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Bravo Brandelli

13 Dicembre 2008 Commenti chiusi

 

Bravo Brandelli è il secondo libro del buon Andrea Ferrari con il quale nelle volte in cui ci siamo incrociati penso di aver sviluppato un rapporto piuttosto amichevole. So quindi che non se la prenderà per le critiche perché sono fatte senza cattiveria. Come al solito comincio da queste per poi arrivare agli aspetti interessanti del libro: il testo è scritto peggio del primo, più confuso, meno limpido e un po’ arrotolato su sé stesso. Non so se è demerito di scarso editing o testardaggine di Andrea nel ritenere alcune forme di costruzione della frase una sua licenza poetica (io in Monocromatica mi sono infittito su alcune frasi senza veramente avere ragione nel merito 🙂 La storia inoltre è abbastanza priva di ritmo, anche rispetto allo stile Brandelliano che vede trame semplici per lasciare il tempo al personaggio di sragionare. D’altronde – e qui veniamo agli aspetti che mi sono piaciuti del libro – la storia, come in Monocromatica – conta relativamente poco, dato che la protagonista è Milano, molto più che nel primo libro. Anzi, per la precisione il  protagonista vero del libro è il cambiamento che Milano sta subendo, l’accelerazione in direzione della ferocia che lo spazio urbano in cui sia io che Ferrari abbiamo vissuto sta vivendo. Milano non è mai stata nota per la sua accoglienza o la sua calorosità, ma da buoni milanesi sia io che Andrea nutriamo una sincera fascinazione per la metropoli, e io non sono mai riuscito a immaginarmi a vivere altrove. Milano ha sempre avuto una sua dimensione romantica e tanghera – direbbe il mio socio – anche se alquanto nascosta e difficoltosa da reperire. Per goderti Milano devi prima capirla, cosa tutt’altro che facile. Il punto è che questo è stato vero fino a qualche anno fa. Da qualche annetto Milano si è inferocita, imbarbarita, e le sue genti l’hanno seguita di buon grado rendendosi più indifferenti alla crudeltà che li ha investiti, indurendo i propri corpi e le proprie anime alle grida di dolore e alle sensazioni di inadeguatezza. Milano si è raffreddatta, si è fatta silenziosa e immota, più lurida, più cupa. E’ stato un processo molto più rapido di quanto si pensi, e il libro di Ferrari racconta della nostra difficoltà nel comprendere che cosa sia successo alla città che amiamo – o forse abbiamo amato – e che cosa succeda a noi che continuiamo a viverci cercando di ritrovarvi quello che probabilmente non c’è più. Per questo il libro tutto sommato mi è piaciuto: perché anche se con uno stile che segna un passo indietro rispetto alla sua opera prima, il cuore del romanzo siamo noi, milanesi innamorati di una città che non c’è più, di gente che non attraversa più le nostre strade, persa per sempre nel delirio securitario, nella paura e nell’abiura di sé (cit. Caparezza). Anche il libro che ho scritto e stracciato, il continuo di Monocromatica parlava di questo, ma io non ho avuto ancora il coraggio di fregarmene della forma per colpire al cuore la sostanza di un problema. Il passetto successivo è quello di immaginarsi una soluzione, ma sono certo che neanche Brandelli sa da che parte cominciare. Tantomeno io. Almeno per ora.

PS: adesso sono alle prese con un altro libro della editrice Eclissi, piccola e milanese, ma che finora si è ritagliata un buono spazio sugli scaffali delle librerie, nonostante la qualità altalenante dei libri (alcuni divertenti e ben scritti, altri interessanti e altri ancora un po’ buttati lì, ovviamente secondo la mia immodestissima opinione). In ogni caso vi farò sapere anche com’è Borromeo Underground

PPS: non è che in sti mesi non ho letto un cazzo, eh! Solo non ho mai tempo di scrivere delle recensioni, ma ad Andrea almeno questo era un atto dovuto. Se ho tempo la prossima recensione è Anathema, l’ultimo romanzo di Neal Stephenson – che i suoi capolavori li ha già scritti, ma rimane un grande autore 🙂

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Breaking News: Inherent Vice in agosto 2009

12 Dicembre 2008 2 commenti

 

Una breve notizia esplosiva che ho scoperto solo ora (sono proprio un fan da strapazzo dato che si è saputo nell’ottobre 2008). Il 4 agosto 2009 uscirà il nuovo romanzo di Thomas Pynchon, Inherent Vice, un noir pynchoniano di 400 e rotte pagine. Godo come un riccio e adesso entro in trance in attesa del grande evento. Olé!

PS: questa news è solo per smentire i maligni che mi scassano le palle perché ho tempo solo di scrivere i miei post esorcizza-adrenalina dopo le partite dell’Inter. 

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Bella figura di mmerda!

9 Dicembre 2008 6 commenti

 

Se il Werder ci ha pagato per perdere e farli passare ai sedicesimi di UEFA spero che i soldi siano tanti, dato che sono l’esatto valore dell’amor proprio dei giocatori della Beneamata. Se così non fosse o se il prezzo fosse zero, allora tanto valeva mettere in campo 8 panchinari e 3 primavera, così da avere una qualsiasi giustificazione per la figura di merda in mondovisione. Si salvano solo Ibra, Julio Cesar, Quaresma e Mancini. Gli altri li metterei a sgobbare da qua fino al 20 dicembre senza un attimo di sosta. Una partita che non merita manco un commento decente. Puah.

