogne con cui la storia sociale che ci
appartiene vorrebbe essere coperta da chi ha organizzato l’operazione
Genova-G8
.

 

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