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Il cielo di piazzale Loreto

29 Gennaio 2007

Milano è una città a pianta circolare, come molte città che hanno attraversato il medioevo. Orientarsi a Milano non è difficile, basta capire quali sono gli anelli che la circondano dividendola in strati, e quali le direttrici di fuga dal centro verso la periferia, omonime ai cunei che riversano nella città tutto ciò che le circola attorno.

Corso Buenos Aires è una di queste direttrici: taglia la città a partire da piazza San Babila dritto fino a Sesto San Giovanni, una specie di lama che collega ironicamento la ex Stalingrado d'Italia, le sue fabbriche vuote da decenni, i suoi stabilimenti che sono stati fonte di tubi innocenti per decine di occupazioni e di nascondiglio per centinaia di persone e migranti, con il centro nevralgico del pensiero economico italiano, nei pressi del quale si aggira anche la giustamente vituperata sede di Confindustria.

La storia di corso Buenos Aires (un tempo Corso Loreto) è abbastanza lunga, e data almeno dall'inizio dell'800, quando era il viale di arrivo delle personalità dalle zone orientali italiane, che entravano a Milano attraverso la Porta Orientale (già Porta Venezia). Piazzale Loreto fino alla metà dell'Ottocento non è niente di più di uno svincolo autostradale (fatte le debite proporzioni) e si chiamerà Rondò Loreto fino al 1904 (identificando più che altro le poche case intorno allo svincolo stesso). Nel 1904 assume il nome che porta tuttora (nonostante le simpaticissime proposte di Zecchi di rinominarlo Piazza della Concordia, con dubbio gusto storico), ed è per il primo novecento il teatro di partenza della manifestazione sportiva più importante d'Italia, il Giro d'Italia. L'evento per cui è più noto è l'esposizione al pubblico ludibrio del cadavere di Benito Mussolini e di Claretta Petacci, insultato e deriso dalla folla per giorni prima al suolo e poi a testa in giù da un traliccio di una pompa di benzina dopo la sua morte fino alla sepoltura. Un evento barbaro che ha risposto alla barbarie che il Duce ha prodotto e coltivato nel nostro paese, per il quale non si vede la necessità né di pentimento nè di riappacificazione, con buona pace dell'esteta Zecchi e della sua concordia. Ovviamente nessuno ricorda che il suo cadavere fu esposto lì dal colonnello Valerio o chi per lui in ricordo della strage di Piazzale Loreto, una rappresaglia contro i partigiani per cui nessuno è mai stato né punito né particolarmente biasimato.

Milano è una città difficile, ma al contrario di molte altre capitali europee non perdi mai di vista il cielo, una distesa che più spesso ti ricorda tutto ciò che è accaduto sotto di essa, piuttosto che darti quella sensazione di libertà che l'atmosfera terrestre è abituata a garantirti in luoghi meno feroci della metropoli.

Il cielo sopra piazzale Loreto è una specie di indicatore della vita quotidiana della città: non è il cielo del centro, o quello abbandonato durante il giorno e nascosto durante la notte dei quartieri dormitorio, ma il cielo che osserva l'affannarsi quotidiano di una città sempre troppo indaffarata per cogliersi, o a volte talmente concentrata nel pensare da non riuscire a muoversi.

 


 

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Enter Fernando

Piazzale Loreto.
La parola di Milano è grigio.
Il cielo è una distesa non uniforme: dal pallore del cielo quasi bianco verso via Costa, in direzione nord-nordest, fino al grigio scuro delle nubi cariche di pioggia che evaporerà o si trasformerà in pasta grigiastra prima di toccare il suolo nella zona centrale, in lontananza verso sud.
Il piazzale è teatro di un costante carosello di macchine, clacson, insulti, infrazioni.