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Muro di Potenza

6 Dicembre 2008 9 commenti

 

L’Inter conclude il tour de force di novembre con una vittoria di potenza su una atletica Lazio che non può molto di fronte alla corazzata nerazzurra. Un gol al secondo del primo tempo del redivivo Samuel mette la partita in discesa, poi l’Inter si siede un po’ e subisce il gioco molto aggressivo dei biancocelesti. Un autorete un po’ sfortunata di Diakitene al 45esimo arrotonda e una rete sul forcing nerazzurro nella ripresa chiudono la questione. Una partita di potenza e di supremazia, un vero muro di forza scagliato contro una Lazio che non ha demeritato più di tanto: per dire ha fatto una figura migliore dei gobbi, molto migliore.


Tutti i presenti in campo promossi: JC non fa una parata significativa che sia una; Maicon distrugge chiunque gli si pari davanti e la sua progressione sul secondo gol è impressionante; Maxwell continua a mostrare dei limiti in fase difensiva ma grande tenuta in appoggio; Cordoba e Samuel si confermano una coppia centrale disumana. Il momento più terribile della partita è quando Samuel rimane a terra toccandosi la gamba: ogni interista che si rispetti si caga addosso per un attimo, ma quando il Muro torna in campo passa la paura.
A centrocampo non ci sono più aggettivi per Cambiasso, e anche Stankovic colma con la quantità la qualità ancora non eccelsa; Zanetti non si arrende mai e Muntari se impara a non sbagliare i passaggi più elementari potrebbe anche smettere di farmi incazzare. Davanti Ibra è in giornata abbastanza sì, Cruz si ferma per una contrattura (peccato) e Crespo si gioca tutto quello che ha, che ancora non è abbastanza, ma dimostra che ce ne potrebbe essere.


All’inizio del ciclo di ferro di novembre avevo auspicato 13 punti su 15, l’Inter ne ha fatti 15 su 15. Troppa grazia. Ora bisogna tenere salda la concentrazione nelle prossime otto partite di un livello certamente più accessibili. Forza ragazzi.

 

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Trapattonismi con profitto

30 Novembre 2008 8 commenti

 

La quarta partita del ciclo di ferro aperto con Udinese e che si chiuderà con la Lazie ci porta il quarto successo. Tutto bene. Il gioco però non va bene per nulla. I nerazzurri dominano i primi 35 minuti, con due gol perfetti – mezzarovesciata sinistra di Cordoba e tacco destro di Muntari – ma poi calano e subiscono proprio in chiusura del primo tempo il gol – bellissimo – del Napoli, con quattro uomini rimasti in attacco dopo aver perso il pallone. Nel secondo tempo tutto San Siro si aspetta l’inter dei primi minuti, mentre entra in campo una squadra trapattoniana, spompa e con il baricentro abbassato di 20 metri: il Napoli si lancia in assedio e l’Inter fa le barricate. E la solfa non cambia fino a fine partita. No buono. Addirittura con il cambio di Adriano per Cruz e le scene patetiche del brasiliano – cose che fanno male ai bambini, che si impressionano! – e con Burdisso per Stankovis passiamo al 5-3-2 stile Stalingrado. Trapattonismo che non convince, ma forse uno lavora con quello che ha e i giocatori dell’Inter in questo momento possono dare questo. Il grande limite comunque rimangono le decine di palloni persi sulla nostra trequarti che ci hanno esposto a costanti ripartenze dei napoletani che devono il loro scarso score solo alla povertà dei loro finalizzatori. Poi la vittoria maschera molte cose, perché i risultati sono tutto per i tifosi e non solo, ma i problemi non sono pochi. Speriamo che la prossima settimana di stop serva a ricaricarsi.

Julio Cesar oggi sembra meno certo del solito: inchiodato sulla linea di porta spesso, forse troppo, esponendosi all’ultimo tocco avversario. Ha visto giornate migliori. La difesa invece lavora bene: Maicon ha bisogno di riposarsi, lo vedrebbe anche un cieco, e Maxwell è molto altalenante; Cordoba e Samuel funzionano bene in fase difensiva, mentre in fase offensiva e di impostazione sono ancora appena sufficienti. D’altronde non è neanche colpa loro, dato che il gioco dovrebbero farli i centrocampisti e non loro. 

A metà campo Muntari nonostante il gol di cui gli rendiamo merito sbaglia circa ottocento appoggi, non riesce a fare una sovrapposizione una fino al 70esimo minuto, e balla come un dannato tra Lavezzi, Hamsyk e Zalayeta quando i napoletani salgono. Cambiasso e Zanetti mettono i polmoni per tutti e come al solito non c’è niente da dire: i migliori. Stankovic da tutto quello che ha nel primo tempo; nel secondo tempo sparisce, ma forse rischiare Jimenez troppo presto ci avrebbe esposto ancora di più. Mettere Figo in campo avrebbe scatenato la rivolta di tutto San Siro. Speriamo che lo abbia capito anche Mourinho. Davanti Cruz fa in un tempo tutto quello che una spalla di Ibra dovrebbe fare: allargare il gioco, tagliare, ricevere il pallone e renderlo, prendere falli. Il merito per il gol di Muntari è almeno al 50% suo. Speriamo che anche questa lezione Mou la capisca, dato che il primo scatto di Adriano appena entrato con palla che lo avrebbe lanciato da solo davanti al portiere è qualcosa che fa soffrire i più sportivi. Vedere in campo il mostro di Frankenstein al posto dell’Imperatore è veramente una vergogna. Unico merito: guadagnarsi una punizione dal limite al secondo minuto di recupero che alleggerisce definitivamente la pressione dalla nostra area. Ibra non pervenuto: sono quelle partite in cui si stizzisce perché non c’è solo lui in campo, giochicchia, fa mille giochetti e non conclude un cazzo. Capita anche ai migliori, ma speriamo non troppo spesso.

