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Archivio per la categoria ‘movimenti tellurici’

Catania, il calcio, lo spettacolo, le forze dell’ordine e la retorica

5 Febbraio 2007 4 commenti

 

Ho cercato di frenarmi dal commentare sulla vicenda che tiene occupati i cervelli, gli occhi e le orecchie di tutti coloro che leggono i giornali, guardano la tv, camminano per strada. Una cosa mi induce a dire delle cose: in primo luogo i primi articoli dignitosi, in secondo luogo la continua pubblicazione sia di articoli indignitosi, sia di opinioni di personaggi che come al solito stando zitti farebbero figuri migliori visti in prospettiva. Ma la mediocrità è uno status-symbol e quindi immagino che dovremo continuare a sorbirci i Gianni Riotta e i Beppe Severgnini.

I primi articoli interessanti in merito arrivano dalle fonti più disparate.

Wu Ming nel numero odierno di giap prende parola (e meno male) dato che di cultura da stadio non è nuovo parlarne e onestamente ha sempre avuto posizioni interessanti, tipiche di chi è all'interno del meccanismo sociale e sociologico del tifo, e non di chi lo osservata con distaccata e malcelata ipocrisia. In particolare all'interno dell'articolo si iniziano a mettere i puntini sulle i del famoso modello inglese, che ha avuto notoriamente come effetto "collaterale" a quello di spostare le "violenze" nelle periferie e nei ghetti, quello di aumentare i prezzi dei biglietti e di scolorire gli spalti senza che questo c'entrasse un cazzo di niente con gli scontri.
Il blog di mugen riporta un'intervista dal sito senzasoste che pone altri interessanti interrogativi, soprattutto circa la disparità di trattamento retorico tra forze dell'ordine e situazioni connesse al mondo del lavoro più in generale (peraltro di cui abbiamo esempi quotidiani come l'ultima news veltroniana). Chissà quanto tempo ci vorrà adesso (e forse questo è l'effetto più fastidioso dei fatti di Catania, mi sia permesso il mio consueto cinismo, ma dato che Matarrese ne ha dette di peggio già nella notte tra venerdì e sabato mi sento esentato da ogni senso di colpa) per poter parlare chiaramente del ruolo delle forze dell'ordine non solo allo stadio, ma anche nella società tutta.
E questo ci porta alla terza fonte "positiva" ovvero il sito asromaultras, dove lorenzo (mortacci sua se rendesse un minimo più accessibile il suo cazzo di sito) risponde punto per punto alle proposte demagogico retoriche di Severgnini, scagliate come anatema dalle pagine del corriere della sera: vomitevole, soprattutto con l'atteggiamento probatorio nei confronti di chi parla e osanna il tifo come un fenomeno positivo (vorrei capire cosa cazzo c'è di brutto nel tifo in sé).

Il problema è perfettamente evidenziato dalle proposte più ragionevoli uscite finora (ragionevoli guardandole dalla prospettiva del cittadino medio, non ragionevoli in sé, per piacere, non facciamo i furbi), ovvero quelle (più concrete dei dieci punti di Severgnini) di Gianni Mura. Esse oscillano tra il famoso modello inglese e la sua applicazione all'italiana: ovvero tra l'implementazione della segregazione della violenza dalla sua dimensione endemica nelle società moderne, al pizza e fichi facciamo di tutta l'erba un fascio che ci viene comodo. 

Il tutto chiosato perfettamente dall'enfasi che nei commenti giornalistici si sta dando alla tanto vituperata (a ragione) Legge Pisanu, scordandosi che i disordini di Catania sono avvenuti FUORI dallo stadio e che quindi la legge Pisanu non c'entra un cazzo. Non solo. Il top del top lo raggiungiamo ovviamente con gli articoli di oggi sulla Gazzetta che combinano un pasticcio degno del peggior cuoco incrociando: l'isp. Raciti, la sua presenza al G8, i black block, le scritte ACAB, la società malata, gli ultras di Catania. Pietà!

Forse sarebbe il caso di fare un po' d'ordine: d'altronde se il teatrino della tragedia si è già concluso e i presidenti delle società già cominciano a rumoreggiare per lo stop al campionato, gli interessi di politica, economica dello spettacolo, e business del calcio che tornano alla ribalta alla faccia dell'Isp. Raciti, della retorica di Stato, per non parlare dei morti dall'altro lato della barricata (non vorremmo come al solito ricordare, ma lo fa già qualcuno con una lettera al sito asromaultras, che i morti tra i tifosi per mano delle forze dell'ordine sono MOLTO più numerosi che viceversa), allora anche noi possiamo provare a mettere dei cinicissimi puntini sulle i.

Perché il problema della "logica dell'Antistato" (gazzetta dixit) non è da ricercare in una volontà di fare gli affari propri, di disconoscere il benessere (quale?) che lo Stato provvede per i suoi cittadini, ma forse andrebbe indagato proprio nel suo ruolo di sintomo di una società per nulla equa, per nulla giusta, in cui da un lato si trova chi fatica a sbarcare il lunario tutti i giorni, abusato, "ferito e oltraggiato" (un po' come Pancalli) nella sua dignità di essere umano (e non, caro commissario di sportivo e di Italiano, sì con la I maiuscola del cazzo), e dall'altro il personale in divisa, che gode sempre di uno status diverso, a cui si perdona sempre tutto, a cui è consentito tutto perché lo fa in nome di un'autorità che come tutti sanno si dovrebbe ottenere nel rapporto con il mondo esterno e non per concessione divina dall'alto verso il basso. 

Perché il problema più concreto è che, al di là dell'idiozia dei fatti di Catania (non mi si voglia male se personalmente penso che quanto accaduto sia un grosso favore gratuito a chi vuole fare della repressione il proprio strumento di discernimento tra cosa serve e cosa non serve nel mondo moderno, gratuito proprio perché non perpetrato con un fine preciso politico, ma come la peggiore forma di espressione di quello che una volta si chiamata il costitutivamente reazionario sottoproletariato), le situazioni drammatiche negli stadi e nei loro ingressi sono creati dalla voglia di menare le mani che vibra tra ultras e sbirri, dalla cocaina che impesta curve e caserme, dal machismo esteso e osannato a destra e a manca, dalla retorica dello scontro senza alcun fine. Senza contare che mi viene solo da ridere a vedere le stesse persone che sciorinano le loro sbrodolate sull'amor di patria e il servire lo stato, contemporaneamente costruendo la loro credibilità elettorale a suon di finanziamenti, favori (chiesti e ricevuti) con le frange dell'estrema destra e della criminalità organizzata che dilagano nelle curve (caso Irridux-Chinaglia-Lotito, caso Warriors-Monza, ma possiamo andare avanti a stecca).

Il problema vero è che ad andare in fondo alla questione, si finirebbe per scoprire che la morte dell'Isp. Raciti, i disordini di Catania, gli ultras e tutto quanto vi gira intorno, sono molto di più i sintomi degli intrecci tra politica, economia e criminalità, che non l'origine della malattia della nostra società. E come ogni medico sa, non si curano i sintomi, ma si affronta il problema dell'origine della malattia. E qui il discorso è un filino hard-core da fare, con tutto il rumore che si sta facendo intorno alla questione.

