Monocromatica, sesta recensione su affari italiani
La sesta recensione (con annessa intervista) è su Affari Italiani, nella sezione culturale, ad opera di Bruno Perini, che ringraziamo per non aver tagliato neanche una riga dell'intervista via mail (a parte travisare radicali con radical ihihihihi). La riporto qua sotto integralmente 🙂
Noir/ Un giallo nella Milano multirazziale: ecco "Monocromatica" di Blackswift, due anonimi attivisti 'ispirati' a Wu Ming
"Monocromatica. La storia è scritta col sangue". Il titolo, enigmatico e altisonante al tempo stesso, rispetta tutti i canoni del thriller o del giallo classico. E dunque ci si attende anche una Milano, la città dove si svolge la storia, alla Piero Colaprico. Ma non appena si mette il naso nelle pagine del libro scritto dal misterioso R. S. Blackswift e pubblicato dalla Colorado Noir si scoprono tante cose curiose. Intanto il misterioso Blackswift non esiste, è un nome di fantasia dietro il quale si celano due "attivisti dell'underground milanese" che non cedono al disvelamento dell'anonimato neppure durante l'intervista. E l'altra cosa curiosa è proprio Milano: di Colaprico c'è soltanto la presenza di una Milano ormai multirazziale, per il resto la Milano di Blackswift è ben lontana dalla "Trilogia della città di M.". Ed è lontano mille miglia lo stile: Blackswift, non sappiamo ancora con quali risultati, osa mischiare generi diversi, dall'occulto al mistery con un tocco di storico, un'operazione difficilissima che è riuscita soltanto a Margaret Atwood con "L'assassino cieco".
"Monocromatica" è la storia di una giovane cinese travestita da uomo, un ragazzo arabo un po' sbalestrato, un africano e un esperto di informatica alla ricerca di un mistero. E un killer dai tratti eroici. Il presente si sovrappone al passato che sprofonda in un caso fino al 397 dopo Cristo. Nel peregrinare spericolato dei personaggi Milano c'è tutta: da piazzale Loreto a viale Corsica, dal Ticinese a Paolo Sarpi fino ai meandri del centro. Abbiamo rivolto agli autori qualche domanda, rispettando il loro rigido anonimato.
Come nasce il libro?
”Dalla nostra voglia di raccontare alcune vicende che viviamo tutti i giorni trasponendole con ben poche correzioni (più che altro con un po' di sarcasmo e un po' di fantasia) in un contesto narrativo. Da questo desiderio è nato l'esperimento del sito Blackswift. Poi dalla semplice satira è cominciata la voglia di raccontare anche molte altre sfumature di come la realtà si possa percepire”.
Perché la scelta dell'anonimato?
”Attenzione non è una scelta di anonimato, ma al contrario una scelta di polinomia, in un certo senso. Ogni cosa che facciamo, ogni progetto a cui ci dedichiamo ha una sua identità e alcune caratteristiche: alle volte una identità già definita è più un peso, un filtro attraverso cui nel bene e nel male si filtra ciò che si esperisce di un progetto. La nostra vita come narratori era una vita nuova rispetto ai progetti a cui abbiamo partecipato e ci sembrava giusto dargli l'adeguata dignità, la possibiltà di giocarsela indipendentemente da chi si cela dietro il nome Blackswift. Molti giornalisti lo vivono come una specie di dispetto e come una scelta di non assunzione di responsabilità, ma dovrebbe invece essere vissuto come un gioco e come una possibilità di slegare Blackswift almeno in parte dalle nostre identità storiche (già un racconto vive molto dell'identità degli autori e dei lettori, ma questo è un altro discorso)”.
Chi siete? Potete raccontarmi, pur nell'anonimato, qualcosa di voi?
”Siamo due attivisti della scena milanese, anche se non siamo entrambi nati a Milano (uno sì e uno no). Abbiamo partecipato a molte esperienze politiche della città e non solo, che ci piace annoverare tra quelle più innovative e radical”.
Nel romanzo convivono diversi generi letterari. Ricorda un po' "Assassino cieco" di Margaret Atwood. Come mai questa scelta?
”Uh-uh, paragoni complicati… Nel romanzo convivono generi diversi perché non ci piaceva confinarlo a uno solo. In realtà si potrebbe dire che i generi rappresentano anche la sensibilità di chi lo ha scritto: da un lato un fantasy moderno in cui il mito e il rito diventa strumento per interpretare la realtà, per trasfigurarla in qualcosa che non è ordinario ma che allo stesso tempo fa parte della nostra quotidianità, quello che per esempio Wu Ming definirebbe un po' un processo di mitopoiesi pop. Dall'altro lato le tonalità del noir che rendono meglio i chiaroscuri, i cambi di tono, in una visione del mondo che ci circonda che difficilmente si adatta agli acquarelli in cui tutto è sempre relativo, tutto è sempre uguale, in cui le differenze non sono qualcosa che riempie la vita, ma qualcosa che deve essere allontanato come una specie di spauracchio. L'idea da un certo punto di vista è che questa sua dimensione mista aiuti anche a renderlo un libro su cui ci si sofferma un po' di più, e nel caso piaccia diventi parte di una identità culturale che necessita fortemente di essere rifondata nelle nostre città, e non certo sulle stesse linee di quella che ora va per la maggiore. Ci immaginiamo questo libro come un libro che cresce nella considerazione delle persone a medio termine più che un libro che si divora, infervora e poi scompare nei meandri dei quintali di fogli buttati al macero ogni anno. Un'operazione di incursione nella cultura pop in un certo senso, o magari ci piace anche solo illuderci che possa esserlo”.
