Le Benevole

11 Gennaio 2008

Riposto qui un ottimo articolo di Wu Ming 1 a commento del libro Le Benevole di Jonathan Littel. Lo condivido molto e il libro è ottimo, anche se forse tirato un po’ per le lunghe. Non è di facile lettura e su alcuni passaggi mi pare che strafaccia per la caratterizzazione del personaggio, ma nulla è perfetto. Consigliato a tutti.

 
NESSUNO È IMMUNE DAL DIVENTARE NAZISTA

Le benevole, Supercoralli Einaudi, 2007Impressioni dopo la lettura del romanzo Le benevole di Jonathan Littell

di Wu Ming 1
da "L’Unità" del 30 settembre 2007

Premio Goncourt 2006. Monumentale opera prima scritta in francese da
uno statunitense. Caso editoriale in diversi paesi. Oggetto di stupore,
shock e ammirazione. Alzate di polveroni a destra e a manca da parte di
storici e critici, di ebrei e gentili. Perché?
Perché è chiaro fin da subito (dal lungo prologo intitolato "Toccata") che Le benevole di Jonathan Littell vuole imporsi come il romanzo supremo e definitivo su Germania nazista e sterminio degli ebrei.
Di questa ambizione, questa hybris
che fa scavalcare ogni argine e sfidare ogni precedente narrazione
sull’argomento, ho un’esperienza diretta di molti giorni. Leggere Le benevole è ritrovarsi testimoni, percossi e attoniti, di un tracimare:
goccia dopo goccia, rivolo dopo rivolo, il fiume di dati, episodi,
conversazioni, ricordi, sogni e citazioni si compone, si allarga, si
alza, si gonfia finché non esonda. Arriviamo sul fronte russo sospinti
da un’alluvione, immane ondata che spazza via interi mondi e
innumerevoli vite, finché non impatta con la resistenza di Stalingrado,
inattesa, inspiegabile. Le giornate di Stalingrado scavano un momento
di "vuoto" nel romanzo e nella vita del protagonista, Maximilien Aue,
ufficiale SS. Il vuoto si riempie di follia, follia per una volta non
sistemica né organizzata, follia non burocratica bensì singolare e
selvaggia. L’accerchiamento sovietico apre un crepaccio nel tempo e la
psiche devastata di Aue produce visioni e fantasticherie. I passaggi
sono fluidi, non più scanditi da cifre, date e acronimi, tutto è bianco
e non si sentono rumori… E’ a questo punto che l’onda s’incurva e
volge indietro, con violenza moltiplicata. L’Armata Rossa e il Generale
Inverno annichiliscono la Sesta Armata. Aue si salva, lo riportano a
Berlino.

Una volta respinta, la piena – che, ripeto, è una piena di informazione
– copre altre direzioni, invade altri campi. Le acque brune e scure
trasportano nuovi dati, episodi, conversazioni, reminiscenze di incesti
e sodomie, incubi e rimandi ad altre opere (drammi, romanzi e saggi,
film e documentari). Personaggio, autore e libro s’impantanano
nell’asfissiante burocrazia dell’universo concentrazionario, della Endlösung, dell’Olocausto. Che è ormai soprattutto amministrazione: se le spaventose Aktionen,
i massacri di ebrei nell’Ucraina occupata, avevano smosso la coscienza
del protagonista sferzandolo con dubbi e rimorsi, la "soluzione finale"
lo trova desensibilizzato, apaticamente dedito al compito: "adesso
predominava in me una grande indifferenza, non tetra, ma lieve e
precisa". Siamo a poco meno di 2/3 del romanzo: Auschwitz compare solo
adesso, ecco Höss, ecco Mengele… La piena diventa un lago artificiale
di acqua densa, appiccicosa, le minuzie galleggiano e si attaccano alla
pelle. "E poi, se dovessi ancora raccontare in dettaglio tutto il resto
dell’anno 1944, un po’ come ho fatto fin qui, non la finirei più.
Vedete, penso anche a voi, non soltanto a me, un pochino perlomeno,
certo ci sono dei limiti, se mi sobbarco tutte queste fatiche non è per
farvi piacere…" E avanti così, poi la catastrofe, la fuga, la
mimetizzazione borghese.