Facciamo delle facili previsioni: avremo un inasprimento delle leggi che partirà dallo stadio e si applicherà quasi istantaneamente a ogni forma di conflittualità nella società (prima fra tutte quella sul lavoro); i mafiosi e i nazisti che dominano le curve verranno convertiti in security interna allo stadio, con buona pace di tutti, dei loro protettori politici nonché dei tifosi; gli stadi verranno resi smunti, tristi e meno colorati, perché uno striscione è uguale a una fucilata, tesi tutta da dimostrare; i prezzi saliranno per "garantire maggiore sicurezza" così finalmente la frase "le famiglie non vanno più allo stadio" (tanto falsa quanto abusata in questi giorni) avrà finalmente un senso, ma solo per motivi economici e non per altri motivi; le televisioni faranno ancora più soldi con tutti quelli che non avranno i soldi per andare allo stadio, ma per l'abbonamento a sky sì; chi dovrebbe assumersi la responsabilità per come stiamo conciati (Stato e chi ci tira su montagne di soldi innanzitutto) oltre a venire visto come "buono" per essersi contrito circa un minuto di fronte alla "tragedia di Catania", continuerà a fare il cazzo che gli pare e a scaricare barile su barile con qualcun altro.

Io sarò cinico e soffrirò perché domenica non sono potuto andare allo stadio, ma un segnale forte e serio di inversione di rotta in tutta la gestione della violenza all'interno della società (su tutti i livelli) mi avrebbe impressionato di più del pietoso e prevedibile teatrino all'italiana, dove tutto cambia per non cambiare nulla, se non per i soliti, noi, che finiamo sempre per fare le spese di tutto (prima e dopo i fatti). 

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Il sacchetto celeste delle molotov piazzate alla diaz

1 Febbraio 2007 Commenti chiusi

 

Sapendo che vi mancano tanto, vi offro un sunto dell'odierna udienza del processo per i fatti della notte del 21 luglio 2001 presso il plesso scolastico Diaz-Pertini-Pascoli. Certo non sarò all'altezza delle sintesi anonime finora pubblicate, ma spero di farmi valere.

Oggi in aula si presentano il Primo Dirigente Piccolotti (quello che ordina le cariche su corso italia sabato pomeriggio durante il corteo internazionale) e il generale Donnini (responsabile della logistica della ps a genova, soprattutto per quanto riguarda i reparti mobili).

Piccolotti va giu' a muso duro sulla vicenda, ricordando perfettamente le bottiglie molotov mostrate in fotografia e come essere vennero rinvenute sul lungomare dal vice questore aggiunto Guaglione, che le passò poi al generale Donnini. Si sofferma anche a lungo sulle modalità di redazione della relazione, che coinvolgono una strana pressione da parte di Guaglione per inserire le molotov e il loro passaggio nelle mani del generale. Evidentemente Piccolotti ha deciso di scambiare tranquillità per chiarezza sulle molotov, dato che il suo racconto di una questura calma e deserta nella sera del 21, mentre in realtà si tengono due riunioni con tutti i vertici della polizia italiana è a dir poco surreale. Ma direi che quello che potevamo portare a casa del teste lo abbiamo portato a casa.

Durante l'audizione del generale Donnini, che evidentemente non è contento di come sta andando il processo (con gli uomini del reparto sempre più all'asta e i dirigenti non del reparto promossi a destra e a manca), racconta pronti via tutto quello che ci sono voluti due interrogatori per tirargli fuori con le pinze: verso le sei arriva a punta vagno, prende il sacchetto con le bottiglie da Guaglione, lo mette in un magnum di fianco al quale ricorda Burgio. Burgio con il magnum lo riaccompagna dalla questura in fiera ad ora di cena (e non solo, ma ce lo dirà Burgio) dove deve lavorare ancora per fornire prima 30 uomini per i pattuglioni, tra cui Troiani alle dipendenze di Calderozzi (lo ripete circa cinque volte per essere sicuro che la corte lo senta), e poi per mobilitare il VII nucleo per l'operazione Diaz. Anche lui si rende un po' ridicolo, ma d'altronde in interrogatorio aveva già riportato le parole di Canterini la mattina dopo l'irruzione: "noi non c'entriamo nulla", gli disse il primo dirigente con aria candida. Il vero neo della deposizione sono le decine di telefonate con Troiani che Donnini non ricorda e che suggerirebbero una conoscenza più approfondita del generale del ruolo di Troiani di quanto si voglia lasciar credere. Do ut des.

L'avvocato Corini della difesa  verso la fine dell'audizione del generale sembra rendersi conto che la loro strategia sta inabissandosi (l'evento della sparizione dei reperti molotov ha messo il tribunale in uno stato d'animo alquanto poco paziente con le difese dei solerti quanto discutibili tutori dell'ordine, senza contare le domande veramente esplosive dell'avvocato Di Bugno tipo "lei le molotov le ha viste solo in fotografia, no?" sigh!), e con un colpo di reni si lancia nell'invettiva scatenando una bagarre con il sempre pronto pm Zucca. Ma questa volta non attacca e per dimostrarlo il presidente, a conclusione degli esami e dei controesami fischia il rigore: mostra a Donnini, che ha descritto con molta dovizia di particolari il sacchetto in cui erano contenute le molotov rinvenute su corso Italia, il video con Luperi, Gratteri e compagnia cantante intorno al famoso sacchetto azzurro. Il silenzio cala nell'aula. O la va o la spacca. Donnini guarda e dice: "il sacchetto sembra proprio quello". La sala fa ohhhhhhhhh. Gli avvocati della difesa fanno due domande per cercare di mostrare di aver incassato bene il colpo, ma chi ha letto le trascrizioni sa che non è stata una buona giornata per loro. 

al prossimo rastrellamento… ops perquisizione…

 

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Voltaire, il pensiero unico, il revisionismo e il reato di opinione

26 Gennaio 2007 1 commento

 

In questi giorni in occasione dell'imminente arrivo della Giornata della Memoria (arrivo imminente tutti gli anni in ogni caso, trattandosi di scadenza annuale) il Governo vara l'ennesima manovra diversiva, come ormai fa per consuetudine dall'inizio della legislatura, presentando sul piatto sempre due o più progetti per volta, uno dei quali ad alta risonanza mediatica, mirato a distogliere l'attenzione dalle misure economiche degli altri. In questi giorni il tema specchietto però, al contrario che in precendenti occasioni, vale la pena di una discussione. E non perché commentare sui progetti di allargamento della base di Sigonella (oltre che quella in quel di Vicenza) che strappano a Parisi la inquietante affermazione secondo la quale la costruzione di case per i propri soldati fa parte del pieno e legittimo operare della forza americana in territorio italiano (cioé questi possono costruire case dove cazzo gli pare?), oppure sulla nomina di Pollari a consigliere di Stato (dopo tutto il macello estivo orchestrato non si sa ancora bene da chi e per quali fini e per colpire chi…), o ancora sulle liberalizzazioni o sul problema del sistema scolastico italiano ormai preda del ridicolo, non siano argomenti interessanti, ma perché  il DDL Mastella è l'occasione da un lato per parlare di storia e dell'approccio mistificatore nei confronti della stess, e dall'altro per parlare di un problema lievemente inquietante come quello del reato di opinione.

Il DDL Mastella al momento in discussione è partito da un favore esplicito per accattivarsi la comunità ebraica da parte della sinistra al Governo: condannare ogni tesi negazionista dell'Olocausto. Lungo l'iter nel consiglio dei ministri la cosiddetta sinistra massimalista (termine che un po' mi lascia perplesso considerato che si parla di MINISTRI, però in Italia abbiamo avuto anceh Castelli e Gasparri ministri, per cui in effetti forse non dovrei stupirmi) ha ottenuto di trasformarlo in una norma che "santifica" la Resistenza e condanna ogni forma di nazifascismo come un reato. 