L'impianto narrativo, passato presente, ogni tanto non è chiaro. E' una scelta?
"Alla prima esperienza con un ‘mediometraggio narrativo’ non era facile bilanciare tutti gli strumenti dell'arte del raccontare. Abbiamo fatto il possibile e pensiamo che ne sia uscito qualcosa di buono. La dimensione della confusione in ogni caso è sempre parte della definizione del rito: se tutto fosse limpido, nessuno cercherebbe di calarsi nel racconto e lo farebbe proprio. In parte c'era la voglia di provare a dare una strutturazione non banale al raccontare, dall'altro il libro in fondo in fondo è la storia di un rito che attraversa la storia di Milano in cerchi concentrici e che attraversa la vita dei personaggi. Un rito di passaggio che trasforma la città, le vite delle persone che ci vivono, la percezione della sua storia e dei suoi angoli, la città come uno spazio soggettivo più che oggettivo. Se la protagonista "nascosta" (mica tanto!) del libro è Milano, allora è naturale che ci sia anche un po' il desiderio di ricordarla attraverso alcune delle cose che ha vissuto nella storia, di reintepretare non solo il presente attraverso la trasposizione narrativa, ma anche la storia, per cercare di raccontarla da un altro punto di vista”.
Interessante la Milano multietnica che ne esce. E' quello il modello che avevate in mente?
"Più che un modello è la realtà che viviamo tutti i giorni. Basta mettere il naso fuori di casa un po' più spesso che per un semplice aperitivo al bar. Attraversando le contraddizioni della città, vivendone le strade, non è difficile accorgersi delle persone estremamente diverse che ci vivono e che cercano costantemente qualcosa, che alle volte è difficile conoscere. Molti dei personaggi nel libro sono sostanzialmente persone che appartengono alla nostra vita quotidiani, leggermente romanzati nel ruolo e nelle abitudini. Milano come ogni città è molto viva, magari non secondo la vita rifinita e patinata che qualcuno vorrebbe rappresentare, ma non passa istante che non accada qualcosa, che non si accenda una possibilità. Inoltre c'era la voglia di raccontare le identità, la loro trasformazione, la loro malleabilità, la difficoltà di liquidare tutto con un po' troppo qualunquismo come siamo fin troppo abituati a fare da una cultura mainstream che con quest'arma ha distrutto ogni capacità di elaborazione intelligente da parte delle persone nei confronti della loro vita. Il rito che è al centro del libro è anche il rito del superamento delle identità, della loro evoluzione (in direzioni talvolta parecchio impreviste)”.
Il giallo è un pretesto o vi rifate a qualche giallista classico? Qual è il vostro modello, se esiste?
”Domanda un po' impegnativa e che ci costringerebbe ad atteggiarci da persone più serie di quello che siamo. Amiamo molti autori, spesso per nulla vicini l'uno all'altro, e le influenze di quello che leggiamo e vediamo penso si percepisca chiaramente nel libro. Da Gaiman a Miller, da Leonard a Pynchon (questo non si vede ma vi assicuro che almeno uno di noi due è praticamente malato per TRP), da Stephenson a Gibson, da Derek Raymond a moltissimi autori del noir. Forse quello che è più interessante è a quale operazione culturale sarebbe bello sentirci accostati pur non pensando di essere all'altezza: certamente il percorso di Wu Ming e tutto il loro ragionamento sulla cultura pop, sulla necessità dell'incursione nel terreno della mitopoiesi, il loro tentativo di attraversare la storia e la letterattura di genere per entrare in contatto con chi altrimenti non si affaccerebbe mai su determinate tematiche e determinati punti di vista. In quanto attivisti anche questo nostro esperimento narrativo non può essere considerato distante dal nostro desiderio di intervento politico, ma questo non era difficile da indovinare, anche se speriamo che non appesantisca le nostre storie. Le storie vivono di vita propria e potremmo dire che se c'è una cosa che si può dire riuscita di questo libro è che ogni lettore incontra qualcosa di diverso, che si intreccia con la sua vita e con le sue esperienze, trasformando il racconto in una parte della sua identità culturale, dei riferimenti attraverso i quali percepisce la realtà e sé stesso in relazione con il tempo e con lo spazio. Forse descritto così sembra un po' presuntuoso, ma quello che abbiamo appena descritto è per noi l'indice che distingue un buon libro da una cartelletta di fogli”.
Bruno Perini
beh l’accostamente con la atwood mi pare particolarmente lusinghiero. ne sono felice per voi. baci