 

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Pagliacci supponenti

26 Novembre 2008 10 commenti

 

La partita di stasera è la perfetta esemplificazione del perché il tifo per i nerazzurri è la fonte più certa al mondo di ulcera. Dopo le roboanti  dichiarazioni prepartita del non-pirla di Setubal, la squadra messa in campo è molle e senza carattere, oltre che contare 9 uomini anziché undici – dato che il rientrante Figo è una proiezione di sé stesso dalla tomba, come dimostra l’assenza di opacità alla palla, e Adriano è il solito scimmione incapace e obeso. Capiamoci: per battere i greci basterebbero anche nove calciatori, ma non quattro pagliacci supponenti che pensano di avere la vita già facile e spianata nei novanta minuti. D’altronde bastava mettere in campo la stessa squadra di sabato con Cruz ad appoggiare Ibra anziché cambiare un indemoniato Stankovic per Figo cadavere e tenere in campo quella polpetta ambulante. Se il cambio di mentalità che è costato la panchina a Mancini e svariati milioni a Moratti è questo, stiamo a posto: dobbiamo ringraziare gli eroici ciprioti che pareggiano e ci garantiscono la qualificazione con il numero minimo di punti nella storia della Champions League a gironi, anziché lasciare a Mourinho il dubbio record di fare peggio di Mancini nel torneo internazionale, uscendo prima degli ottavi. Per non parlare della soluzione per recuperare lo svantaggio: cinque attaccanti in campo a caso. Poi Mourinho punge i tifosi in conferenza chiedendo più gente allo stadio: ma uno che spende 27 euro per un secondo blu, più dieci di parcheggio, per vedere la sua squadra giochicchiare per 65 minuti sperando nello zero a zero e poi perdere meritatamente, che cazzo di voglia deve avere per tornare allo stadio al freddo ancora? Poi sarà pur vero che abbiamo la curva più silenziosa della serie A – che tristizia mezza vuota anche stasera – ma trovare voglia di incitare un gruppo di stronzi arroganti che ogni volta che è possibile deluderti lo fanno, è dura. Si può pure perdere, ma non per boria, al massimo per sfiga o per inferiorità manifesta, il contrario di stasera. Morte e male barakus.

PS: dopo aver sentito l’intervista di Mourinho devo dargli atto di essere stato onesto e questo gli fa onore e mi fa scendere un filo l’incazzatura. Non abbastanza per passare dagli insulti ai complimenti. Per ora. Adesso vediamo di non fare cazzate domenica. Grazie.

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Veni, vidi, godi

23 Novembre 2008 7 commenti

 

Il derby d’Italia a San Siro in dieci anni lo abbiamo vinto tre volte. L’ultimo uno a zero era nel nefasto 1998, con un golasso di Djorkaeff. Ed era parecchio tempo che non vedevo la Beneamata asfaltare i gobbi bastardi in questo modo. A parte tra il quinto e il ventesimo del secondo tempo in cui gli lasciamo un pochino di spazio e fiato, i bianconeri non vedono biglia, come si dice in gergo. I ragazzi mostrano grande grinta e grande determinazione, e se avessimo un centravanti anziché una lavatrice forse poteva anche finire con maggiore scarto. Mourinho azzecca due mosse: Adriano per fare a sportellate con Chiellini e togliere pressione a Ibra (però non glielo dice sennò la lavatrice non avrebbe fatto nemmeno quello), un centrocampo aggressiverrimo con un Muntari, un Cambiasso, uno Zanetti e uno Stankovic incredibili. Per la prima volta in vita mia dopo un gol mi è venuto il groppo in gola per la commozione e la gioia. Nessuno che non abbia visto dieci anni della sua vita sportiva rapinata da un branco di bastardi può capire cosa provano gli interisti a anniettare le armate gobbe.

Julio Cesar quando viene inquadrato in primo piano mostra un piglio determinatissimo. Ha visto si e no due palle ma ha giocato con grande concentrazione. E lui con la linea difensiva al momento sono una saracinesca inossidabile: Maicon dopo 90 minuti con il Brasile e un viaggio intercontinetale affetta Molinaro e Nedved come fossero burro; Maxwell dall’altro lato deride gli avversari e finalmente corre; Matrix è stata la terza mossa azzeccata dal mister (e da me condivisa), dandoci supremazia sulle palle aree, ritrovatosi grazie alla grande sicurezza del Muro che lo affianca. Samuel è semplicemente insostituibile: sicuro, sbaglia un solo appoggio in tutta la partita e stanotte Amauri si sveglierà alle tre di notte gridando "Noooo, lasciami stare, Walter, basta!". Disumano.
A centrocampo grande quantità, tocchi veloci di prima, per saltare i muscoli di Sissoko e Tiago (anche se si rompe subito). Cambiasso, Stankovic, Zanetti e Muntari sono ovunque: solo per metà del secondo tempo si rilassano un secondo e la squadra risulta spezzata, ma non si può avere tutto. Tra tutti è proprio Muntari il più appannato, e proprio nel momento in cui tutti ne invocano la sostituzione con un colpo di culo la piazza alle spalle di Manninger. E diventa l’eroe della serata. Goduria.
Davanti la mossa di Adriano mi rimane oscura fino a che Eric al 4-4-2 e Mourinho non me la spiegano: fare a sportellate e togliere pressione a Ibra che può irridere e obliterare gli avversari. Forse nessuno glielo ha detto e per questo lo fa. Perché per il resto la sua sapienza nei movimenti rimane quella di sempre: nulla. Ibra ha tentacoli al posto delle parti del corpo: prende qualsiasi pallone, lo gioca e lo accarezza. Il dubbio è che abbia un contratto con i gobbi per non segnar loro, ma forse è solo che non è ancora in grado di fare i gol facili. La verità è che il giorno che Ibra fa anche questi gol si potrà scendere in campo con Julio, i quattro difensori e lui. Universale.