La destra grida allo scandalo, perché le simpatie della comunità ebraica in Italia fanno comodo a tutti, ma la Resistenza rimane ancora inspiegabilmente un tabù per buona parte della Destra (tanto che siamo costretti a sentire i triti e ritriti argomenti circa le "stragi" che i partigiani hanno fatto degli "anticomuisti", le manfrine sulle foibe e via dicendo).

Ora si pongono diversi problemi: il primo problema riguarda la necessità di un'ulteriore legge quando la Costituzione già prevede che i rigurgiti neofascisti siano di fatto perseguibili. Ora viene spontaneo chiedersi perché si tollerino e finanzino i progetti neofascisti in mezza italia, accettandoli addirittura nella coalizione che avrebbe potuto governare (Fiamma Tricolore nella casa delle libertà alle ultime elezioni), e poi si faccia tutto questo can can in consiglio dei ministri. La cosa puzza più del necessario, e infatti personalmente penso che dietro al DDL ci sia oltre a una manovra "captatio benevolentiae" verso la comunità ebraica, un certo livello di incuccio economico (infatti il DDL prevede nel suo ultimo punto l'eliminazione dei limiti di reddito per i rifugiati politici…. mhhhhh) e soprattutto un'operazione più vasta di intervento nel campo del reato di opinione, da tempo ormai più pericoloso di qualsiasi reato di criminalità ordinaria per governi e stati basati sempre di più non solo sullo spettacolo (questo ya fue) ma sulla materiale manipolazione dell'opinione comune come esercito silenzioso.

Ovviamente sarebbe veramente fuori luogo che io mi dichiarassi improvvisamente voltairiano (non lo sono MAI stato, neanche nel senso buono) e continuo a pensare che la giusta risposta nei confronti di nazifascismo e razzismo sia il contrasto attivo e senza mediazione, ma rimango perplesso rispetto all'assenza di dibattito circa l'introduzione del reato di opinione in senso penale in una forma così plateale. Traduciamo: la Resistenza è un valore indiscutibile e il fatto che FI e compagnia varia si sbracci così mi fa sorridere di un ghigno soddisfatto, perché da un lato espone la sua base cripto revisionista e benpensante, e dall'altro significa che la destra è abbastanza infastidita da questa "riabilitazione" della storia italiana, con tutto il lavoro che hanno fatto negli scorsi anni per demolirla. D'altro canto però la possibilità che questa moda di giudicare quello che dico come una possibile fonte di reato sia quantomeno pericoloso: anche perché non è difficile ricordare come un qualsiasi attacco politico a Israele sia stato bollato come antisemita (ultimo anche Il Migliorista che ha dichiarato "No all'antisemitismo anche quando camuffato da antisionismo"), piuttosto che ogni sostegno a cose ritenute moralmente (non eticamente) riprovevoli sia stato equiparato a una sorta di favoreggiamento. 

La posizione scomoda in cui rischiamo di trovarci è quella di dover fare una campagna sulla libertà di espressione sulla possibilità dei nazifascisti di dire che l'olocausto non è mai esistito, per poter poi intervenire e spazzarli dalla faccia della terra. Una posizione interessante per fare polemica ma abbastanza difficile da sostenere. Forse se le sinistre italiane fossero state capace da più tempo di difendere non solo politicamente ma anche culturalmente i valori e la storia della Resistenza, oggi non sarebbero costretti a questa mossa di immagine con implicazioni abbastanza preoccupanti dal punto di vista della restrizione della libertà di espressione per tutti. Come al solito in ritardo, come al solito inadeguatamente, come al solito senza alcuna prospettiva se non quella del contentino qui, contentino lì.

 

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La devastazione à la mode

24 Gennaio 2007 1 commento

 

Come volevasi dimostrare, aperte le danze da Avellino-Napoli di un paio di anni fa e dalla sentenza dell'11 marzo, l'art 419 del codice penale, altrimenti noto come "devastazione e saccheggio" diventa l'asso piglia tutto del meccanismo repressivo italiano. In assenza della capacità di affrontare conflitti e situazioni di ordine pubblico in altro modo, le autorità italiane varano la loro versione dell'approccio americano law and order.

La notizia di oggi è infatti che 7 tifosi della Salernitana sono accusati di devastazione e saccheggio in relazione agli episodi della partita Avellino-Salernitana del 5 novembre scorso (quella su cui si fa tutta la manfrina pietosa del poliziotto colpito da una bomba carta che rischia la vita per 7 euro di straordinario, come se glielo avesse ordinato il medico…)

La saga continua, e in assenza di un movimento capace di affermare politicamente con forza l'impossibilità dell'uso di questo articolo del codice penale (in generale, gli articoli del codice che riguardano situazioni di guerra non dovrebbero essere nemmeno presi in considerazione in tempi di pace… ops, ma forse non siamo in tempi di pace ma nessuno ce lo dice tranne la solerte magistratura…) ci tocca affidarci alla speranza che chi sta muovendosi per riscrivere il codice penale (risalente al 1931, ricordiamo per chi avesse la memoria corta) faccia scempio di tutti i reati come questo e come i reati associativi (vera aberrazione a senso unico del nostro codice, nel senso che colpiscono solo chi non fa parte della classe dirigente, gli unici veri associati che andrebbero un po' bastonati (ah, il piglio giustizialista! :))

Nel frattempo, mentre riesco ancora a stupirmi di fronte ai titoli del Corriere Milano ("Carabiniere a riposo ferma rapinatore" intendendo con rapina il furto di vestiti per un totale di meno di 200 euro, rapina che ricordo prevede una pena da 4 a 6 anni…), vi rimando al dossier che abbiamo scritto dopo la sentenza per i fatti dell'11 marzo 🙁 

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Mi è semblato di vedele una molotov…

18 Gennaio 2007 8 commenti

 

Oggi è il giorno dell'assurdo al processo contro 29 sbirri per l'irruzione al complesso scolastico Diaz-Pertini del 21 luglio 2001 a Genova. La giornata sembra essere stata immaginata da Beckett, ma non viene molto da ridere…

La settimana già è cominciata con il piede sbagliato, con la scoperta che l'avvocato Nicola Canestrini, una persona per bene per quanto lo abbiamo conosciuto, è il difensore di uno dei 7 ufficiali delle SS assolti per la strage di Marzabotto (una strage in cui vennero ammazzati centinaia di civili in rappresaglia per le operazioni partigiane), oltre che quello di alcune parti civili della Diaz, che saranno certamente felici di venire a sapere con chi condividono il titolo di "assistiti".

La cosa, per come la vediamo noi, è figlia della rimozione complessiva del dibattito sull'uso della violenza, liquidato ormai da moltissime facilonerie democratiche e di sinistra come un discorso chiuso, che apre però al mostro del revisionismo d'accatto, secondo il quale l'uso della violenza è uguale indipendentemente dalle circostanze (per cui un partigiano è uguale a un nazista e viceversa, dato che sono entrambi armati e quindi violenti). Quando la sinistra di governo si accorgerà che questi sono i semi per distruggere una cultura popolare attiva e per lasciare il campo alle facili equazioni del populismo sarà sempre troppo tardi.

