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Fini, il velo, la religione, la destra che si insinua

25 Ottobre 2006

In prima pagina del corsera (che leggo in quanto indicatore del mainstream che più indicatore non si può) oggi la mia attenzione è stata attratta da un riquadrino firmato dal leader di AN Gianfranco Fini. L'articolo è dedicato a una disanima del problema del velo, ma quello che per me risulta interessante (al di là della questione del velo che mi pare uno specchietto per le allodole come confermerà la lettura integrale della lettera) è la capacità del leader di AN di riciclarsi come politico rispettabile e la sua maestria nell'insinuare la prospettiva della destra conservatrice e bigotta (storicamente cammuffatta sotto l'egida del liberalismo) in frasi grondanti buon senso e rassicurazioni prevostali. C'è da dire che la sinistra italiana è da tempo incapace di rispondere sullo stesso piano, orfana di politici capaci e di pensatori degni di questo nome (non me ne vogliano le eccezioni).

Nella lettera (che trovate se cliccate sul tasto "continua" del post), Fini parte da una disanima ragionevolissima sul perché non sia il velo il problema ma l'estermismo islamico e l'assenza di libertà che esso porta con sé, per approdare a una condanna del multiculturalismo come forma  di negazione della società aperta. Leggendo lo scritto del leader postfascista, non si può che provare un brivido scoprendo di seguire perfettamente e ragionevolmente il filo logico del discorso. Fermarsi a pensare costituisce spesso un provilegio non per tutti, e forse il buon giornalismo avrebbe voluto un contraddittorio, ma si sa, è roba di altri tempi (dico il buon giornalismo 🙂

Perché fermandosi a pensare Fini scrive: "accettare che si costituiscano, all'interno di una società pluralista, identità culturali separate e chiuse mina alla radice il pluralismo e minaccia la società aperta"; oppure "Se le minoranze religiose hanno tra noi quelle libertà e quei diritti che costituzionalmente spettano a tutti i cittadini senza eccezioni, non ci si può appellare ai principi della legge islamica per esigere spazi o prerogative giuridiche speciali quali, per esempio, le scuole coraniche"; oppure ancora "Perché la concessione di «diritti collettivi» determinerebbe una sorta di feudalizzazione del nostro diritto positivo, calpesterebbe gli stessi diritti individuali dei membri del gruppo". Nella mia testa risuonano le campane dei campanili, gli oratori, i privilegi della Chiesa Cattolica, le sue scuole per cui il governo di centro destra ha costruito la parificazione non solo dei meriti ma anche dei contributi alle famiglie, veicolando parte dei soldi dello Stato direttamente nelle tasche della CEI e della Compagnia delle Opere, nonché, dulcis in fundo, il dannato crocefisso in aula e le misure punitive che adesso sono state implementate per chi non segue l'ora di religione in classe. 

Lungi da me sposare la tesi del laicismo a tutti i costi di scuola francese che alla fine è un specchio triste della tendenza a eliminare le contraddizioni tipica della gestione pubblica della politica corretta alla Americana (così da tenere tutta la merda in casa, per così dire), certo è che un po' di sano atteggiamento egualitario (diverso da ugualitario, spero tutti comprendano) non guasterebbe. Se Fini è davvero convinto dell'identità liberale italiana, abbia il coraggio di negare alla Chiesa Cattolica le stesse cose che negherebbe a questi supposti "barbari islamici" che tanto lo preoccupano. Oppure provi a negare alla comunità ebraica le proprie scuole. Allora sì che ne guadagneremmo tutti, eliminando spiacevoli doppio pesismi dovuti a valutazioni ben più geopolitiche e moraliste di quanto non si vorrebbe dare a bere a tutti quanti.

 

La lettera del presidente di An
Fini:  «Sbagliata una legge anti-velo»
 
Caro direttore, può una discussione difficile e problematica come quella sull'integrazione e sulla libertà religiosa coincidere con le dimensioni di un velo? Senza negare il carattere simbolico del copricapo femminile e condannando ogni forma di costrizione a indossarlo (andare con il volto coperto è già vietato dalle leggi italiane vigenti, vietare l'ostentazione di simboli religiosi, quali essi siano, è profondamente sbagliato) giova ricordare la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo.

