Genova non è finita… e tre
L’articolo che è uscito oggi su nazione indiana era stato scritto nella settimana precedente la sentenza. Ovviamente ringrazio Gianni Biondillo e Nazione Indiana per lo spazio che offre a quello che accade nei processi genovesi e comprendo perfettamente la scarsità di tempo che a volte stravolge i tempi di pubblicazione. Il pezzo rimane valido, anche se l’epilogo lo conosciamo già, ma la necessità di prendere posizione e di scegliere nella vita, rimane un principio fondamentale a cui ci hanno abituato troppo spesso a sottrarci, diffondendo una cultura e una società della pavidità che mi fa sinceramente vomitare.
Genova non è finita – 3
Seguire i processi che riguardano i fatti del G8 di Genova del 2001
è un buon viatico per non dimenticare mai quanto ordinaria sia
l’ingiustizia e quanto quotidiana sia la necessità di prendere
posizione e di agire sui piccoli istanti che ogni giorno mettono su un
piatto della bilancia la tua dignità e sull’altro l’opportunità. Ogni
giorno a Genova capita che tu ti renda conto di quanto falsi siano i
giornali, e prima ancora i giornalisti, di quanto repellente sia la
logica teatrale e superficiale che gli attori di un tribunale
interpretano nella loro vita – con alcune pregevoli e ammirevoli
eccezioni – o di come la realtà venga distorta durante l’esercizio
della cosiddetta giustizia.
So che i miei precedenti interventi su
Nazione Indiana hanno cercato di essere meno estremisti e più
democratici – come si ama dire oggi – ma esistono dei momenti, io
penso, in cui una persona deve scegliere da che parte stare, perché è
evidente a tutti che le cose non sono tutte equivalenti, che, come dice
anche il Papa, il relativismo è un male incurabile della modernità, e
un valore spesso abusato per giustificare ciò che non si ha il coraggio
di indicare come sbagliato.
Non fraintendetemi: non è solo frustrazione e fastidio, esistono
anche dei momenti di obiettivo tripudio. Quando dopo immani sforzi di
mediazione e dopo aver ingoiato giganteschi rospi pur di garantire una
partecipazione di massa di 80.000 persone che arrivano con ogni mezzo a
Genova per dimostrarti che non l’hanno dimenticata, e che non hanno
intenzione di dimenticarsi che poche persone – 25 per la precisione, ma
presto sapremo esattamente quanti – sono nelle mire della magistratura
come capro espiatorio da offrire alla storia per spiegare Genova, non
puoi che gioire.
Non puoi che sorridere e guardare il fiume di persone scendere di nuovo
nelle strade di Genova, e lasciarti confondere da quell’inebriante
oppioide che è la speranza. Per un attimo pensi che anche i magistrati
hanno occhi e cervello e cuore, addirittura lasci sorgere in te il
dubbio che il buon senso per una volta abbia la meglio sulla ragione di
stato e sulle necessità del potere e della Storia che lo rappresenta.
Ti basta tornare in aula due giorni dopo per scoprire che non è così.
Ti bastano le facce contratte in una smorfia di disgusto dei pm che
chiedono 225 anni di carcere per 25 persone, o il viso rilassato a
arrogante di chi difende macellai e aguzzini, ti bastano i dialoghi tra
i primi e i secondi che senti di sfuggita fuori dalle aule di
tribunale. Ti basta vedere due avvocati che si scannano insultandosi
come fossero i peggiori nemici e poi si fumano una sigaretta insieme.
Ti basta ascoltare un avvocato che difende un tuo fratello dare del
delinquente a un altro tuo fratello, con la famosa logica che racconta
che vendersi il proprio vicino di casa è un buon modo per allontanare
la propria fine quanto basta per non farsi scrupoli di coscienza.