Come se non bastasse l'udienza odierna si protrae in un innuendo di follia: le bottiglie molotov che costituiscono la prova principale del reato di falso e calunnia contestato ai dirigenti ps coinvolti nel processo (quei Gratteri & co che sono accusati di aver portato le bottiglie all'interno della scuola per poi falsificare il verbale di sequestro giustificando così tutta l'operazione) sono scomparse. Non si trovano nell'archivio reperti del tribunale (ovviamente trattandosi di materiale esplosivo), non si trovano in questura, il vice questore aggiunto Borré che viene a cercare di dipanare la matassa non sa manco di quali bottiglie si parla e si guarda bene dall'avere un atteggiamento collaborativo e alacre, assomigliando di più al poliziotto di commissariato delle barzellette (quello che fa finta di non capire per non far nulla). In sostanza il corpo di reato più importante di tutto il processo era non solo affidato agli stessi che sono accusati di averlo fatto scomparire e riapparire già una volta (ovvero gli imputati), ma anche privo di alcuna verifica da parte degli uffici della procura.

Scongiuriamo il pm Zucca di riaversi dallo shock e acquisire un po' di realismo: dottore, non basta che siano anni che le mentono e le mischiano le carte, si deve ancora stupire che le forze dell'ordine non mostrino la minima intenzione di aiutare il corso della giustizia? Scenda dal pero, suvvia, che ancora ci crede che i poliziotti siano leali e  abbiano a cuore la giustizia? La storia dovrebbe insegnare che anche se lei sa qual è la verità, non è detto che i tribunali lo sappiano altrettanto (vedasi tanto per citare i recenti casi di Piazza Fontana e Ustica…)

Che disperazione, osservare la concretezza dell'oblio. 

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Qualche francese cerca di farci le scarpe…

15 Gennaio 2007 5 commenti

Leggiucchiando il feed di visual complexity sono incappato in un progetto interessante, quanto meno per la somiglianza con una parte del lavoro che stiamo facendo su noblogs in prospettiva. Il progetto è legato alle presidenziali per l'Eliseo del 2007 e investe pesantemente nell'analisi di dati provenienti dalla sfera delle comunicazioni digitali circa la politica: le porzioni più interessanti sono infatti la mappatura della blogosfera con quello che loro chiamano blogopole e la mappatura delle tendenze della sfera pubblica con quello che loro chiamano tendençelogue (lett. tendenzologo, bleah!). Le mappe che vengono prodotte sono molto interessanti e soprattutto mi pare molto denso il meccanismo di rappresentazione. L'unico vero difetto mi sembra la volontà di rappresentare la complessità con la complessità, mentre le mappe dovrebbero essere in grado di semplificare il lavoro di accesso alle informazioni nascoste in grandi quantità di dati correlati. Devo dire che il progetto è molto simile a quello su cui stiamo lavorando, con il ventaggio indubbio (nostro) di poter lavorare su una comunità più o meno direzionata e quindi in cui la dimensione della complessità può essere più facilmente ridotta a una forma rappresentabile e digeribile. Il lavoro fatto dai francesi però, se fosse a disposizione sarebbe un ottimo contributo 🙂 

Che ne dici mentore

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Come (non) organizzare una cospirazione

8 Gennaio 2007 2 commenti

 

Devo dire che leggersi cryptome non è sempre immediato, ma alle volte da delle grandi soddisfazioni. Stamattina, essendo in vena di posting flash (dovrei pure lavorare a un certo punto, a me mica mi pagano per bloggare come a qualche altro privilegiato 🙂 vi lancio l'esca dell'ultimo post del sito (e questo suo sequel) dedicato alla disclosure dei segreti più segreti: raccoglie lo scambio di mail avvenuto su liste pseudo private e teso a organizzare un sito che raccolga gli information leaks (ovvero le informazioni che persone all'interno di una certa organizzazione fanno volontariamente trapelare al fine di minare l'organizzazione stessa). Il sito e l'idea sono carine, il metodo di organizzazione è grottesco e penso testimoni ampiamente l'approccio semplicistico di troppe persone alla questione della privacy. Magari al secondo tentativo ci riescono meglio…

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Il nichilismo dei blog

5 Gennaio 2007 9 commenti

Bruce Sterling pubblica oggi sul suo blog su Wired due articoli che cercano di gettare luce sul fenomeno del blogging e sul suo senso sociale. Il primo articolo nella sua lapidarietà fa proprio il motto del blog di fastidio (in assoluto il migliore blog di noblogs al momento), definendo i blogger nichilisti, ovvero buoni a nulla. Ovviamente il caro Friedrich si sta ribaltando nella tomba per questo uso improprio del termine nichilismo, ma d'altronde far ribaltare nella tomba i padri dei nostri riferimenti culturali è quasi uno sport, più che un hobby (ho cominciato quando avevo diciassette/diciotto anni con Guy Debord 🙂 

Allo stesso tempo affermare il nichilismo del fenomeno del blogging percorre un'iperbole in grado di mettere in luce la potenza dello svuotamento, l'esercizio di una piccola volontà come potenza. Il secondo testo ovviamente è da intersecare con il primo, fornendo una valutazione quantitativa al fenomeno che riesce a dare una dimensione migliore della natura elitaria ancora e sempre della partecipazione in rete. Il numero di persone con l'accesso alla rete è intorno a un quinto della popolazione mondiale, ma le persone che partecipano attivamente a un progetto sul web sono intorno all'uno per cento. Inoltre all'interno di questa nuova strettissima oligarchia solo pochissime centinaia producono l'ampia maggioranza del contenuto in ogni particolare situazione. 

Ciò significa che il fenomeno del blogging, per i più svezzati tecnologicamente ormai superato, per i molti ancora la cosa più innovativa che essi siano stati in grado di fare in rete, per la maggior parte della popolazione mondiale una cosa totalmente sconosciuta, è l'aborto di un'idea luminosa? Che si è sprecata la possibilità di sfrutttare un strumento veramente in grado di abbattere i grandi monopoli dell'informazione?

Non penso. Penso semplicemente che la costruzione di meccanismi di partecipazione possibili non vada letta come un elemento di aggressione delle strutture esistenti, ma come un percorso tutto sommato costituente (di cosa? lo vediamo dopo 🙂 E' assolutamente evidente la natura elitaria della produzione di contenuto in rete, anche laddove si è riusciti ad avere una massiccia partecipazione al processo di produzione dell'informazione (ad esempio il newswire di indymedia), anche quando ci si è presentati in paesini e in paesoni a spiegare come pubblicare le proprie informazioni in un luogo accessibile a tutti.

Non solo. Il meccanismo di costruzione del media di indymedia e di altri progetti sorti dal basso non è stato in nulla diverso dai meccanismi di branding e media-acknowledgement dei media tradizionali: semplicemente potremmo dire che indymedia è stato l'unico fortunato tra i media cosiddetti grassroot ad essere assurto al ruolo di fonte di informazione ufficiale, di media vero e proprio.

La dimensione nichilista del fenomeno blogging (e di centinaia di altri meccanismi di produzione distribuita di informazione) va interpretata in un'altra direzione, quella dell'erosione lenta ma inesorabile di porzioni del colosso dei network di broadcasting che erano state considerati fino a pochi anni fa ineluttabili (la sua dimensione unidirezionale per dirne una, o la sua permeabilità effettiva alla realtà). In questo senso l'espressione di potenza dei blogger et similia è si una espressione di svuotamento, di sottrazione, di distruzione, seppure non nel senso più banale ed ordinario che di solito viene associato alla parola nichilista.