Questa non è semplice audacia da esordiente: l’impressione è che l’autore sia stato travolto
dai propri studi e dal progetto narrativo, e ne sia rimasto
prigioniero. Littell si è recluso per anni nel mondo che andava
evocando, la Germania del Terzo Reich vista come un unico, grande campo
di concentramento che imprigionava anche i carnefici e i loro complici
(immagine proposta anni fa da Bruno Bettelheim). Siccome "è libero chi è vassallo" (Frei sein ist Knecht sein), ne è derivato un grande arbitrio del raccontare: Littell vuole dire tutto, mostrarci tutto, descrivere ogni meccanismo, indugiare su ogni delitto.
Le benevole è un libro iperrealistico, sembrano davvero le
memorie per troppo tempo procrastinate di un ex-criminale di guerra.
Nel numero di pagine (956 nell’edizione italiana, per giunta fittissime
e quasi prive di a capo), nell’esorbitante numero di divagazioni ed
eccedenze, nell’attenzione pedante per i minimi dettagli, si manifesta
la tipica "incontinenza" dei memoriali di certi anziani.

Le benevole sembra anche la versione narrativa (e capovolta,
poiché dal punto di vista degli assassini) della colossale impresa
storiografica di Saul Friedländer, i due volumi de La Germania nazista e gli ebrei. Friedländer aggiorna le ricerche di Raul Hillberg
e si dedica alla ricostruzione più vasta e minuziosa della "soluzione
finale", attingendo a ogni sorta di fonte, procedendo per accumulo di
migliaia di microstorie, che collega e incastra fino a indurre il
quadro generale. Tuttavia, la narrazione di Friedländer è
moltitudinaria, sono milioni di persone a reggerne il peso e il dolore.
La storia più difficile da raccontare e da ascoltare batte sulle tempie
mentre leggi, e solo un impianto corale può darle fondamenta abbastanza
solide. Le benevole ha invece un solo protagonista, unico
"filtro", un "io" dai piedi d’argilla che sotto il peso della tragedia
sbanda, si incurva, sovente cade, perde consistenza e coerenza. Che
compito ingrato, il soliloquio dell’inenarrabile.

La domanda che si pone il lettore è: perché Aue – nonostante il
disgusto, i conati di vomito, la diarrea psicosomatica che lo
perseguita per quasi mezzo libro – fa quello che fa?
Perché a suo modo è un illuminista, sembra dirci Littell. E’ un giovane
intellettuale dalle buone, anzi ottime, letture, ed è consapevole della
“dialettica negativa” dell’illuminismo, tanto da volere vederla
compiersi.
[Qui sorvolerò sul fatto che il cosiddetto "illuminismo" liquidato da
Adorno e Horkheimer e poi da frotte di pensatori postmoderni non
corrisponde in alcun modo all’illuminismo storicamente, concretamente
esistito. Lo spiega molto bene Robert Darnton nel suo L’età dell’informazione, Adelphi 2007.]
In parole povere: Aue vuole scoprire fin dove potrà spingersi prima di
smettere di provare qualcosa. Vedere se i mille pretesti, le
razionalizzazioni di comodo, i falsi sillogismi riusciranno a prevalere
sulla nausea, la pietà e i sensi di colpa. Man mano che ciò accade, si
trova a rimpiangere
l’orrore e la pena che provava al principio, "quello choc iniziale,
quella sensazione di una frattura, di uno squassarsi infinito di tutto
il mio essere". Aue è la cavia del proprio esperimento sui limiti
dell’umano. Insieme a noi, "fratelli" chiamati in causa fin
dall’incipit, scoprirà che l’umano non ha limiti, che "disumano" e
"inumano" sono epiteti ipocriti. E’ questo ad avere turbato molti
lettori.

La consueta trappola dell’io narrante: io cammino con Aue, lo seguo
nell’esperimento, ragiono con lui, in un certo senso sono lui, come lui
è me e chiunque di noi: "Gli uomini comuni di cui è composto lo Stato –
soprattutto in periodi di instabilità -, ecco il vero pericolo. Il vero
pericolo per l’uomo sono io, siete voi. E se non ne siete convinti,
inutile continuare a leggere oltre. Non capirete niente e vi
arrabbierete, senza alcun vantaggio né per voi né per me."