I gobbi sono una squadra immonda che deve la sua posizione in classifica più a botte di culo e colpi da fermo che non al gioco. Ranieri ha creato una squadra solida, quadrata, di quantità, chiusa e pronta alle ripartenze. Più o meno come si è giocato in Italia da sempre. Se non fossi un tifoso stasera non avrei manco sofferto, tanto fanno schifo. Ma sono un tifoso, e il gol di Sulley Ali Muntari mi ha fatto godere come un riccio in calore. E mi ride ancora il culo.
 

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L’attesa

20 Novembre 2008 3 commenti

 

Rigiro dal mio socio, dato che è tutta farina del suo esimio sacco. A
volte è meglio romanzarci su. Un racconto Blackswift,
liberamente ispirato alla sentenza Diaz. Anche qui, sul sito noswift.org

La
cosa peggiore che può capitare ad un uomo che trascorre molto
tempo da solo, è quella di non avere immaginazione. La vita,
già di per sé noiosa e ripetitiva, diventa in mancanza
di fantasia uno spettacolo mortale.

X.Y.Blackswift,
L’Attesa (o anche Davide e Golia)

Per
descrivere certe passioni, bisogna muoversi nel confine incerto, se
mai esiste, tra personale e politico. Perché alla fine la
certezza è di ritrovarsi di fronte a una sentenza che chiude
molto più di un processo. Che apre nuove scatole, con dentro
altre scatole e altre scatole ancora. E in ognuna di esse c’è
una storia da scrivere. E ci sarà da cambiarle ancora, le
storie, immaginandone diverse. La realtà non è di questo mondo.

Alla
nostra verità di parte sulla Diaz e sul g8.

Un
anno e più non è uno scherzo, può renderti
diverso,
un anno è la fotografia, di te stesso che vai via.

Ha
i suoi motivi la paura, dovrei saperlo già da un po’.

Il
posto ha un nome che quei tre hanno provato a farsi spiegare. O forse
erano altri, in altre composizioni: altri volti, parole, passato.
Storie mai incrociate, parole sospese in un tempo freddo, con il
calore proveniente solo da una piccola stufa. Odore di legna e di
foglie morte. La loro compagnia è una novità della
serata: un incontro in un posto, uno spostamento, poco dopo, in un
altro. Si erano già ritrovati vicini, senza saperlo. Si erano
già ritrovati a osservarsi, senza capirsi. Ognuno dei tre
pensa, cataloga, mette in fila, tesse trame, cerca sensi. Ognuno,
bisogna precisarlo, riferisce solo a se stesso, perché pare
sia finita da tempo la fase del gioco di squadra.

Il
posto ha un nome. Il nome può voler dire: casino. O
anche: il posto giusto. Anche per aspettare, pensa il primo
uomo
seduto. Sta comodo su un divano avvolto da una coperta
rossa: è duro e leggero, come i pensieri e un nome su una
lista, una riga da tirare, un piacere da togliersi. Lui, pensa, è
l’altro: quello fregato. Quello, a breve, braccato.

Il
secondo uomo non capisce niente delle canzoni: due tipi
cantano accompagnati da fisarmonica e chitarra. E’ un suono caldo e
scuro, rude e bugiardo. Il secondo uomo sta pensando alla
differenza che può esistere tra alcuni concetti espressi a
parole. In alcuni casi, per esempio, si dice confusione. In
altri, paura. In alti ancora, percorsi molto più
banali: una presa in giro, forse. La sua attesa, in ogni caso,
sta per finire.

Il
primo uomo ha ordinato un liquore composto da vari liquori.
Pare sia forte. L’ha scelto non perché debba abbandonarsi a
pensieri contraddittori. Ha voglia di dolcezza e gli piace il colore
rosso scuro che prende il bicchiere. Con acqua calda a creare un
torpore che svanisce in fretta. Fa freddo. Tira fuori il cellulare: è
l’ora. Magari la tipa può dargli una dritta. Succedono
cose strane, in Italia e quella ragazza sembra saperne alcune parti
fondamentali. Gli aveva parlato di percorsi, strade, riti.
Confusione.

Il
secondo uomo è meno preoccupato. In generale, non che
non abbia pensieri. E’ che improvvisamente le cose succedono.
E si perde il sonno a pensare a quando sono cominciate. E’
pur vero che a tornare indietro si capisce meglio il presente. Guarda
il primo uomo: lui si che è preoccupato. Eppure quella
frase l’ha sentita dire proprio da lui. E ha capito di essere nel
posto giusto. Quando il passato si può cambiare, la gloria è
vicina anche agli sprovvisti del fato.