Ma c'è qualcosa di più in questi fenomeni? E se è tutto qui perché stiamo ancora lavorando su strumenti che arricchiscano il panorama dei media grassroot in un modo o nell'altro? Perché esiste una dimensione costituente di questi fenomeni che ne rappresenta il valore più interessante.

Se pensiamo agli strumenti come il newswire di indymedia o come questo sistema di blogging (o come altri) in quanto spazi di definizione di relazioni possibili, di eventualità, e non come momenti di produzione di una verità più vera, di controverità che riescano a competere per solidità con quelle prodotte dal sistema dei media tradizionali, allora scopriamo che tutti questi sistemi non avevano il fine di scimmiottare l'esistente, ma di inventare qualcosa di nuovo, di esprimere potenza in una direzione nuova e fertile, sempre per meritarci il nomignolo di eredi del pensiero del vecchio Friedrich.

Se immaginiamo che tutto ciò che attraversa il nostro schermo in un dato sistema di condivisione e partecipazione del processo di produzione dell'informazione sia in effetti un sitema di coordinate in grado di suggerirci chi ci è più vicino, chi più distante, chi può arricchire i nostri sforzi e chi non è interessante in alcun modo, chi può incrociare la nostra strada e chi invece ne sta percorrendo un'altra, allora scopriamo un senso nuovo in quello che stiamo costruendo, un ritorno alla dimensione originale della parola comunicazione (ie: messa in comune). 

E' in questa forma che quello che costruiamo assume ancora di più il senso di distruzione associato alla parola nichilismo, la trasformazione in possibile di qualcosa che era solo eventuale, la costituzione in realtà di qualcosa che non avremmo potuto conoscere. E' in questa prospettiva che non possiamo pensare al newswire di indy o a questo progetto come un semplice collettore, come una bacheca, ma che dobbiamo intepretare questi luoghi (come altri meno virtuali come assemblee di quartiere o tazebao in luoghi ameni o volantinaggi in mercati e piazze) come possibili rappresentazioni di possiblità, da cogliere, da pesare, da vivere.

PS: il pezzo era molto più lungo e articolato di così, ma la tecnologia mi ha tradito facendomi assaggiare la sensazione del vuoto tra un tab e l'altro di firefox. 🙁 

PPS: sì, i blog sono la merda della rete, ma per questo possono anche essere il miglior concime di un'interpretazione sociale del media che metta al centro il conflitto e l'essere umano, la sua sottrazione all'esistente e al probabile, per l'ipotetico e il possibile.

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Cina e Africa

30 Dicembre 2006 3 commenti

中国

 

Riporto integralmente l'interessante articolo di Irene Panozzo tratto da carmillaonline, che a sua volta lo ha tratto da Limes (n3./2006). Molto ben fatto nella sua dimensione abbastanza riassuntiva di rapporti che possono vantare almeno una cinquantina di anni di storia solida 🙂

 

“I primi anni del nuovo secolo testimoniano una continuazione dei profondi e complessi cambiamenti della situazione internazionale e l’ulteriore avanzamento della globalizzazione. (…) La Cina, il più grande paese in via di sviluppo del mondo, segue la via dello sviluppo pacifico e persegue un’indipendente politica estera di pace. (…) Il continente africano, che comprende il più gran numero di paesi in via di sviluppo, è una forza importante per lo sviluppo e la pace del mondo. Le nuove circostanze creano nuove opportunità per le relazioni tra Cina e Africa, tradizionalmente amichevoli.”
Inizia con queste parole il documento programmatico che il governo di Pechino ha presentato il 12 gennaio 2006. Un documento non a caso intitolato “La politica della Cina in Africa”, che fotografa e allo stesso tempo costituisce la punta dell’iceberg di un fenomeno di ampia portata, in atto da anni ma sempre più all’ordine del giorno nelle riflessioni che riguardano l’Africa: la penetrazione cinese nel continente.

La pubblicazione di questo documento è tanto più notevole in quanto si tratta di un passo più unico che raro da parte del governo di Pechino. Infatti, l’articolazione di una politica specifica nei confronti del continente è la seconda del suo genere in tutta la storia della Cina popolare. Solo nel 2003 Pechino aveva preparato qualcosa di simile per mettere nero su bianco la sua politica nei confronti dell’Unione Europea. Ma nel caso dell’Africa la presentazione di questa sorta di ‘libro bianco’ sui rapporti cinesi con il continente si è inserita in un fittissimo reticolato di incontri, firme di accordi di cooperazione economica, visite ufficiali, appalti ricchissimi per la costruzione di infrastrutture e contratti energetici miliardari. A illustrare il documento alla stampa, c’era quel giorno il portavoce del ministro degli Esteri cinese.

Il responsabile del dicastero, il ministro Li Zhaoxing, non era presente, perché impegnato altrove. In Africa, guarda caso, in un viaggio ufficiale di otto giorni, nel quale è passato da Capo Verde al Senegal, dal Mali alla Nigeria, dalla Liberia alla Libia. Sei paesi, sei tasselli ugualmente importanti per la strategia cinese, anche se per ragioni diverse: per la pesca Capo Verde e il Senegal, per il petrolio la Nigeria e la Libia, per il legname la Liberia e per il cotone il Mali. Ma al di là delle risorse naturali, tutti gli incontri bilaterali e gli accordi firmati da Li Zhaoxing con le controparti locali hanno riguardato anche la cooperazione tecnica e politica e quella in campo medico e culturale.
I buoni rapporti tra Cina e paesi africani non sono una novità. Fin dall’epoca delle indipendenze, della guerra fredda e del non-allineamento la Cina ha sempre intessuto relazioni diplomatiche anche importanti con parte dei governi del continente. Il primo paese africano a riconoscere la Cina popolare e a instaurare relazioni diplomatiche con Pechino fu l’Egitto di Nasser, nel 1956. Cinquant’anni fa e un altro panorama internazionale: erano gli anni della nascita del movimento dei paesi non-allineati, creato dallo stesso Nasser assieme al presidente jugoslavo Tito e a quello indiano Nehru: la Cina di Mao, i cui rapporti con l’Urss di Chruš?ëv erano in fase di crescente tensione , era uno dei paesi a cui avvicinarsi. Tanto più che Nasser si trovava in rotta di collisione con i paesi occidentali per la questione di Suez ed era quindi pronto a guardare a quelli comunisti per ottenere i fondi necessari alla costruzione della grande diga di Assuan, soldi che arrivarono prontamente dall’Urss. Nei decenni successivi, la dottrina cinese del terzomondismo e l’arrivo al potere in alcuni paesi africani di padri della patria campioni del “socialismo africano” – primo tra tutti il tanzaniano Julius Nyerere, la cui politica di collettivizzazione agricola basata sulle ujamaa (solidarietà familiare in kiswahili), i villaggi comunitari rimasti la struttura portante del sistema agricolo tanzaniano per quasi vent’anni, era chiaramente ispirata ai princìpi della rivoluzione cinese – istituzionalizzarono ulteriormente i rapporti tra Pechino e alcune capitali africane.
È pensando a questo passato che il documento del 12 gennaio richiama nel prologo i rapporti “tradizionalmente amichevoli” tra Cina e Africa, sottolineando come tutti i paesi, sia da una parte che dall’altra, siano da catalogare come paesi in via di sviluppo. Il panorama internazionale, però, non è più lo stesso degli anni Sessanta e Settanta. E anche la natura dei rapporti tra Pechino e il continente africano è cambiata radicalmente. Non sono più l’ideologia, la solidarietà con governi e partiti comunisti o socialisti considerati amici o le scelte di politica economica a determinare il destino delle relazioni tra Cina e Africa. Da più di qualche anno ormai la parola è stata lasciata alle monete sonanti con cui le concessioni petrolifere vengono pagate, a quelle degli ingenti investimenti cinesi nelle infrastrutture di molti paesi africani o a quelle che costituiscono i prestiti a tassi quasi inesistenti per paesi così indebitati da far difficoltà a ricevere finanziamenti dalle istituzioni internazionali o dai paesi donatori riuniti nel club di Parigi.

