Neve

14 Ottobre 2009

 

Quando ho iniziato a pensare alla recensione per Neve di Orhan Pamuk avrei voluto scrivere che era un romanzo a cavallo di molti altri romanzi, che partiva da Kafka e arrivava a Beckett, o meglio che li attraversava e se ne lasciava attraversare. Poi ho pensato alla frase si Fazil che Pamuk lascia a chiosa del romanzo nelle pagine finali: "Se mi mette in un romanzo ambientato a Kars, vorrei dire ai lettori di non credere assolutamente a ciò che dice di me, di noi. Nessuno può capirci da lontano. […] Ci crederebbero, per considerare se stessi intelligenti, superiori e umani, vorranno credere che noi siamo ridicoli e simpatici, e che loro ci possono capire così come siamo, arrivando addirittura a provare affetto nei nostri confronti. Ma se mette questa mia frase, nelle loro menti si insinuerebbe un dubbio." E ho pensato che partire con la mia recensione con un paragone sarebbe stato esattamente il tipico comportamento paternalista – anche non voluto, anche ingenuo – stigmatizzato così spesso nel libro e centrale nella psicologia dei personaggi (e forse non solo dei personaggi, ma anche dei luoghi e della società che vogliono raccontare).
Così comincerò dicendo che il libro di Pamuk è un grande romanzo, ricco di ragionamenti sulla psicologia e la società turche, sull’antropologia della storia del paese dell’autore, e che fa ben capire perché in tempi meno aperti alla critica e al confronto lo scrittore sia stato messo all’indice dall’estabilishment turco. Già prima di andare quest’estate in Turchia, sono sempre stato positivamente colpito dalle produzioni culturale di quel Paese – soprattutto cinematografiche e recenti – ma dopo esserci stato devo ammettere di apprezzare ancora di più il libro di Pamuk.

[Saltate questo paragrafo se non amate veder rivelata la trama di un libro, io di solito me ne sbatto]
Il libro racconta del poeta in esilio Ka, del suo ritorno alla città della sua giovinezza, Kars, nel remoto Oriente della Turchia, al confine con l’Armenia. Questo suo ritorno è raccontato postumo da Orhan Pamuk, amico del poeta alla ricerca della storia degli ultimi anni della vita del suo amico. Ka ritorna a Kars per ritrovare la felicità, per ritrovare la poesia e l’amore. Troverà e perderà entrambe, in una città le cui vie di comunicazione con il resto del mondo saranno bloccate per la neve per tre giorni. Tre giorni in cui si consumerà la tragedia di Ka e delle persone che entreranno a far parte della sua vita, nonché di tutta Kars, scossa da un colpo di stato organizzato un po’ per l’arte e un po’ per la politica da un Carmelo Bene turco (Sunay Zaim).
[Fine trama]

Per me il libro da subito è stato un viaggio dell’autore attraverso se stesso. Se avessi ceduto alla voglia di fare il paragone con Kafka sarei partito con K, il personaggio più celebre dell’autore di lingua tedesca. E avrei speculato che Pamuk avesse attraversato le spoglie di K per creare Ka, un personaggio introverso, contraddittorio, umano e poetico nel senso più assoluto del termine. Ka infatti è il bambino, l’innocenza, l’assenza di cattiveria anche quando è meschino. E’ la poesia nella sua forma più alta, è ciò che ci rende esseri umani, è la felicità di fronte all’amore e l’incapacità di goderne appieno. Ognuno di noi è Ka, se si guarda in fondo all’anima, senza paura di ammettere la propria umanità, la propria cattiveria e la propria dolcezza, la propria meschinità e la propria grandezza al tempo stesso. Umano troppo umano.

Ka è Kar, la neve, com il nome del libro di poesie che scrive e che l’autore del libro cerca di ricostruire, come l’organizzazione che da a quel libro lungo le direttrici della Memoria, della Logica e dell’Immaginazione, ovvero dell’uomo che ricorda quello che è e quello che vive, dell’uomo che lo analizza, dell’uomo che ama ciò che vive. Kar, la neve in turco, è la rappresentazione dell’innocenza, è la versione di Ka dello spettacolo di Sunay che trascinerà nella tragedia la città di Kars e le vite di Ka e dei suoi cari. Così allora Kar, Neve, è la tragedia di Ka.

E Kar è Kars. Un’altra lettera, un altro passo nel viaggio. E’ la realtà descritta nel romanzo, nella finzione, innocente e primitiva, in balia degli uomini e del confronto tra gli uomini e il mondo. Kars è il mondo, in quei tre giorni, secluso al resto del mondo, è tutto ciò che esiste al di fuori dell’umano. E’ tutto ciò che esiste al di fuori della poesia: è ciò che ci opprime, che ci libera, che ci aggredisce e che ci blandisce, sono gli ostacoli e sono anche i covi che vi troviamo, i nascondigli, le possibilità. Per tornare a Nietsche è una volonta che ci sfida e che noi siamo costretti a sfidare, in quanto esseri umani.

E alla fine a Kars arriva anche Orhan, l’alter ego dell’autore identico all’autore. Insegue il fantasma di un suo amico, vi si confonde, ne calca le orme fino a trasformarsi in Ka stesso. Pamuk arriva a capire Ka, e con esso la Turchia, la porta tra Oriente e Occidente, e la disperata situazione della sua società (e della nostra): "Chi si accontenta di essere felice, non può essere felice"; "In tutte le persone che parlarono c’era l’attesa di un uomo eroico e leale che avrebbe salvato tutti […], ma non facevano niente di concreto".
Orhan diventa Ka, forse è sempre stato Ka, e il suo pianto finale è il pianto per l’innocenza perduta, per la realtà ritrovata, per la speranza a cui è difficile credere, per la tragedia eterna dell’uomo (Nietsche).

PS: ovviamente ci sono altre mille storie e altre mille interpretazioni, tanto da poterne riempire altri dieci libri, personaggi fantastici come Kadife o come Necip/Fazil, ma recensire un libro è offrire un punto di vista parziale e personale alla mercé di tutti coloro che si prendono la briga di leggere e di discuterne. 

Categorie:pagine e parole Tag:
  1. b.
    14 Ottobre 2009 a 15:06 | #1

    che dire, sono contento che sei entrato nel tunnel, figurati che minchia vedrai – e scriverai – se leggi il libro nero o il mio nome è rosso.

    affascinante l’escalation che proponi tra nome, neve e città, davvero interessante e totalmente condivisibile. Veramente interessante. Se poi si parte dal K. kafkiano le derive diventano imprendibili.

    aggiungo una cosa: a un certo punto c’è tutto un dialogo per la firma di un documento che poi Ka, e vabbè lì è il delirio, dovrebbe addirittura pubblicare in Germania…ci sono curdi turchi islamici, chiunque. In quei dialoghi ci sono momenti di una comicità esemplare, secondo me. Per dire che Pamuk ha dei colpi di genio sia nel farti piangere, sia nel farti ridere.

    e affanculo Blu!
    🙂

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