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Outside.in Inside.out

25 Ottobre 2006

Non passa giorno (o quasi) che non venga inaugurato un nuovo servizio di community, un nuovo strumento che cerca di esplorare un ambito diverso della relazione tra persone, relazioni e tecnologie di comunicazione. Questo da un lato dovrebbe avvisarci di quanto rilevante sia questo aspetto della nostra realtà, non solo da un punto di vista sociale e politico, ma proprio dal punto di vista antropologico. Una delle poche cose insindacabili che scrive John Batelle nel suo libro su Google è che il futuro senso della parola umanità avrà molto a che fare con le sue capacità di interpolare la realtà e le informazioni, con la sua effettiva capacità di cercare, codificare e definire il mondo che ci circonda in relazione a ciò che siamo e che desideriamo. In questo senso la sperimentazione sui modelli relazionali di informazione, ovvero sulle connessioni possibili tra le varie informazioni e su come presentarle nella forma più direttamente assimilabile sta concretamente alterando la percezione di sé degli esseri umani.

Negli ultimi giorni infatti abbiamo assistito al lancio di almeno due o tre progetti rilevanti per quanto riguarda la sperimentazione in questo campo e il desiderio evidente di dominarlo in maniera sempre più subdola e determinante (le avvisaglie di flickr evidentemente non accendono lampadine in testa a nessuno degli Homo sapiens sapiens o quasi): il primo progetto è outside.in, un progetto che punta decisamente sul concetto di proximity search e community lore (ovvero "ricerca di prossimità" e "tradizioni della comunità"). In sostanza outside.in vorrebbe essere uno strumento per localizzare la ricerca di informazioni relative a una comunità e sulla comunità stessa. Il concetto base è che il tipo di informazioni che si stratificano all'interno di una comunità sono ovviamente diverse dal tipo di informazioni che trovate sul giornale, e costituiscono una parte rilevante di come conoscere il luogo (fisico o virtuale) dove si vive e si lavora. L'idea del creatore, Steven Johnson, è quella di poter combinare mappe ad alta qualità con la produzione di informazione locale e di dibattito locale, una sorta di versione evoluta del bar e del panettiere sottocasa dove sapere tutto quello che c'è da sapere del tuo quartiere. Ora, diciamo che la cosa è uno strumento molto potente (in potenza, scusate il gioco di parole), ma è altrettanto preoccupante l'assenza di riflessione sull'impatto che ha l'esposizione della "lore" comunitaria a chi non ha alcuna relazione con essa. La relazione con il mio panettiere di fiducia è davvero sostituibile da uno strumento di questo tipo? In cosa cambia il mio rapporto con la conoscenza del luogo in cui vivo nel momento in cui è mediato non più da  persone ma da un software? E la solita domanda, chi controlla che non vi siano interferenze nella costruzione di una comunità di questo tipo? Interferenze con una certa direzionalità? Il rischio concreto è quello ancora una volta di sostituire i meccanismi di verifica e di iterazione delle informazioni interni a una comunità dotata di livelli di fiducia variabili e multidirezionali, con un meccanismo totalmente unidirezionale inverificabile di processing delle informazioni della comunità. E' un assillo che non mi abbandona, e che purtroppo non è particolarmente scalabile, perché chi può garantirmi rispetto a un soggetto terzo che fa partire questo strumento? Forse se ogni comunità potesse dotarsi di uno strumento autogestito si potrebbe accordargli maggior fiducia? Forse sì, ma ciò non toglie che l'effetto di mutazione antropologica non ne verrebbe ridotto, anche se mi metterebbe più tranquillo sapere che siamo noi (tutti, collettivamente) a dirigere il flusso di questo cambiamento.

Sempre più lanciato nell'inventarsi strumenti per dinamizzare il processo di creazione di una propria ontologia (camuffandola da personal ontology 🙂 è invece il colosso di Mountain View Google,inc. che ovviamente rappresenta la punta di diamante di un processo ennesimo (dopo il web) di questa mutazione antropologica. Proprio ieri infatti il motore di ricerca più famoso del mondo ha lanciato il suo nuovo prodotto: Google CSE, un meccanismo per creare in proprio un piccolo google a misura delle proprie esigenze. Mi pare che non sia molto difficile immaginare perché questo sia un passaggio abbastanza pesante nella direzione della personal ontology targata Page & Brin: ognuno potrà essere parte del grande sogno, personalizzato, autosettato a piacere, sotteso tutto da uno stesso grande meccanismo di indicizzazione della realtà. Un sogno magnifico e pieno di diversità, una rifondazione della variabilità antropologica targata INC (sta per Incorporated, per chi non lo sapesse). A me un po' di agitazione la mette.

Non per questo ovviamente ritengo si debba aver un atteggiamento retrogrado di sottrazione, però bisogna essere coscienti che chi gioca con il fuoco può fare grandi cose oppure rimanerci secco. Google punta evidentemente a rendersi lo strumento principe di interfaccia tra la percezione del singolo di sé stesso e il mondo, un obiettivo per nulla ambizioso <g> che dovrebbe metterci un po' sul chi vive: qualcuno dice che prima di Google, ci aveva provato Microsoft, e io direi per dare un esempio ancor più chiaro che ci provano Cristianesimo, Islam e Ebraismo (certo al momento con strumenti meno validi di google e un po' anacronistici, ma l'umanità è più facile prenderla con il passato che con il futuro, sinora….)

Nella stessa direzione va la sperimentazione di un nuovo servizio di ricerca che dovrebbe evolvere l'attuale search engine, searchmash, che però è ancora lungi dal sembrare questa ira d'iddio. Certo la relazione tra Google e Mac per creare un meccanismo intuitivo di interazione con il mondo della ricerca di informazioni garantirà credo maggiori soddisfazioni che non questo primo molto marginale esperimento (nonostante l'entusiasmo di punto informatico 🙂

Il futuro è adesso? Non credo, ma sicuramente si stanno ponendo le basi per un cambiamento molto denso nella stessa percezione della parola umanità e nella relazione di tutti noi con quello che ci circonda. Fortunatamente esiste il digital divide, ma penso che peggiorerà la situazione più che migliorarla regalandoci una distopia disegnata da un elite in grado di definire la realtà intorno a sé e una frazione ampissima del genere umano relegato nella crudeltà più feroce. Bello no? Non vi ricorda HGW?

 

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