La Cina ha iniziato la sua nuova penetrazione in Africa circa dieci anni fa, attirata dalle ricchezze minerarie del continente, soprattutto dalle sue riserve di petrolio e gas (senza dimenticare però quelle di rame, cobalto, carbone e oro), necessarie per far mantenere al paese asiatico il rapido passo della sua crescita economica. Ma è stata anche la presenza di mercati di facile penetrazione, dove i manufatti cinesi, con buona tecnologia ma di poco prezzo, sbaragliano qualsiasi concorrenza, ad attrarre l’attenzione di Pechino. L’Africa soddisfa quindi le necessità primarie della grande crescita economica del gigante cinese, che ha saputo crearsi ampi spazi d’azione nel continente.
Solo da alcuni anni però la “conquista” cinese dell’Africa, iniziata senza fanfare e con molto pragmatismo, è diventata tanto evidente da attirare l’attenzione del resto del mondo. Degli analisti politici ed economici, ma anche di quei governi, a iniziare dagli Stati Uniti e dalla Francia, che si sono trovati ad aver perso terreno, a tutto vantaggio di Pechino, in un continente considerato strategico per i loro interessi sia economici che geopolitici. Bastano alcune cifre per capire quale sia la questione: stando ai dati ufficiali del governo cinese, il volume degli scambi commerciali tra la Cina e il continente africano è quadruplicato negli ultimi cinque anni. Solo nei primi dieci mesi del 2005 è cresciuto del 39%, arrivando a superare i 32 miliardi di dollari . Di questi, le esportazioni cinesi verso il continente hanno contato per 15,25 miliardi, mentre le importazioni hanno raggiunto quota 16,92 miliardi di dollari. Sempre negli stessi dieci mesi, aziende cinesi hanno investito nei paesi africani un totale di 175 milioni di dollari .
Ufficialmente, il punto di partenza di questa crescita esponenziale nei rapporti commerciali tra le due parti è da fissare tra il 10 e il 12 ottobre 2000, quando a Pechino si riunirono i ministri degli Esteri e della cooperazione internazionale della Cina e di 44 paesi africani, creando il Forum sulla cooperazione Cina-Africa, una “piattaforma realizzata dalla Cina e dai paesi africani amici per [dar vita] a consultazioni e dialoghi collettivi e a un meccanismo di cooperazione tra paesi in via di sviluppo che ricade nella categoria della cooperazione Sud-Sud” . Da allora Pechino ha cancellato i dazi su 190 tipologie di prodotti di importazione in arrivo sul suo mercato interno da 28 paesi africani meno sviluppati, mentre i manufatti cinesi invadevano il mercato africano.
Ma all’ottobre 2000 Pechino era già presente in maniera importante in alcuni paesi africani. Uno per tutti il Sudan, diventato ufficialmente produttore ed esportatore di petrolio nel settembre 1999 soprattutto grazie all’intervento cinese. Che nel sottosuolo della regione al confine tra Nord e Sud Sudan ci fosse del petrolio lo si sapeva dalla fine degli anni Settanta. Ma la ripresa della guerra civile tra le due parti del paese nel maggio 1983 aveva impedito alle compagnie petrolifere straniere presenti sul terreno di lavorare. A metà degli anni Novanta, dopo anni di stallo e a conflitto ancora ampiamente in corso, un consorzio conosciuto con il nome di Greater Nile Petroleum Operating Company (Gnpoc) ha preso in mano sia i lavori di prospezione e sfruttamento dei blocchi 1, 2 e 4, sia la costruzione di una raffineria poco fuori Khartum e di un oleodotto di 1.600 km necessario a portare il greggio dai campi petroliferi del Sudan meridionale a Port Sudan, sul Mar Rosso. Con il 40% delle azioni , il partner di maggioranza del consorzio è la China National Petroleum Corporation (Cnpc), una delle più grosse (e delle più attive sui mercati esteri) compagnie petrolifere di Stato cinesi . Oltre alla partecipazione al Gnpoc, la Cnpc ha in concessione “in solitaria” anche l’intero blocco 6, mentre divide con altre compagnie straniere lo sfruttamento dei blocchi 3 e 7.
Il fatto che le compagnie cinesi non debbano rispondere delle loro azioni e del loro eventuale coinvolgimento in situazioni di guerra e di gravi violazioni dei diritti umani a un’opinione pubblica sensibile a questi temi ha sicuramente favorito la stretta collaborazione che si è creata tra Pechino e Khartum. Il settore petrolifero rimane il più importante agli occhi della Cina, visto che oltre la metà dell’export sudanese di greggio va al colosso asiatico, coprendo così il 5% del suo fabbisogno. Ma non c’è solo il petrolio ad attrarre i capitali cinesi sulle sponde del Nilo. Ci sono anche le infrastrutture da creare ex novo – tra cui una pipeline di 470 km per portare l’acqua dal Nilo e dall’Atbara nell’arida regione orientale (un progetto siglato nel giugno 2005 e che costerà 345 milioni di dollari) e il più grande progetto idroelettrico in corso nel continente, una diga in costruzione 350 km a nord di Khartum, all’altezza della quarta cateratta del Nilo – e la vendita di armi, il settore delle telecomunicazioni su cui investire e la cooperazione tecnica e medica.
Il Sudan è il principale destinatario degli investimenti esteri cinesi e uno dei paesi africani con cui Pechino ha più scambi commerciali. Ma non è certo il solo. Innanzitutto perché non esiste solo il petrolio sudanese. Le tre principali compagnie petrolifere di stato cinesi, la Cnpc, la Cnooc e la Sinopec, si stanno ritagliando sempre più spazio nello sfruttamento del greggio africano. Mentre la Cnpc è impegnata in prospezioni nel Sud del Ciad e nell’Etiopia occidentale, la Cnooc ha firmato nel gennaio scorso un accordo miliardario con la Nigeria per comprare il 45% della concessione di proprietà della South Atlantic Petroleum che comprende importanti giacimenti offshore sia di petrolio che di gas.
Accanto alle risorse energetiche però c’è dell’altro. I soldi cinesi stanno trasformando il paesaggio di molte capitali africane (da Yamoussoukro, in Costa d’Avorio, dove sono già in costruzione gli alloggi per i 225 deputati ivoriani, a Luanda, in Angola, dove aziende cinesi stanno restaurando un intero quartiere), in un make-up che rispecchia anche all’esterno un cambiamento radicato nel tessuto economico. Ma anche fuori delle capitali i cambiamenti sono visibili: sono cinesi i capitali e l’ingegneria della ferrovia costruita in Angola, ad esempio, o delle strade e dei ponti eretti in Ruanda, come anche dell’autostrada in Etiopia e di buona parte della rete dei trasporti dello Zimbabwe. La buona tecnologia a prezzi contenuti che la Cina offre nei suoi prodotti ha anche significato per molti paesi poter saltare alla telefonia cellulare senza passare dalla rete telefonica tradizionale, ancora largamente insufficiente anche in molte capitali africane.
Il rapporto tra Cina e Africa, quindi, è interessante per entrambe le parti. Ed è questa situazione che il documento programmatico pubblicato il 12 gennaio fotografa. Il “nuovo modello di partnership strategica” che il ‘libro bianco’ propone non tralascia nessun possibile ambito di cooperazione: politica, economica, sociale, infrastrutturale, culturale e via dicendo, per un totale di circa trenta diversi settori. E non c’è dubbio che ai paesi africani la proposta possa apparire allettante, tanto più che Pechino non pone condizioni politiche. O, meglio, ne pone solo una, facile da rispettare: aderire al principio di “una sola Cina”, rifiutando di avere relazioni ufficiali con Taiwan. Una scelta che, a conti fatti, evidentemente è conveniente fare, se la stragrande maggioranza dei paesi africani preferisce Pechino a Taipei.
L’ultimo in ordine di tempo a rompere con Taiwan per riaprire i rapporti diplomatici con la Cina popolare è stato il Senegal, che è stato subito premiato. Nella sua visita in Africa di metà gennaio il ministro degli Esteri Li Zhaoxing ha fatto tappa anche a Dakar, dove ha dichiarato che la Cina vuole espandere la cooperazione tra i due paesi in qualsiasi campo, dall’agricoltura all’istruzione e dalla sanità alla cultura. Nel frattempo, ha firmato assieme alla sua controparte senegalese un accordo di cooperazione economica e tecnologica.
La mancanza di condizioni politiche, one China principle escluso, è ribadita anche dall’enfasi che la Cina pone a ogni buona occasione sul mutuo rispetto dei confini territoriali, della non aggressione e (soprattutto) della non interferenza negli affari interni dei singoli paesi. Il che significa non fare questioni né porre condizioni di nessun tipo neanche a governi non democratici, violatori dei diritti umani o altamente corrotti. L’esempio sudanese non è l’unico neanche in questo senso. La politica dello “sguardo a oriente” inaugurata da Robert Mugabe, il presidente dello Zimbabwe, in risposta al progressivo boicottaggio e isolamento internazionale con cui i paesi occidentali e le istituzioni finanziarie internazionali hanno reagito alle ripetute frodi elettorali e alla violenza usata dal regime per espropriare i settlers bianchi ha ricevuto un caloroso benvenuto a Pechino. Non solo a parole: quando nel luglio 2005 Mugabe si è recato in visita ufficiale in Cina, ha ricevuto tutti gli onori riservati a un capo di Stato, ma non è neanche stato lasciato tornare a casa a mani vuote. In cambio di concessioni minerarie, Mugabe ha ottenuto prestiti (tra cui uno da sei milioni di dollari da usare per importare mais) e accordi commerciali, un’iniezione vitale per l’asfittica economia di un paese ormai ridotto alla fame, privato da qualche anno degli aiuti economici occidentali e dell’assistenza finanziaria di Fondo monetario internazionale e Banca mondiale. Il radicale cambiamento nell’orientamento della politica estera del paese si è rispecchiato anche nelle scelte del ministero dell’Istruzione, che nel gennaio 2006, in occasione dell’inizio del nuovo anno scolastico e accademico, ha annunciato che il cinese diventerà materia di studio in tutte le università del paese, per favorire il turismo e gli scambi commerciali con Pechino .
Le cose non sono andate molto diversamente neanche in Angola, il secondo produttore di petrolio africano dopo la Nigeria, che sta risorgendo dalle sue ceneri dopo una guerra civile quasi trentennale. Il forte indebitamento del paese e la totale mancanza di trasparenza, che – non è un mistero – nasconde un sistema altamente corrotto, impediscono di fatto all’Angola di accedere all’assistenza finanziaria del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale, come anche ai crediti dei principali paesi donatori. Il vuoto che le regole del club di Parigi hanno creato è stato prontamente riempito dalla Cina: nel marzo 2004 la banca cinese Eximbank ha concesso al governo di Luanda una linea di credito di più di due miliardi di dollari, da utilizzare, progetto dopo progetto, per ricostruire le infrastrutture (rete elettrica, strade, ponti, aeroporti, ferrovie e così via) del paese devastato dalla guerra. In realtà, però, i dettagli dell’accordo non sono mai stati resi noti. Ciò che si sa è che il credito ricevuto viene ripagato con forniture di petrolio alla Cina. Tanto che le importazioni del greggio angolano sono andate crescendo, fino ad arrivare a toccare, nei mesi di gennaio e febbraio 2006, 456mila barili al giorno, una cifra che basta a coprire il 15% del fabbisogno giornaliero cinese. L’Angola è così diventata il principale fornitore di greggio di Pechino, superando non solo il Sudan, finora il principale fornitore africano della Cina, ma anche Iraq e Arabia Saudita .

