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Freedom di J. Franzen, un libro normale

4 Novembre 2010 19 commenti

Freedom è stato salutato come uno delle migliori opere dell’anno e Jonathan Franzen, amico del defunto David Foster Wallace, come uno dei pochi autori che potrebbero occupare la casella vagamente disabitata dei “Grandi Romanzieri Americani”. Incuriosito sia dal legame con DFW che con gli elogi sperticati che si sono tessuti del libro, ho deciso, in un momento di shopping librario compulsivo, di comprarlo in lingua originale (dato che la traduzione è in previsione tra pochi mesi).

E devo dire che dal punto di vista dello stile e dell’impostazione del libro non mi è per nulla dispiaciuto: l’ho trovato un’opera interessante, una specie di Buddenbrooks della nuova middle class popolare e impoverita americana, uno sguardo abbastanza pungente soprattutto sui limiti degli attuali adulti e delle loro famiglie, delle eredità psicologiche e sociali che li generano e di quelle che lasciano in dono alla propria progenie.

C’è anche da dire che forse il “Grande Romanzo Americano”, come anche quello Italiano, sono alquanto defunti non solo perché mancano gli autori, ma perché mancano le storie, rimpicciolite dal nanismo delle vicende che ci circondano, della vita sociale che vediamo dipanarsi tutti i giorni intorno a noi. Storie piccole, libri piccoli, autori piccoli. Che cosa ci sarebbe di strano?

Occorre – e scomodo ancora una volta la riflessione sul New Italian Epic di Wu Ming 1 – inventare storie degne di diventare parte dei nostri sogni, delle nostre speranze, di ciò che vorremmo potesse ancora accadere. Invece Freedom è un’opera sulla realtà, anzi direi che Franzen dà il meglio di sé quando dipinge senza mezzitoni le ipocrisie e le patetiche mezzeverità in cui il sogno americano si è trasformato: quando sferza il presunto potere sovversivo del rock osannato da cantanti che prendono milioni di euro al mese; quando definisce in una frase tutta la politica liberal (“il desiderio di assolvere il proprio senso di colpa”); quando la storia di Mitch – il fratello diseredato e homeless di uno dei protagonisti – si conclude con il suo dialogo con Walter intorno a una scatoletta e un rotolo do banconote e con l’epocale chiusa “You’re a free man” “That I am”; quando dipinge la diversità di lettura di un film sconosciuto chiamato The Fiend of Athens tra l’intellettualizzazione di Walter e la pragmaticità tutta americana di Patty (diversità che rappresenta di fatto la chiave di lettura dell’intero libro, per dire la sofisticatezza dell’operazione letteraria di Frazen…)

Ed è un’opera figlia del senso di colpa dell’autore stesso, della sua coscienza sporca: Franzen è un figlio della middle class americana degli anni 60/70, il figlio di una generazione convinta che i suoi sogni sarebbero presto diventati realtà e che sulla scorta di questa illusione ha completamente dimenticato di porsi il problema di come allevare decentemente una nuova generazione, di una generazione che ha scaricato le proprie disillusioni e i propri difetti di immaturità su schiere di giovani che si sono riversati nel nuovo sogno americano negli anni 90 e 2000. Ecco, se Freedom può rappresentare qualcosa, è proprio la disperazione di prospettive intellettuali e politiche degli anni 2000 in America.

Peccato che come ogni buona opera di esorcismo dei propri demoni, Franzen ceda proprio nel finale all’auto-assoluzione, alla compassione, alla felicità patinata di un finale borghese tutti felici e contenti, ognuno nella propria mediocrità e nell’accettazione della propria natura umana e fallace. Perché alla fine siamo comunque in America, il Paese benedetto da Dio, dove tutti possono sbagliare e imparare dai propri errori e alla fine vivere una vita felice, grazie all’immenso, eterno, perfetto più che perfettibile Sogno Americano.

Se questo deve essere l’erede di Steinbeck e altri nomi che hanno fatto la storia della letteratura, non lo sarà certo per questo libro.

Voto: 7