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Timira

4 Giugno 2012

“Cercai di distinguere la Croce del Sud nel caos del firmamento, ma era peggio che riconoscere le sagome degli animali nei fondi di caffè. Non ero portata per quel genere di cose. La mia specialità era la vergogna della razza e decisi che mi ci sarei dedicata con grande entusiasmo.”

 

Mi sono affacciato su Timira aspettandomi un romanzo di Wu Ming, un prodotto fatto di epica ed esseri umani, e in un certo senso ho scoperto che il romanzo è proprio questo, anche se è così diverso da quelli a cui mi sono più affezionato. Forse perché è un’opera solo di WM2, o forse perché racconta una storia la cui epica e la cui potenza evocativa sta tutta nella battaglia quotidiana e nella sua conclusione drammatica e gattopardesca, nel derelitto paese in cui viviamo (sia io che WM2 :))

Dunque, signora Marincola, perché non torna nel suo paese?

– E’ questo il mio paese, l’Italia. Ed è stato il governo italiano a portarmi qua: non la guerra, non i somali e nemmeno la speranza. Io sono italiana. Un’italiana dalla pelle scura.

 

Alla fine il nocciolo è tutto lì: perché leggiamo e scriviamo? Perché vogliamo conoscere storie che ci raccontano qualche che è già intorno a noi, ciò che possiamo già vedere con i nostri occhi e sentire con le nostre orecchie? Perché le pagine scritte, i segni neri su un foglio bianco (o tutti i loro analoghi) sono una forma per obbligarci a guardare in faccia la realtà. Gli esseri umani sono ottimi dissimulatori, riescono a nascondersi le evidenze più truci, per sopravvivere. Allora il mondo che descrive Timira non è un mondo alieno, ma un mondo quotidiano. E non è un mondo quotidiano delle ultime forse meticce forse no generazioni, ma un mondo che viene da lontano e che ha da sempre accompagnato il contesto sociale e culturale italiano (e non solo): lo straniero siamo noi, ma non ci piace ammetterlo. Io per ricordarmelo sempre ogni sera prendo un caffè in uno dei tanti bar africani della zona di Porta Venezia: è facile, e mi costringe a non dimenticarmi mai (per sopravvivere) del mondo.

 

– Perché si impara a nuotare, se al largo ci sono gli squali? 

– Perché l’oceano è grande, – mi viene da rispondergli – Molto più grande di uno squalo .

 

Perché non dimenticarsi del mondo è necessario per vivere e per comprendere che cosa si combatte e dove. Perché la battaglia è quotidiana, anche quando sembra lontana. Ci sono così tante cose che non funzionano e che dovremmo trasformare nel nostro modo di vivere e nelle persone e nei luoghi che ci circondano che imparare a nuotare in questi mari, anche se ci sono gli squali, è una necessità, non un optional.

 

Pensai che rompere un equilibrio per poi rattopparlo era la regola d’oro di ogni faccendiere: dallo spaccio di droga alla guerra, lo stemma gentilizio degli uomini d’affari è un serpente che si morde la coda.

Per questo torno a ripetermi la domanda: ma gli italiani sono proprio così? Intendo dire che non ho ancora capito se un certo modo di fare è tipico di noialtri, oppure se si tratta di una miscela che potresti ritrovare pari pari nelle altre comunità di espatriati, più o meno con gli stessi effetti: i soldi, il prestigio fittizio, il clima vacanziero, il razzismo, la noblesse oblige da telenovela… […] Infiliamo nella miscela anche il nazionalismo spicciolo […] Sì, giusto, mettiamoci pure le raccomandazioni che non aiutano a selezionare gente meritevole. E poi le dimensioni della comunità, che per chi la frequenta è come vivere in un paesino di mille abitanti, e il fatto che intorno ci sia Mogadiscio o Saturno, non fa differenza. Quel che conta è poter cucinare spaghetti, fare quattro chiacchiere e avere la «generica», somala o saturniana che sia.

 

Parole di altri mondi e altri tempi, eppure ancora qui intorno a noi. Perché gli italiani sono così. Ma devono essere così? Siamo obbligati dalla nostra storia a ripetere e perpetrare un modello culturale e sociale basato sull’opportunismo e sull’incapacità di prendere posizione, di costruire, di difendere un’idea, o solo di rifiutarsi di considerare la dignità una questione secondaria? No. Siamo obbligati solo dalla nostra pigrizia, dalla nostra incapacità di guardare attorno a noi, di imparare a nuotare e a superare in velocità o in creatività gli squali e i serpenti che si mordono la coda. Ecco perché anche Timira è un romanzo epico, nella sua assenza di una conclusione epica, nella sua assenza di una dimensione eroica nell’accezione più romantica e meno realistica del termine: perché è la storia di un eroismo infinito, di una battaglia lunga una vita contro la normalità (del male). E’ un romanzo (post?) coloniale per un paese e genti che pensano di non averne nessun bisogno, perché ignorare i propri fallimenti è il modo più sicuro per vivere sereni e sbagliati. Mentre conoscere è il modo più sicuro per tradire la propria umanità e diventare essere umani migliori.

 

– Ascolta: sai per me quand’è che si diventa vecchi per davvero, al di là delle rughe e dei reumatismi? Quando si smette di cambiare. Infatti, quando non cambi proprio più, vuol dire che sei morto. […] Sai perché mi sento giovane? Perché ho fatto molti sbagli, errori su errori che mi hanno costretto a cambiare di continuo. Quindi, ti sembrerà strano, ma la mia medicina contro la vecchiaia si chiama fallimento. 

– Sicura? Io ho sempre pensato il contrario. I fallimenti sono una gran fatica, e chi fa troppa fatica invecchia prima degli altri. Almeno su di me hanno avuto questo effetto.

– Perché non li hai digeriti. Siccome il fallimento ha un sapore schifoso, hai pensato che fosse una specie di veleno e hai fatto di tutto per vomitarlo. Ed è quello sforzo che ha finito per consumarti.

 

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