La
donna
beve e canta. Capisce alcune parole della canzone, non
tutte. Ha un bel grattacapo cui pensare. Vive nel riflesso
dell’attesa del primo uomo. Vorrebbe raccontargli altre
attese, vorrebbe spiegarsi. Non lo ha mai fatto. Lo scarto d’età,
d’altronde, con il tempo si complica. Ora lo ha visto: ha commesso il
primo errore. Quella ragazza, lei sa, non potrà chiarirgli
nulla. E’ già tutto piuttosto evidente invece, pensa. Proprio
per quel pensiero, come avesse capito che tutto è abbastanza,
lei ha deciso che lascerà perdere. Quella ragazza, dall’altra
parte, farà di tutto: per non aiutarlo. Lei, la donna, invece:
avrebbe potuto fare qualcosa. Quando gli uomini commettono certi
errori, perdono in un istante tutto. Sono sempre errori fatali.

Il
secondo uomo non sta capendo. Si era fermato a pensare a
quello stato in cui hai la percezione della sofferenza. Non ci poteva
mica fare niente. Il primo uomo gli avrebbe detto una cosa
chiara e tonda, se avesse potuto leggergli nel pensiero: pensi
solo a te
, gli avrebbe detto. Da che pulpito, avrebbe immaginato
il secondo uomo. Quelli come il primo uomo, lui, li
conosceva bene. Ne aveva visto un sacco nella sua vita. Delusi,
frustrati e pronti a giudicare. Scacciò il pensiero e guardò
lei, che guardava lui. Questa cosa, pensa, non deve
succedere. Non stasera.

Il
primo uomo sospira. Si era accorto di avere tenuto per lunghi
istanti lo sguardo fisso. Gli capitava spesso ultimamente. E non
ricordava cosa pensava in quegli attimi. Forse quella donna avrebbe
potuto aiutarlo, o dargli qualche indizio da seguire. Parole, parole,
da buttare.
Si chiedeva questo, in fondo: c’è un’altra
soluzione oltre a quella soluzione? Allora si è messo
a guardarla. E lei guarda lui.

La
donna sa già come andrà a finire: quello che
stasera è un pensiero, domani sarà una pulsione. La
delusione non ammorbidisce, ne è sempre stata certa. Era
uscita scorticata viva e si era riguadagnata la pelle abbandonando la
ragione. Non c’è ragione né mai ci sarà. C’è
la necessità di ricostruirsi la pelle. Per questo gli ha
portato il secondo uomo. Gli ha voluto regalare una cosa. Un
tempo era stata nella sua stessa situazione. Ma un tempo la storia si
raccontava. Ora neanche si sa di viverla. Uomini.

Il
primo uomo guarda davanti a sé e osserva la donna.
Accenna un sorriso. Poi guarda il secondo uomo. Cerca di
ricordare quando lo ha conosciuto, senza sapere neanche il perché.
Il secondo uomo ai suoi occhi sembra irrequieto, ma
determinato, come si stesse concludendo qualcosa. Un lavoro, un
problema, una missione.

Il
secondo uomo si chiede che cazzo ha da guardare il primo
uomo
. E ripensa alla sua storia: ricercatore della prima
università che gli era venuta in mente. Venezia: mai stato.
Aveva anche studiato tre mesi per arrivare preparato. In fondo
l’idea non era stata male. Gli piacevano i diversivi. In
alcuni casi si dice: colpi di fortuna.

Il
primo uomo pensa di essere pronto. Sa già come finirà.
Dal cellulare nessun segnale e non è una novità.
Disadattato. Confondere le cose non è da lui, ma c’è
rimasto in mezzo, come si suol dire. Incastrato, senza sapere
bene perché. Sente l’atmosfera delle grandi decisioni: se sarà
come immagina, dovrà fermare la sua rincorsa. Per un po’ di
tempo, almeno. Avrebbe bisogno di: qualcuno che gli spiegasse le
cose, in un altro modo.

Il
secondo uomo comincia a battere il tempo col piede, a terra.
La chitarra si è fatta rapida e spinge verso accordi
tambureggianti. La fisarmonica si muove scattante, a cercare suoni
improvvisi, da adattare alla nuova velocità del ritmo. Lui
guarda il primo uomo e pensa che è il momento di uscire
a fare una pisciata. E una telefonata.

La
donna
vede il movimento del secondo uomo e si scosta, per
farlo passare, senza neanche guardarlo in faccia. Quello che ci
voleva, pensa. Rimanere soli, un attimo. Qualche istante per
accorciare le distanze e provare a ricacciare indietro il pensiero.
Da quanto non ci pensa, si ripete. Da quanto non ne parlo, sussurra.
Il secondo uomo è ormai verso la porta, la donna si
avvicina al tavolo e guarda il primo uomo davanti a sé.
E come ogni volta che una persona ha voglia di spiegarsi, comincia il
discorso con una domanda. Ascoltare, per parlare: non tutti lo
capiscono.

Il
primo uomo inizia, senza sosta: è che la gente non sa,
dietro quale dolore si nasconde una notte, esordisce. E non si
possono sapere i peripli che una vita prende, cercando di mantenere
intatto un modo di essere. Finché ti accorgi di essere
cambiato, perché hanno voluto cambiarti, forse. E sai che
andrai incontro solo a oblio e delusioni, incomprensioni, solitudini,
mestizia, rabbia, pazzia. Ma in fondo, mi chiedo, aggiunge: è
una via di fuga, o un’ulteriore accettazione delle cose? Si ferma e
riprende a parlare: leggo di giudizi: e ora qualcuno si rimetterà
a fare questo e quello, a seguire strategie suicide, quando invece è
meglio lasciare perdere. E’ questo che non so fare, aggiunge l’uomo,
lasciare perdere. La vita, ribadisce, forse è solo
questo: verificare i propri limiti, scegliendo. E più
scegli e più sei insofferente. E più sei
insofferente, più ti accorgi di esserlo. E guai se avessi
un coltello
, termina, per tagliare.

