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Vivere significa essere partigiani

19 Novembre 2008

 

Il testo che c’è sotto l’ho mandato a Carmillaonline il giorno della sentenza. Per vicissitudini personali di Valerio, Giuseppe e Roberto (i miei ganci da quelle parti) è stato pubblicato solo oggi. In ogni caso lo rigiro qui.

 

Vivere significa essere partigiani

Sabato 21 luglio 2001. E’ notte. I cortei e gli scontri che hanno
ribaltato la città di Genova sono finiti e la gente torna a casa stanca
e provata dalle botte, dalle corse, dai gas lacrimogeni, dalla violenza
della polizia, dalla paura, dalla sensazione che sarebbe potuto
accadere di tutto, che sia accaduto di tutto, ma che possa accadere
altro ancora. Sono in pochi a rimanere, principalmente nei grossi
centri di accoglienza: piazzale Kennedy, lo stadio Carlini, le scuole
Diaz e Pascoli, dove l’attività di comunicazione e assistenza legale
freme ancora. Per il resto migliaia di persone sono nelle stazioni e
sulle autostrade. La maggior parte delle persone pensa che ormai sia
finito tutto, che l’adrenalina di tutti stia lasciando il posto a una
spossatezza infinita. E proprio quando la penombra è al massimo della
sua intensità, quando gli occhi collettivi del mondo stanno per
chiudersi per passare al prossimo spettacolo, ecco che le luci si
riaccendono al massimo della loro intensità.

Squadracce di gente in divisa calano sulle due scuole dove si trova
la sede del GSF, indymedia, radio gap, molti media alternativi e
indipendenti, la sede del Genoa Legal Forum e un paio di centinaio di
persone che vogliono solo dormire prima di andarsene a casa. Nel giro
di un attimo sfondano cancelli e portoni e irrompono nelle due scuole:
al media center distruggono materiali e cercano di tappare occhi e
orecchie dei movimenti; alla scuola Diaz vogliono solo vendicarsi.
Vogliono avere compensazione, si direbbe in altri contesti, della
frustrazione che hanno provato in questi giorni in cui la rivolta ha
dimostrato loro quanto il potere che detengono e difendono non valga
nulla, quanto sia fragile ed etereo. La rivolta li ha fatti infuriare,
li ha stupiti e colti di sorpresa, li ha umiliati. E come un animale
ferito e armato hanno reagito nell’unico modo che sanno: hanno
preparato, organizzato e lanciato un’operazione semplice e violenta,
irrompere, picchiare, attribuire la colpa alle vittime. Deboli coi
forti, forti con i deboli. Come sempre. E poi una bella firmetta su un
verbale di arresto a sancire il fatto che l’operazione sia stata
legittima e necessaria, nonché giustificata.
Purtroppo per l’ennesima volta in quei giorni fanno male i calcoli:
l’irruzione si protrae più del previsto; arrivano media e parlamentari;
tutto il mondo si accorge dell’operazione e della sua grossolana
funzione. Nonostante questo per molti mesi pensano che lo Stato li
coprirà. Nonostante questo si arriva a un processo. Che dura anni. Il
processo è finito il 13 novembre 2008: tutti coloro i quali hanno
organizzato quella operazione infame sono stati assolti; tutti coloro
che hanno partecipato come ultime ruote del carro, coloro che hanno
picchiato perché gli è stata data mano libera, coloro che hanno portato
due bombe molotov in una scuola dove non ce n’erano per addossarle alle
vittime di una inumana violenza sono stati condannati; tutte le vittime
hanno ricevuto qualche spicciolo per non lamentarsi troppo.