Finché Aue soffre per il dolore che infligge, io soffro insieme a lui, ho gli stessi conati di vomito. La descrizione delle Aktionen
in Ucraina è quasi insostenibile: chi è padre o madre vedrà i propri
figli in ogni bambino fucilato e gettato nudo sul cumulo di morti.
Queste pagine fanno amare la vita disperatamente, ti ci fanno
aggrappare con tutte le forze, perché non c’è nulla di "edificante" nel
modo in cui le vittime vanno a morire, sono decine e decine di pagine
di macelleria a cielo aperto, pagine brutte, perché è la morte
violenta a essere brutta: non c’è tempo per ultime frasi che tocchino
il cuore; non c’è spazio per pose plastiche nella calca della fossa
comune; la morte subita in mucchio è ancor più misera e priva di
redenzione.

Gradualmente, però, la quantità mi prevarica, fa scattare le mie
difese, distanzia l’esperienza e annulla la compassione. Un morto è
omicidio, un milione di morti è statistica, ipse dixit. Di
massacro in massacro, mi desensibilizzo insieme ad Aue, conseguo il suo
medesimo distacco. Il romanzo coglie nel segno (se questo era il segno
a cui mirava) e arriva a dimostrare che chiunque può abituarsi
all’orrore. Al limite la pagherà con disturbi psicosomatici, cacarella,
bruxismo… Poca roba. Del resto, non muoiono di fame e stenti ogni
giorno migliaia di bambini senza che io ci perda il sonno? Il fatto che
io non sia lì a guardarli morire, bensì distante migliaia di miglia, mi
rende poi tanto diverso da Maximilien Aue, mi rende forse più innocente
di lui? Aue è mio fratello, è contro me stesso che devo vigilare,
nessuno di noi è immune dal diventare "nazista".

Littell, per dirla in una delle sue lingue native, has got a point,
eppure il suo successo è un fallimento, perché mi anestetizza, toglie
calore alle dita che reggono il libro. L’inflazione della valuta-morte
mi fa davvero sembrare uno sterminio poco più di una statistica, e il
rischio è che diventiamo più cinici anziché più vigili nei confronti di
noi stessi. Eterogenesi dei fini. Per metterla giù in modo chiaro:
finiamo la lettura più stronzi di quando l’avevamo iniziata.

Detto questo, è un romanzo importante, epocale, che non si può né si
deve ignorare, che va letto e affrontato. E’ anche un romanzo impervio,
con centinaia di nomi e cognomi che non è possibile tenere a mente,
parole tedesche che mettono soggezione, scartoffie infilate nel flusso
senza alcuna mediazione. Sovente Littell va oltre il nozionismo e si
produce in tirate piene di riferimenti criptici, come se si stesse
rivolgendo – e forse è davvero così – alla corporazione degli storici
anziché ai lettori comuni.

Durante un viaggio a Parigi, Aue si imbatte in un libro di Maurice Blanchot, Passi falsi, il quale contiene un saggio su Moby Dick,
"libro impossibile" che "si rivela solo attraverso l’interrogativo che
pone". Fin troppo scoperta, la dichiarazione di poetica: Littell è
melvilliano dallo sfintere al nervo ottico. E se Melville – come fa notare Henry Jenkins – scriveva così perché era un fan, un appassionato della navigazione che voleva sviscerarne ogni aspetto, allora Littell di cosa è fan? Littell è un fan
del Novecento, inteso come "secolo di ferro e fuoco". Coglierne
l’essenza è stato per anni la sua ossessione, la balena bruna a cui
dare la caccia.

Ma non è forse l’ossessione di noi tutti? Quel mondo è sempre con
noi: la seconda guerra mondiale è l’evento storico più raccontato e
rappresentato di tutti i tempi, e il Führer ci tiene compagnia
continuando a sbucare come monito, icona pop, pietra di paragone.
Qualunque sterminio e genocidio è implicitamente o esplicitamente
valutato in confronto alla Shoah, a cui ci riferiamo per metonimia:
"Auschwitz". Qualunque nemico, anche occasionale, viene paragonato
all’imbianchino. L’avvocato americano Mike Godwin ha coniato una "regola" (Godwin’s Law)
secondo cui "più una discussione on line si protrae nel tempo, più
aumentano le probabilità che uno dei partecipanti venga paragonato a
Hitler."

Le benevole non sarà il romanzo definitivo su nazismo e
dintorni. Continueremo a raccontare quella storia, perché non possiamo
farne a meno. Ci viviamo ancora dentro e chissà quando ne usciremo. Il
nazismo ha perso eppure ha vinto, condicio sine qua non del nostro immaginario.

– Jonathan Littell, Le benevole, traduzione di Margherita Botto, Supercoralli Einaudi, Torino 2007, pp. 956, € 24

 

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