La Dichiarazione, all'articolo 18, recita: «Ogni individuo ha diritto alla libertà di religione; questo diritto implica la libertà di manifestare la propria religione, da sola o in comune, tanto in pubblico quanto in privato, con l'insegnamento, le pratiche, il culto e l'adempimento dei riti». Ma può la libertà di culto rappresentare una minaccia alla identità di un popolo, di una nazione? Molti ne parlano, ma pochi si chiedono quale sarà la prospettiva per il millennio che si è appena aperto in un contesto di pulsioni e contrapposizioni religiose acuite dal fenomeno imponente dei flussi migratori e dal decadimento valoriale e demografico dell'Occidente. Secondo André Malraux, il secolo ventunesimo «sarà religioso o non lo sarà». Se è vero, sarà come noi lo sapremo modellare e l'Islam, che riappare in maniera incisiva sulla scena universale dopo un'assenza di diversi secoli, giocherà certamente un ruolo non trascurabile.

Ma quale Islam? L'integralismo, secondo il professor Mohamed Talbi, docente presso l'Università di Tunisi, non consiste nel portare la barba o vestire un chador: in un mondo libero ognuno deve essere libero di vestirsi come crede. L'essenza dell'integralismo non è nel modo di vestire e ancor meno nella stretta osservanza del culto. Non si è integralisti perché si prega o perché si crede in Allah, benché alcuni su questo punto facciano una confusione raramente innocente. Essere integralisti islamici significa rifiutare la libertà dell'altro, anche musulmano, che si veste e pensa diversamente. Ogni integralista, con turbante o senza, si considera infallibile e si comporta come tutore di Dio. Per questo l'integralismo ed il fondamentalismo sono sempre più minacce rivolte non solo verso l'Occidente, ma verso l'Islam stesso. In una società multietnica e multiconfessionale, non dovrebbe creare alcun problema il fedele che prega il suo Dio. Se la libertà religiosa è il cardine di una Costituzione liberale e democratica, il riconoscimento, ad una minoranza come quella islamica, del diritto di avere i propri luoghi di culto non contraddice il senso dell'identità nazionale ma contribuisce a far crescere quest'identità verso forme più consapevoli e mature. Eppure la difesa della propria identità diventa spesso il rifugio di fronte a tutte le paure che i processi di globalizzazione provocano. Naturalmente questi timori nascono da problemi reali che derivano dalla difficile integrazione delle popolazioni islamiche nella nostra società. Certo non si può, in nome dei diritti civili che sarebbero minacciati dalla presenza islamica, negare il principio della libertà di religione.

Di conseguenza, per riprendere le parole del cardinale Sodano: «I cristiani sono per la libertà di culto e di religione dovunque e per tutti». E pertanto immaginare un Paese blindato agli immigrati di confessione religiosa diversa è una strada impercorribile e da rifiutare. In Italia sembra però che in troppi non si accorgano che una cultura teocratica come quella islamica male si adatta ad una civiltà liberale come la nostra; non si tratta di impedire alle persone di diversa religione di praticare il proprio culto.

Si tratta, semmai, di non garantire permessi e diritti di cittadinanza ad immigrati che rifiutano la cultura, gli usi e gli ordinamenti del Paese ospitante. Immigrati che ambiscono ad innestare nel nostro tessuto socio- culturale, religioso, politico ed economico il proprio «credo» che spesso confligge con i principi fondamentali del nostro Stato di diritto. In troppi, specie a sinistra, non hanno compreso che il multiculturalismo non è un perfezionamento del pluralismo proprio della società aperta e liberale. Ne rappresenta la negazione e la distruzione: accettare che si costituiscano, all'interno di una società pluralista, identità culturali separate e chiuse mina alla radice il pluralismo e minaccia la società aperta. Nel futuro diventerà pertanto fondamentale far comprendere agli immigrati islamici che provengono da Paesi dove le norme civili sono regolate dalla sola religione e dove religione e Stato formano un'unità indissolubile, che in Italia i rapporti tra Stato e organizzazioni religiose sono molto diversi. Se le minoranze religiose hanno tra noi quelle libertà e quei diritti che costituzionalmente spettano a tutti i cittadini senza eccezioni, non ci si può appellare ai principi della legge islamica per esigere spazi o prerogative giuridiche speciali quali, per esempio, le scuole coraniche. Per orientarsi nel difficile tema Islam/integrazione occorre pertanto tenere fermo il principio fondamentale della cultura liberale secondo cui solo i singoli individui possono essere titolari di diritti; mai, in nessun caso, i gruppi o le entità collettive. Perché la concessione di «diritti collettivi» determinerebbe una sorta di feudalizzazione del nostro diritto positivo, calpesterebbe gli stessi diritti individuali dei membri del gruppo (basta pensare alle donne musulmane che avrebbero tutto da perdere da una mancata integrazione in una cultura assai più liberale della loro) e, nascondendosi dietro al cosiddetto multiculturalismo, porrebbe le basi per più gravi conflitti.

Gianfranco Fini

25 ottobre 2006
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