Questa è la storia. Le vicende del G8 di Genova hanno molto da
insegnare a tutti coloro che vogliono prestare anche solo un attimo di
attenzione. I libri non la racconteranno così. I libri resteranno sul
vago quando andrà bene, oppure ignoreranno la più grande rivolta dopo
gli anni sessanta e settanta in Italia e forse non solo. Ma la gente
che era lì non la dimenticherà. E la rabbia che proviamo oggi di fronte
a questa sentenza non deve trarci in inganno, deve trasformarsi in
fatti, parole, ricordi, oggetti. Personalmente non ho mai creduto che
finisse diversamente da così: la giustizia è un meccanismo intrinseco
al potere, e non può permettersi di condannare coloro che la traducono
in fatti operativi tutti i giorni. I giudici, i poliziotti, i politici,
i governanti, gli imprenditori stanno da una parte. Noi, i poveracci, i
subalterni, gli sfruttati, i deboli stiamo dall’altra. Questa è la
grande verità di Genova, ed è anche la verità che più di tutte in
questa epoca cerca di essere nascosta. Non è tutto uguale, esistono
parti da prendere. Vivere significa essere partigiani. E alle volte
quando si prende una parte, si perde, anche se era la parte giusta.
Quando ho saputo della sentenza – già perché dopo quattro anni di
presenza in tribunale proprio negli ultimi tre mesi non sono potuto
essere presente – una delle prime cose che mi sono venute in mente è
stato Stella del Mattino,
di Wu Ming 4. Come ho già scritto altrove, quel libro parla proprio di
Genova e di quello che ci ha lasciato, di quello che ha significato per
tutti noi che siamo stati lì e l’abbiamo vissuta. Alla fine del libro,
come alla fine di tutto quanto è stato Genova, non ci resta che il
coraggio di credere che qualcosa possa ancora accadere, che la rivolta
continui ad esistere come possibilità se non come realtà. La sentenza
che chiude la vicenda Diaz, una vicenda talmente lapalissiana che è
difficile credere con quale faccia tosta verrà giustificata dai cavilli
legali dopo essere stata giustificata dall’inazione politica, deve
diventare la nostra stella del mattino: quella luce che tutti conoscono
e che nessuno può negare, eppure quella distanza che ci fa capire che
solo agire e lottare cambia ciò che ci circonda. Se saremo capaci di
imparare questo allora questi anni di lavoro e di parole non saranno
stati una donchisciottesca tenzone con mulini a vento parecchio più
grandi di noi.

Con i compagni e le compagne che hanno seguito Genova giorno dopo
giorno con me abbiamo scritto che non abbiamo rimorsi per quanto
accaduto a Genova, che quanto è avvenuto in quei giorni ci ha dato
coraggio e ci ha trasmesso il senso delle parole dignità e libertà.
Oggi per molti sarà il giorno dei rimpianti in un senso o nell’altro,
ma non per me. Rimpianti significa non aver fatto quello che si
riteneva giusto e necessario. Noi non possiamo averne. Perché ci
aspettano ancora molte cose. Ancora molte cose possono accadere sotto
il cielo e sotto Venere, e molta rabbia è pronta ad esplodere da sotto
la cenere. Fino a quando non ci saranno più storie da raccontare, da
ricordare o da vivere.
Ognuno di noi può demolire un mattone del Palazzo di giustizia di
Genova. Ognuno di noi può ancora lottare ed essere un partigiano.

  1. fulvio
    20 Novembre 2008 a 13:45 | #1

    bravo nero! la frase sui rimpianti l’ho sempre detta ai miei figli e sempre la dirò. mi hai fatto commuovere col ricordo dei partigiani…ho avuto uno zio nella “brigata garibaldi” ucciso nel massacro del monte di nese dai tedeschi dopo che ra sfiggito alla cattura alla “malga lunga”.
    Sei mai stato alla malga lunga, museo parigiano sui monti di gandino? se no, a maggio/giugno dell’anno prossimo ti ci porto una domenica. ciao Fulvio

  2. spacecozza
    21 Novembre 2008 a 12:04 | #2

    E’ vero. Non si può mollare. Ho mandato il tuo post a mia madre, si è commossa.

  3. olga
    22 Novembre 2008 a 3:49 | #3

    Anch’io mi sono commossa. Bravo!
    Oltre la sentenzia, peraltro come dici tu scontata, per “loro” è già una sconfitta che ci sia gente che non dimentica, nè gli eventi nè da che parte stare, e che questa gente non la riesci a piegare con le botte, con le ingiustizie, con i sopprusi, anzi… Finchè non si dimentica ci sarà sempre una piccola luce in fondo al buio,la memoria la alimenta, e la memoria li condanna!

  4. xavi
    2 Dicembre 2008 a 22:34 | #4

    Se non mi dici niente in contro, faccio la traduzione al catalano e lo pubblichiamo a enfocant.net. Con quel italiano che piano piano sto dimenticando 🙂

    saluti da barcellona 😉

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