La
donna
osserva le mani, le braccia, i movimenti del primo uomo.
La vita è un calcolo razionale dei limiti, quando li
consideriamo irrazionali. E lei lo ha messo di fronte alla
possibilità di capirne uno, tutto suo. Tra qualche ora, pensa,
il primo uomo saprà di diventare un braccato. Può
eliminare fin da subito un nemico: il secondo uomo. La donna
si chiede se ne avrà la forza, la disperazione. E si augura di
no. Ma sa bene che in quella notte, per lei, non ci sarà
dolcezza. Non darà niente a un corpo alla ricerca di una meta
irrealizzabile. Ha già dato ascoltando. Ora tocca solo a lui.

Il
secondo uomo ora ha un problema: la telefonata è stata
chiara: cancellare. Eliminare. Togliere di mezzo. Levare dal cazzo,
annientare, spaccare tutto. La ragazza con cui ha parlato era stata
chiara: il primo uomo mi ha cercata. Ha capito. Vuole sapere.
Quindi, aveva risposto il secondo uomo? Quindi, aveva risposto quella
ragazza, cancellare, please. Il problema a quel punto era la
donna
. Tra quei due qualcosa doveva essere successo. Forse
proprio la notte in cui lui si era addormentato e non aveva seguito
quei due per le viuzze. Ogni tanto li vedeva prendersi la mano, nelle
notti passate. E quella notte, ne era certo, la dolcezza doveva
vincere per quei due. Due idee, mica due persone. La notizia
che stava per arrivare avrebbe sviluppato traiettorie strane, rapide
e desiderose di calore. Si toccò sotto la spalla destra. Era
lì, calda, pulsante, attiva, pronta. Il secondo uomo
entra nel bar e li vede. Stanno parlando. Se è come pensa, ha
un fottuto problema.

La
donna
osserva l’entrata: intravede il secondo uomo farsi
avanti. Guarda il primo uomo e gli dice, semplicemente: quello
è un tuo nemico. Il primo uomo la guarda. E’
bianco, spettrale, non ha più le parole pronte. Nessuna
citazione, frase, ricordo, frammento. Sorseggia la bevanda e capisce:
non si scherza mica più. Le chiede in che senso stia parlando.
E lei rapida, gli sussurra un nome. Un ricordo della memoria, lontano
per interi giorni e riaffiorato solo in quegli istanti che
precedevano la notizia tanto attesa e già sospettata. La
donna
decide che sarebbe andata via, subito.

Il
primo uomo osserva la donna e poi il secondo uomo. Sta per
entrare. Ha il passo deciso, si tocca sotto l’ascella e il primo
uomo
capisce. Attorno a loro ci sono tre persone, non di più.
Il primo uomo pensa, rapido: al tribunale, alle sue uscite,
agli strani incontri, ai personaggi che si muovono in silenzio, senza
riflettori. Uomini che agiscono, cambiano, motivano e determinano.
Uomini che fanno la storia. Uomini come il secondo uomo.

Il
secondo uomo entra e fa in tempo a vedere la donna che
si alza e se ne va, senza salutare nessuno. Guarda fissa davanti a
sé: ha gli occhi sbarrati. Il secondo uomo si mette di
fronte al tavolo. Il primo uomo lo guarda. Si osservano ed è
fin troppo chiaro: hanno capito tutto. Potrebbe fare un bel casino,
ma decide di sorridere, il secondo uomo. La situazione si
mette bene, pensa.

Il primo uomo ha già capito: non c’è
uscita. Loro sono dappertutto. E’ una guerra.

Non
l’hanno mica ancora capito, pensa il secondo uomo, mentre si
siede, sorridendo.

La
donna
cammina, appoggiando i piedi a terra con un ritmo tutto
suo. Ha visto, ha pensato, ha sognato: le catenelle, i sospiri, i
sorrisi, i pianti, le botte, la violenza, il male. E a breve
tutto diventerà storia: dimenticata, mai raccontata. Finirà
nel buco nero della vulgata comune. Diventerà un’altra cosa,
un’altra storia.

Vivere significa essere partigiani

19 Novembre 2008 4 commenti

 

Il testo che c’è sotto l’ho mandato a Carmillaonline il giorno della sentenza. Per vicissitudini personali di Valerio, Giuseppe e Roberto (i miei ganci da quelle parti) è stato pubblicato solo oggi. In ogni caso lo rigiro qui.

 

Vivere significa essere partigiani

Sabato 21 luglio 2001. E’ notte. I cortei e gli scontri che hanno
ribaltato la città di Genova sono finiti e la gente torna a casa stanca
e provata dalle botte, dalle corse, dai gas lacrimogeni, dalla violenza
della polizia, dalla paura, dalla sensazione che sarebbe potuto
accadere di tutto, che sia accaduto di tutto, ma che possa accadere
altro ancora. Sono in pochi a rimanere, principalmente nei grossi
centri di accoglienza: piazzale Kennedy, lo stadio Carlini, le scuole
Diaz e Pascoli, dove l’attività di comunicazione e assistenza legale
freme ancora. Per il resto migliaia di persone sono nelle stazioni e
sulle autostrade. La maggior parte delle persone pensa che ormai sia
finito tutto, che l’adrenalina di tutti stia lasciando il posto a una
spossatezza infinita. E proprio quando la penombra è al massimo della
sua intensità, quando gli occhi collettivi del mondo stanno per
chiudersi per passare al prossimo spettacolo, ecco che le luci si
riaccendono al massimo della loro intensità.