Perché forse voi non siete abituati a stare in tribunale e allora forse
non vi rendete conto di quello che significa: ognuno in un’aula
interpreta un ruolo, definito e definibile, che ha i suoi margini anche
di eccesso, non solo di moderazione: come se quello che viene deciso da
un tribunale non abbia in palio la vita di una o più persone, come se
la storia non fosse piena di decisioni e assoluzioni e condanne che
fanno ribollire il sangue. L’unico antidoto a tutto questo è quello che
ha chi come me, con estremo cinismo o forse con medio realismo, non
crede nella giustizia, non crede nei teatrini, e crede che a pochi di
quelli che sono protagonisti in quelle aule freghi nulla del senso di
quello che fanno.
Ma a voi forse interessa poco questo mio sfogo, anche se, a ben
guardare un poco capire come funzionano alcuni dei luoghi determinanti
per l’esercizio e il mantenimento del potere, non dovrebbe esservi
completamente indifferente, se siete persone intelligenti. E se non
siete persone intelligenti mi sono sbagliato e passate pure al prossimo
articolo 🙂
Un breve aggiornamento sui processi è fondamentale. E’ giusto che voi
sappiate due o tre cose: settimana prossima il processo più importante
per Genova e per noi giungerà al termine. 25 persone verranno
condannate o assolte dal reato di devastazione e saccheggio, un reato
desueto e ripescato dalle cantine del diritto dai pm Canepa e Canciani
per giustificare una richiesta di pena spropositata – 225 anni – e
un’operazione terroristica contro la fondamentale libertà di
manifestare il proprio pensiero e il proprio dissenso. I giudici
Devoto, Gatti e Realini dovranno decidere se pavidamente accettare le
scelte dei pm in cerca di visibilità e di libri di storia, o se,
coraggiosamente, rispettare non tanto le mie posizioni estremiste,
quanto la Costituzione e il buon senso. Basterebbe quello.
Nel frattempo l’unico poliziotto condannato per lesioni nei processi
genovesi, l’ispettore della DIGOS di Milano Giuseppe De Rosa, è stato
assolto al processo di appello. Era stato condannato a 20 mesi di
reclusione per aver partecipato all’arresto illegale e al pestaggio di
alcuni ragazzi sabato pomeriggio, tra i quali il minorenne con lo
zigomo fuori dalla testa e la maglietta rossa che tutti dovremmo
ricordare. La corte di appello lo ha assolto perché la sua
identificazione non è certa, perché non basta il riconoscimento che un
suo coimputato ha fatto per essere sicuri che quello che manganella
nella foto sia proprio De Rosa. Provate a pensare se c’eravate voi al
posto suo, quanto ci voleva per condannarvi, e avrete presto fatto i
conti con l’emergenza democratica che il nostro sistema sta vivendo
giorno dopo giorno.
Nonostante la moralis interruptus dei pm del processo contro i
manifestanti, che si augurano che gli eccessi delle forze dell’ordine
siano portati a processo e puniti, ma in sei anni si sono guardati bene
dal fare alcunché, i processi contro i tutori dell’ordine per le
torture di Bolzaneto e i massacri della Diaz vanno avanti, tra mille
insidie, piccole scorrettezze e operazioni mediatiche. Seguire i
giornali sul processo Diaz, per esempio, rende facile capire come sia
tutta una questione di immagine, e che della salute delle 93 persone
arrestate – di cui 61 ferite – non interessa a nessuno. Così alle
indagini del pm per falsa testimonianza contro ex capo della polizia De
Gennaro, ex questore di Genova Colucci e ex capo della DIGOS di Genova
Mortola, corrispondono le operazioni speciose degli avvocati delle
difese, con telefonate già ampiamente note di vicini di casa
terrorizzati dai black bloc che mangiano un panino nella piazza poco
sopra la Diaz passati alle radio come dispettuccio da bambino
dell’asilo.
Ci vorrà ancora più di un anno per sapere come finiranno anche questi
processi, nonostante un anno sia il margine ragionevole per vedere anni
e anni di udienze svanire nel nulla con la scusa della prescrizione. E
a quel punto, quale sarà la verità se un tribunale non ce la sancirà?
Saremo costretti tutti, anche i paladini delle istituzioni a riscoprire
il senso delle parole storia sociale e organizzazione dal basso?
Speriamo di sì.
à la prochaine.