Doveva essere un luogo più divertente cinquanta o sessanta anni fa, quando al posto delle macchine c’era una ressa di persone che finalmente si gettava alle
spalle vent’anni di merda e violenza.
Milano sembra non cambiare mai: ti accorgi che è estate da un lieve mutamento della temperatura. Appena la conosci pensi che sia una città piatta nel suo grigiore umano, oltre che visivo, uditivo, sensitivo. Poi ti rendi conto che Milano può raccontarti qualcosa a ogni angolo, a ogni svolta del tuo senso di marcia, e spesso anche indipendentemente dalla tua voglia di restare fermo e immobile, in pace con il resto del mondo che ti circonda.

È solo dopo questa fase che capisci che Milano è come una specie di magma che continua a travolgerti.

Fernando cammina lentamente e senza fretta lungo il marciapiede di via Porpora. La giacca scura ordinata e pulita, la camicia bianca dal taglio anomalo, simile a una T-shirt, il pantalone elegante e le scarpe lucidate di fino. Dalle maniche della giacca spuntano due mani che non vanno per il sottile: le dita corte e arrotondate sulla punta, ruvide, si inseriscono su palmi ampi e solidi, segnati dal tempo e dalla fatica. Delle mani che riducono rapidamente a zero ogni discussione.
Il collo largo e muscoloso è proporzionato al suo fisico massiccio, non troppo alto, e sostiene una testa squadrata e accuratamente sbarbata. Fino ad arrivare ai capelli grigi ben tenuti e corti, e al cappello a tesa larga scuro calato in testa nei periodi più freddi dell’anno. Ogni particolare di Fernando parla
di un uomo che tende a non tergiversare e a concludere in fretta ogni questione.
Oggi non fa freddo. Il viso rugoso e invecchiato di Fernando cerca di raccogliere nei canyon della pelle ogni alito di vento che allevi la caligine milanese.Arriva fino al piazzale e si ferma a osservare le nubi che si addensano su Isola e sulla Centrale, rendendosi conto, grugnendo, che non ha né ombrello né impermeabile, e che se piove sarà costretto a comprare un trabiccolo da dieci euro da qualche cazzo di immigrato che magicamente comparirà al primo angolo di strada dopo dieci gocce.
Qualche volta gli è venuto il sospetto che si nascondano in ogni tombino pronti a scattare con i loro ombrelli e le loro facce allenate a ispirare compassione nelle vecchiette e in una manica di rincoglioniti. Altre volte che siano proprio loro a evocare la pioggia con una qualche cazzo di stregoneria sciamanica
ereditata dal paese d’origine. Quasi sempre, quando si sofferma a pensarci, si rende conto che, con tutta probabilità, alla prima nuvola questo esercito di disperati si scapicolla su e giù per Milano per farsi strozzinare una fornitura di ombrelli che non riuscirà a vendere e che gli renderà la vita solo più miserabile. Non riesce proprio a capire perché lo facciano.
D’altronde, un motivo c’è se lui fa il lavoro che fa e loro fanno i vu cumprà o i lavavetri, si ritrova a concludere, mentre guarda le macchine attraversare
il piazzale.
Scosta leggermente la giacca dalle tasche dei pantaloni e ci infila le grosse mani per tirarne fuori una sigaretta senza estrarre il pacchetto. L’accende aspirando a lungo.
“In questa città del cazzo non si ammazzano mai” pensa quasi ad alta voce. Scazzano, trafficano, spacciano, si menano, sbraitano, ma non si ammazzano se non
per una coltellata o un colpo di fucile partito quasi per sbaglio. Nessuno cerca mai qualcuno per ammazzare qualcun altro.
Non lo fanno i delinquenti della periferia, non lo fanno i ricchi annoiati, non lo fanno neanche gli sbirri.
Che città di merda per fare il sicario…
L’unica città in cui con un mestiere così sei praticamente un disoccupato in pianta stabile. “Le mie solite idee del cazzo.”
Fernando prende un’altra boccata dalla sigaretta e si avvia lungo corso Buenos Aires senza una meta precisa. È ancora all’altezza della Feltrinelli, che lui
si ostina a chiamare Ricordi, come tutti l’hanno chiamata per almeno una decina d’anni prima che diventasse una libreria con un’immagine di sinistra, quando
squilla il cellulare.
Lavoro, spera. E per una volta tanto il suo intuito non lo delude.

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