Squadracce di gente in divisa calano sulle due scuole dove si trova
la sede del GSF, indymedia, radio gap, molti media alternativi e
indipendenti, la sede del Genoa Legal Forum e un paio di centinaio di
persone che vogliono solo dormire prima di andarsene a casa. Nel giro
di un attimo sfondano cancelli e portoni e irrompono nelle due scuole:
al media center distruggono materiali e cercano di tappare occhi e
orecchie dei movimenti; alla scuola Diaz vogliono solo vendicarsi.
Vogliono avere compensazione, si direbbe in altri contesti, della
frustrazione che hanno provato in questi giorni in cui la rivolta ha
dimostrato loro quanto il potere che detengono e difendono non valga
nulla, quanto sia fragile ed etereo. La rivolta li ha fatti infuriare,
li ha stupiti e colti di sorpresa, li ha umiliati. E come un animale
ferito e armato hanno reagito nell’unico modo che sanno: hanno
preparato, organizzato e lanciato un’operazione semplice e violenta,
irrompere, picchiare, attribuire la colpa alle vittime. Deboli coi
forti, forti con i deboli. Come sempre. E poi una bella firmetta su un
verbale di arresto a sancire il fatto che l’operazione sia stata
legittima e necessaria, nonché giustificata.
Purtroppo per l’ennesima volta in quei giorni fanno male i calcoli:
l’irruzione si protrae più del previsto; arrivano media e parlamentari;
tutto il mondo si accorge dell’operazione e della sua grossolana
funzione. Nonostante questo per molti mesi pensano che lo Stato li
coprirà. Nonostante questo si arriva a un processo. Che dura anni. Il
processo è finito il 13 novembre 2008: tutti coloro i quali hanno
organizzato quella operazione infame sono stati assolti; tutti coloro
che hanno partecipato come ultime ruote del carro, coloro che hanno
picchiato perché gli è stata data mano libera, coloro che hanno portato
due bombe molotov in una scuola dove non ce n’erano per addossarle alle
vittime di una inumana violenza sono stati condannati; tutte le vittime
hanno ricevuto qualche spicciolo per non lamentarsi troppo.

Questa è la storia. Le vicende del G8 di Genova hanno molto da
insegnare a tutti coloro che vogliono prestare anche solo un attimo di
attenzione. I libri non la racconteranno così. I libri resteranno sul
vago quando andrà bene, oppure ignoreranno la più grande rivolta dopo
gli anni sessanta e settanta in Italia e forse non solo. Ma la gente
che era lì non la dimenticherà. E la rabbia che proviamo oggi di fronte
a questa sentenza non deve trarci in inganno, deve trasformarsi in
fatti, parole, ricordi, oggetti. Personalmente non ho mai creduto che
finisse diversamente da così: la giustizia è un meccanismo intrinseco
al potere, e non può permettersi di condannare coloro che la traducono
in fatti operativi tutti i giorni. I giudici, i poliziotti, i politici,
i governanti, gli imprenditori stanno da una parte. Noi, i poveracci, i
subalterni, gli sfruttati, i deboli stiamo dall’altra. Questa è la
grande verità di Genova, ed è anche la verità che più di tutte in
questa epoca cerca di essere nascosta. Non è tutto uguale, esistono
parti da prendere. Vivere significa essere partigiani. E alle volte
quando si prende una parte, si perde, anche se era la parte giusta.
Quando ho saputo della sentenza – già perché dopo quattro anni di
presenza in tribunale proprio negli ultimi tre mesi non sono potuto
essere presente – una delle prime cose che mi sono venute in mente è
stato Stella del Mattino,
di Wu Ming 4. Come ho già scritto altrove, quel libro parla proprio di
Genova e di quello che ci ha lasciato, di quello che ha significato per
tutti noi che siamo stati lì e l’abbiamo vissuta. Alla fine del libro,
come alla fine di tutto quanto è stato Genova, non ci resta che il
coraggio di credere che qualcosa possa ancora accadere, che la rivolta
continui ad esistere come possibilità se non come realtà. La sentenza
che chiude la vicenda Diaz, una vicenda talmente lapalissiana che è
difficile credere con quale faccia tosta verrà giustificata dai cavilli
legali dopo essere stata giustificata dall’inazione politica, deve
diventare la nostra stella del mattino: quella luce che tutti conoscono
e che nessuno può negare, eppure quella distanza che ci fa capire che
solo agire e lottare cambia ciò che ci circonda. Se saremo capaci di
imparare questo allora questi anni di lavoro e di parole non saranno
stati una donchisciottesca tenzone con mulini a vento parecchio più
grandi di noi.