Legami economici e commerciali, investimenti nelle infrastrutture, cooperazione tecnica e militare, copertura politica senza fare domande: sono questi i punti di forza del rapporto di crescente amicizia tra la Cina e l’Africa. E non manca neanche l’elemento più strettamente diplomatico. A cinquant’anni dall’instaurazione delle prime relazioni diplomatiche tra Pechino e un paese africano, la Cina si pone quindi come reale alternativa al monopolio Usa. Ed è ormai chiaro anche per Washington che non si tratta di una concorrenza che riguardi solo l’ambito economico. Un’inequivocabile offerta di sostegno in ambito internazionale arriva anche dal documento programmatico del 12 gennaio, che afferma che “la Cina rafforzerà la cooperazione con l’Africa all’interno delle Nazioni Unite e in altri sistemi multilaterali, assicurando sostegno alle giuste richieste reciproche e alle posizioni ragionevoli”, mentre in un altro passaggio, i policy-makers di Pechino ribadiscono la disponibilità di “continuare a rinforzare la solidarietà e la cooperazione con i paesi africani nell’arena internazionale e a cercare posizioni comuni sulle principali questioni internazionali e regionali” .
Una tale apertura di credito, questa volta politico, non è certo destinata a passare inosservata agli occhi di molti regimi africani, visto che la copertura diplomatica in tutte le piazze che contano, a partire dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu di cui Pechino è uno dei membri con diritto di veto, non è un elemento di poco conto per governi che, in molti casi, hanno parecchie cose da nascondere. E i paesi africani sanno che la Cina non promette invano. Anche in questo caso è l’esempio sudanese a fare scuola. Con l’escalation della guerra in Darfur, nell’estate 2004, gli Stati Uniti hanno ripetutamente proposto al Consiglio di Sicurezza di adottare delle sanzioni economiche contro il Sudan per indurlo a più miti consigli. Si era parlato di un embargo sul settore petrolifero, su quello degli armamenti e di misure finanziarie mirate contro i principali esponenti del governo. L’adozione di qualsiasi sanzione, anche la più leggera, è stata però bloccata dalla minaccia di veto della Cina, pronta a difendere a spada tratta quello che al momento era ancora il suo principale fornitore di greggio in Africa.
Dopo molti tira e molla, il 30 luglio 2004 il Consiglio di Sicurezza ha adottato, con 13 voti a favore ma con l’astensione di Cina e Pakistan, la risoluzione 1556 che concedeva a Khartum trenta giorni di tempo per riportare l’ordine in Darfur e imbrigliare le milizie janjawid, i “diavoli a cavallo” diventati tristemente famosi negli ultimi anni per le atrocità commesse ai danni delle popolazioni africane della regione, promettendo in caso di mancato adempimento “ulteriori azioni, incluse quelle previste dall’articolo 41 della Carta delle Nazioni Unite”. Khartum ha risposto alla minaccia con deboli misure di facciata, che non hanno di fatto cambiato la situazione sul campo. Il governo sudanese era sicuro di avere le spalle coperte dall’appoggio della Cina e, in seconda istanza, della Russia, dalle cui società il Sudan ha spesso acquistato armi pesanti. Così in effetti è stato: nonostante l’inadempienza di Khartum, in settembre il Consiglio di Sicurezza ha adottato un’altra risoluzione di contenuto simile a quello della 1556, senza però prevedere alcuna delle “misure ulteriori” annunciate a fine luglio.
Anche le velate minacce dell’estate sono state alla fine sacrificate sull’altare degli equilibri diplomatici in seno all’Onu, sempre per la strenua opposizione della Cina a ogni misura anche blandamente punitiva contro Khartum. Alla fine di una molto pubblicizzata riunione straordinaria del Consiglio di Sicurezza a Nairobi, la quarta fuori dal Palazzo di Vetro in tutta la storia dell’organizzazione, il 19 novembre 2004 è stata adottata all’unanimità una risoluzione totalmente “annacquata”, da cui era stato eliminato qualsiasi riferimento a eventuali future sanzioni, mentre in Darfur la situazione non accennava a migliorare.

