E’ difficile prendere posizione su un libro di uno dei tuoi autori preferiti, specie se è un mostro sacro come William Gibson. Zero History, appena uscito all’estero, prevedo almeno tra un annetto nelle librerie italiane, è il terzo episodio di una saga cominciata con Pattern Recognition (L’Accademia dei Sogni) e proseguita con Spook Country (Guerreros). Sul secondo episodio ho scritto una recensione abbastanza lunga, mentre per il primo purtroppo mi sa che il blog non era ancora uno strumento che usassi molto. Il terzo episodio chiude il cerchio, anche se non lo fa con un’opera degna delle due precedenti. Ma anche questo è un grande classico di Gibson: mi ricordo la delusione di Mona Lisa Overdrive rispetto a Neuromancer o Count Zero; il lupo perde il pelo ma non il vizio.
Il romanzo parte da dove ha lasciato il precedente, dal problema di come venga definita la realtà attraverso le tecnologie, di come non ci possa essere un futuro definito come eravamo abituati a fare, dato che il presente è definito in maniera estremamente nuova. Già dal titolo Zero History vuole parlare del passato, ma non in senso classico. Ne parla come di qualcosa che non esiste più, che è zero, facendo scontrare il personaggio principale, sempre Hollis Henry con il deus ex machina di tutti e tre i libri, l’eclettico imprenditore Hubertus Bigend. Hollis siamo noi e Hubertus rappresenta la sintonia con il mondo (post)moderno: Hubertus è nemico della stasi e ossessionato dall’idea dell’atemporalità, e cerca un modo per far scomparire il mercato attraverso la sua trasformazione in un eterno presente, impossibile da prevedere e anche da ricordare. Hollis è l’imprevisto, il cuore di tutto ciò che è motore del cambiamento e della resistenza ad un mondo che si allontana da noi: perché per Gibson sono gli esseri umani l’unica speranza. Forse è invecchiato, o forse sono invecchiato io, ma faccio fatica a concordare. 🙂
Questa battaglia tra eterno presente e umanità del tempo si collega in maniera non del tutto lineare con gli altri temi della trilogia, e in particolare con la funzione dei brand e del mercato nella definizione della nostra vita, del paradigma in cui ci muoviamo, come una sorta di vera e propria bussola semantica. Se una visione moderna del brand è quella per cui i “target” non comprano merce, ma narrazioni, ontologie direbbe qualcuno, lo scontro semiotico sullo sfondo del libro è quello che cerca un superamento di questo stadio evolutivo del marchio: Bigend cerca disperatamente di comprendere i meccanismi di un brand che non è un brand, e che tuttavia genera ontologie capaci di stimolare un senso di appartenenza e di mitopoiesi superiori a quelli della moderna narrazione epica via fidelizzazione commerciale. Dall’altro chi ha immaginato questo meccanismo, che ha reso la segretezza del mito l’essenza stessa del mito e la sua adattabilità alla vita di ogni persona, continua con un processo di costante sottrazione alla definizione di ciò che è, di ciò che è stato e di cio che sarà. E’ una salto quantico nell’isolamento temporale dell’eterno presente.
Un tempo sempre presente, mai identico a sé stesso, capace di generare attenzione e percezione di altro, della vita e degli esseri umani, di nuovo al centro della creazione e della storia. Il cerchio si chiude. Zero History o History Zero? Gibson evidentemente è diventato un’ottimista, mentre il sottoscritto pensa che l’umano abbia poche speranze di smentire la sua vocazione alla sopravvivenza attraverso la degenerazione e la ferocia. Spero abbia ragione il mitico William.
Voto: 7,5