Con i compagni e le compagne che hanno seguito Genova giorno dopo
giorno con me abbiamo scritto che non abbiamo rimorsi per quanto
accaduto a Genova, che quanto è avvenuto in quei giorni ci ha dato
coraggio e ci ha trasmesso il senso delle parole dignità e libertà.
Oggi per molti sarà il giorno dei rimpianti in un senso o nell’altro,
ma non per me. Rimpianti significa non aver fatto quello che si
riteneva giusto e necessario. Noi non possiamo averne. Perché ci
aspettano ancora molte cose. Ancora molte cose possono accadere sotto
il cielo e sotto Venere, e molta rabbia è pronta ad esplodere da sotto
la cenere. Fino a quando non ci saranno più storie da raccontare, da
ricordare o da vivere.
Ognuno di noi può demolire un mattone del Palazzo di giustizia di
Genova. Ognuno di noi può ancora lottare ed essere un partigiano.

Fucilate

15 Novembre 2008 7 commenti

 

Il titolo diciamo che è uno sfogo personale, ma ben si applica alla famosa massima di un mio amico avvocato che recita: "se tiri forte all’incrocio dei pali vinci". Il calcio riassunto in una frase. Ibra l’anno scorso dovette aspettare poche partite per capirlo: quel 2-2 con il Livorno in cui i tiri nerazzurri piazzati con sapienza vennero rimbalzati in ogni modo. Quest’anno sembra che ancora non sia convinto della cosa, ma quando ci prova i risultati si vedono. Altra nota positiva è che finalmente noto un po’ di sapidezza tattica del buon José: il primo tempo l’Inter a centrocampo non capisce un cazzo, Muntari non vede biglia, Vieira e Zanetti ballano come scimmie stretti sempre tra tre uomini e la squadra si appoggia all’altezza di Cambiasso, lasciando 30 metri sempre tra il nostro mediano più avanzato e il nostro attaccante più arretrato. Troppi. Infatti il Palermo fa un po’ il cazzo che vuole anche se non entra mai in area. Finisce 0 a 0 ed è un risultato giusto per una partita non eccezionale. Tutti gli interisti si preoccupano per cosa succederà quando la squadra calerà di tono nel secondo tempo, invece l’Inter che rientra nel secondo tempo stringe gli spazi a centrocampo e il baricentro della squadra sale di 20 metri. I risultati si vedono: nel giro di pochi minuti Ibra spara un missile imprendibile da fuori area. Uno a zero. Nel giro di altri 15 minuti punizione dal limite: Ibra spara un’altra fucilata atomica che Fontana non vede nemmeno. Due a zero e giochi chiusi. Ibra potrebbe farne altri tre ma una volta è troppo generoso, e le altre due Jimmy gli nega l’hat-trick. In ogni caso un secondo tempo bello come non si vedeva da Roma. 

Julio Cesar mostra di essere al top nel primo tempo, con diversi interventi reattivi e decisivi. Sicuro. Maicon avrà fatto avanti e indietro duecento volte per tutto il campo, non riesco a capire dove nasconda la droga, e sarei molto felice che non andasse in nazionale a metà settimana. Speriamo non sia troppo spompo. Infaticabile. Maxwell dall’altro lato gioca più coperto, ma in fase di appoggio sta tornando ad essere una pedina importantissima per scardinare le difese avversarie. In crescita. Cordoba è stabile: alcuni brividi e nullo in fase di impostazione. Il fallo che gli costa la squalifica poteva evitarlo e speriamo di non rimpiangerlo troppo sabato prossimo. Irruento. Samuel è mostruoso: il recupero a centro area di tacco volante nella posizione dello scorpione è qualcosa che nessun altro centrale al mondo poteva fare. Avrà recuperato circa un milione di palloni. Immenso.

A centrocampo Muntari è chiaramente sotto l’effetto di svariate canne fumate negli spogliatoi. Probabilmente a fine partita avrà chiesto al massaggiatore: oh, ma chi erano gli elefantini rosa? Drogato. Vieira è imbarazzante nella sua lentezza e sbaglia un numero impressionante di palloni. Speriamo che non torni rotto dalla sua cazzo di nazionale.  Flemmatico. Zanetti ci mette tutto quello che ha, ed è parecchio. Se non sbagliasse a volte le cose più facili eviterebbe di farmi prendere degli infarti. Sicuro. Cambiasso a mio modesto avviso al posto di Muntari ci avrebbe risparmiato un primo tempo insufficiente, e in ogni caso è incriticabile per la qualità di gioco che esprime. Fondamentale. Stankovic entra e fa il suo, con una voglia che quando c’era il suo amicone Mancini non ci metteva. Rinato. 

Davanti lo schieramento a due facilita gli automatismi e infatti Cruz e Ibra si trovano a occhi praticamente chiusi. Forse José dovrebbe pensarci e attendere per il tridente quando i suoi uomini gli daranno quello che vuole. Cruz corre, si spompa ed è ancora impreciso negli appoggi ma dimostra di avere una maturità tattica che Mario ancora si sogna, e che forse potrebbe trasmettere alla nostra giovane promessa. Ritmato. Ibra è semplicemente disumano: dopo la gomitata che gli rifila Carrozzieri (Muntari ha preso tre giornate per molto meno) se la lega al dito e decide di fare da solo. Due bordate da fuori e la partita è chiusa. Poi qualcuno mi spiegherà perché non dovremmo considerarlo un fuoriclasse… Disumano. Mancini entra e fa vedere qualcosa per cui lo abbiamo aspettato dall’inizio dell’anno. Un po’ poco, ma merita un po’ di fiducia. Attendista. 

Ora la settimana più lunga, quella prima della settimana più breve, quella piena di partite decisive e che affronterò con il solito groppone allo stomaco. Cazzo.

 

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