[fonte: n.3/2006 della rivista di geopolitica LIMES]

 

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Uno spettro (non un fantasma) si aggira per le strade della metropoli… City of Gods!

23 Dicembre 2006 Commenti chiusi

 

Stamattina, come al solito, mi sono alzato e sono andato a fare la spesa al mercato e a fare colazione in Isola. Mentre passavo per la fermata di Gioia ho notato un plico di City più esiguo del normale. Considerato il fatto che oggi è il terzo giorno di sciopero dei giornalisti e che quindi non ci sarebbero stati giornali da nessuna parte, ho deciso di tirare su il quotidiano gratuito (peraltro quello fatto meglio tra tutti i tre market-leader di settore a Milano), giusto per dare un occhio. Qualcosa stonava nella copertina, ma non riuscivo a focalizzare cosa a prima vista.

Quando sono arrivato al pub24 e ho avuto tempo di leggere mi è preso un colpo: non è un free press, è un action prop!

Cercando in rete ho trovato questo sito… I precari e le  precarie milanesi, una ne fanno e cento ne pensano! ihihiihihihi

PS: il riferimento del titolo del post è al gruppo dei fantasmi giornalisti precari, che si fregiano di un trafiletto oggi su e-polis, ma che sono ben lungi dall'aver idee brillanti come queste per  muoversi sul terreno del conflitto (d'altronde sono un gruppo legato a uno dei sindacati della triade mefitica!)

 
City of gods, una voce della cospirazione precaria

No, non è subvertising (se non siete giornalisti potete passare alla riga sotto). O almeno, non solo.

Cosa avete in mano, o sul vostro schermo

City of gods – il primo free & free press (ovvero libero e gratuito) – è stato distribuito in 50.000 copie nelle città di Milano. E' la parola delle precarie e dei precari dell'informazione che si rivolge alle precarie e ai precari in generale.

I media non sono più un prodotto che vende informazioni al pubblico (troverete stime e dati all'interno di City of gods) ): sono lo spazio dell'inserzionista attraverso il quale l'editore vende i propri lettori, voi. E' un servizio che tra l'altro pagate pure 90 centesimi, 1 euro, 1 euro e 10. Più soldi hanno i lettori, più gli editori si arricchiscono dalla vendita degli spazi pubblicitari.
All'interno di questo meccanismo ci sono i giornalisti, precari, free lance, senza contratto, a cottimo, a pezzo, a parola, a riga, a comete millenarie e casi del destino. Precari e precarie sottoposti al ricatto dei precarizzatori, della manchette, della pagina di pubblicità all'ultimo momento, del “non spingere troppo su questi che sono i nostri inserzionisti”, della creazione di quel complesso meccanismo di informazione, disinformazione che vi fa credere che se la vostra vita è una merda, non potete farci un granché.

Per questo City of God è free & free: gratis, ma soprattutto libero, nelle parole, nell'irriverenza, nelle critiche, nello stile precario.
Per questo, in occasione dello sciopero dei giornalisti, che incredibilmente, ma non certo casualmente, visto il contesto, da due anni aspettano che gli editori si siedano al tavolo delle trattative per il rinnovo del contratto di lavoro precari e precari dell'informazione e non, hanno deciso di uscire con City of Gods: la stagione della cospirazione precaria è iniziata.

E ancora una volta i precari hanno preso la parola, attivandosi cospirando e creando relazioni e complicità che permettono di stampare, distribuire 50 mila copie di City of Gods (e scriverne il contenuto che per una volta, non ti precarizza, ma ti informa).

Al principio
"Al principio" fu la parola, poi venne il racconto ed infine l’informazione. A questo punto la storia presenta una sorpresa, o quasi: il diritto all’informazione si trasforma immediatamente nella disinformazione compensatrice delle vostre sfighe quotidiane, affinché esse siano “inevitabili”, “oggettive”, “certe”, “inattaccabili”.
Insieme, informazione + disinformazione, diventano propaganda, che trova nei media di massa il naturale alleato e nel brand la sua punta di diamante. Nella costruzione del brand, intimamente connesso alle informazioni che leggete ogni giorno sui giornali o sentite in radio e televisione, è celato un meccanismo più complesso di quello che potrebbe sembrare.
Nel brand si determina la strutturazione di un potente retro_informatore che agisce anticipando l’informazione, creando quel bacino comporta/mentale all’interno del quale l’informazione stessa, e il suo contrario, si collocano. E’ un processo comunicazionale superiore alla propaganda. La rende, alternativamente, compatibile o inutile. In ciò tutta la difficoltà del presente. Ma anche il terreno su cui agire.

L'intelligence precaria
Se vi siete persi il numero odierno di City of Gods lo troverete sul sito dell’intelligence precaria, che si attiva proprio da oggi in intima e sinergica collaborazione con i giornalisti e le giornaliste precari e precarie. L’intelligence è patrimonio comune dei precari e non solo del giornalismo. In esso confluiranno le mille sfaccettature dell’oppressione dei precarizzatori e dei contropiedi precari.
Ma che cosa rappresenta questo sito?
Immaginate un sito che non è un semplicemente tale, ma piuttosto un luogo che fa circolare informazione, non per informare, bensì per formare quel bacino di notizie da cui si estrarrà il bazar della creazione di conflitto. E che contiene anche i prodotti di queste creazioni e gli strumenti che le hanno consentite. Un sito crudele e spietato, scorretto verso le imprese, le istituzioni sociali, le merci ad alto contenuto ideologico e tutti i loro gli adepti: fazioso ma mai frazioso. Un sito che ha la classe del purosangue, la ricchezza del meticcio; che non esercita fashionismo e brigantaggio culturale, che vive da sé, con quello che fa e per quello che dà. Pone questioni di stile, perché lo stile è importante, e chiede, just in time, relazioni e complicità.

City of gods, una voce della cospirazione precaria

 

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