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Archivio per la categoria ‘cinema’

Venezia a Milano, tre: iran

17 Settembre 2009 Commenti chiusi

 

Per il terzo giorno di rassegna ci trasferiamo in Iran: due film diametralmente opposti che parlano in un certo senso dello stesso luogo. 

Tehroun, privo della sinossi sul depliant della panoramica (quest’anno un po’ sotto con la produzione grafico/editoriale), è un noir di un’ora e mezza ambientato a Tehran. Non è pretenzioso, ma ti fa godere esattamente quello che ti ha promesso: trama lineare, interpreti bravi, regia discreta, colori stupendi e fotografia decisamente sopra la media. Voto: 6,5.

Viceversa il Leone d’Argento Women without Men è l’esatto opposto: pretenzioso, carico di simbolismi un po’ tirati per i capelli da un lato e fin troppo plateali dall’altro. Non mi ha convinto e sono certo che si poteva trovare di meglio per un secondo premio al festival che sa molto di scelta politica. La Satrapi con un linguaggio più semplice ha fatto molto di più per spiegare agli occidentali l’Iran, le sue contraddizioni e il desiderio del suo popolo. Voto: 6.

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Venezia a Milano, due: miracolo

16 Settembre 2009 Commenti chiusi

 

Dopo Locarno cominciamo a vedere i film di Venezia. Ne avevamo in programma uno solo, e due di Locarno, ma sfighe varie  ci hanno impedito di vedere questi ultimi. Ci siamo dovuti accontentare per quanto riguarda il secondo giorno di rassegna del solo Lo Spazio Bianco di Francesca Comencini, da più parti indicato come meritorio del premio per la migliore attrice a Margherita Buy, poi sfumato. Io ero diffidente: la Buy è brava, ma non ne posso più di vederla recitare sempre lo stesso ruolo, sé stessa sostanzialmente. Invece la ragazza mi sorprende con una prova fuori dagli schemi soliti e anche la Comencini e il montatore (o la montatrice, non lo so) si danno da fare per tirare fuori il meglio dalla sceneggiatura non originale tratta da un romanzo di Valeria Parrella. Tra un essere umano e l’altro stoccate all’Italia che si fa finta di non vedere tra scuole serali sballottate come mandrie (a Milano le chiudono direttamente, per chi non si fosse accorto di altri effetti della ricetta Gelmini-Tremonti, così che chi non ha potuto studiare possa rimanere privo di titolo di studio per sempre a meno di pagare fior di quattrini a qualche pretaccio o qualche squalo tipo CEPU e via dicendo) e figli illegittimi se non denunciati da entrambi genitori (epica la scena con lei – prof d’italiano – che dice ‘ma come illegittimo se è figlio mio?’). L’Italia fa schifo, gli esseri umani forse si possono ancora salvare (questa l’opinione della Comencini, io sono più drastico). Film da vedere. Voto: 7.

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Locarno a Milano, uno: chi ben comincia…

15 Settembre 2009 Commenti chiusi

 

La rassegna sul Festival di Venezia 2009 a Milano inizia in realtà con i film del Festival di Locarno. E devo dire che sono rimasto molto soddisfatto dei primi due film che ho visto. Al contrario del 2008 quest’anno sono riuscito a vedere pochissimo di Cannes e anche questo settembre potrò al massimo permettermi un paio di film al giorno (il lavoro non c’è, ma ti perseguita comunque). In compenso la situazione mi ha spinto a essere molto più selettivo nella scelta di quali film andare a vedere e forse questo migliorerà l’umore delle mie pseudo recensioni. 

I Due Cavalli di Gengis Khan è il nuovo film della regista de "La Storia del Cammello che Piange" e quanto a poesia non è secondo a questo suo film noto per la nomination all’Oscar: la pellicola è la storia di una donna della Mongolia Interiore (ovvero di quella parte di Mongolia ufficialmente parte del territorio della Repubblica Popolare Cinese) che intraprende un viaggio per recuperare il testo e la melodia di una canzone di cui le raccontava sua nonna che deduciamo essere morta da poco. La storia non è complessa, ma il film è struggente: le voci e le melodie mongole inseguono i paesaggi vasti delle steppe e delle montagne dell’Asia Centrale, attraverso le tradizioni di un popolo sradicato e che va scomparendo incalzato dalle miniere d’oro, dal gas e dalla ragione di stato. La lunghezza contenuta aiuta a non stancarsi, ma per i teneri di cuore, occhio ai lacrimoni. Voto: 7 

Dopo questo antipasto: Zhong Guo Gu Niang (letteralmente "La ragazza cinese", tradotto "She, a Chinese"), pardo d’oro meritatissimamente.  Il film esce in accoppiata con un documentario su 12 storie di vita in Cina, lavoro che probabilmente è anche il materiale su cui è stato costruito il film di fiction. Sullo schermo seguiamo la giovane Mei nella sua vita quotidiana al villaggio, nelle sue prime esperienze in città a Shenzen e Chongqing, fino all’approdo a Londra. Mei è la Cina: materialismo totale, nessuna astrazione, nessuno spazio alla teoria – attenzione non al sentimento che c’è e come – e volontà assoluta. La Cina che avanza, la Cina che attraversa ogni evento con la consapevolezza che ci sarà sempre un giorno dopo, che il futuro sarà sempre presente. La Cina che ci terrorizza perché sa continuare a camminare a dispetto di tutto. Fantastico. Per chi non conosce la Cina, è un ottimo film per capire i cinesi. Voto: 9.

Volevamo vedere anche Mirna di Corso Salani e Frontier Blues di Babak Jalali, ma non ci ha retto. Ci sentiamo di consigliarli sulla fiducia. 🙂

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Gran Clint

6 Aprile 2009 3 commenti

 

Gran Torino è un grandissimo film. Non ci sono discussioni nel merito. Ormai a Clint  bastano una stanza e due sparring partner per tirare fuori una storia che parli di umanità e del mondo che la circonda. Incredibile. Finalmente sono riuscito a vederlo, in lingua originale (grazie bittorrent e grazie giskard, la finanza sia con te!), e ne vale veramente la pena.

Per chi fosse interessato è la versione anni 00 e bianca di Fa la Cosa Giusta di Spike Lee, che si può gustare fino in fondo (mi sarei risparmiato la Jesus Christ pose, ma tant’è). Pochi frilli e tanta sostanza, con interpretazioni di grandissimo livello intessute su una trama semplice e lineare. Fa un po’ specie che a raccontarci delle vie d’uscita dalla regressione culturale e dalla ferocia che attanaglia le  nostre vite urbane sia un uomo di destra, religioso, americano, conservatore. Forse perché quello che manca intorno a noi è quell’integrità priva di razzismo e di prepotenza di cui Clint è l’interprete principe, e quello in cui vorremmo credere è che ogni uomo e ogni donna possono cambiare la loro vita e quelle degli altri con le proprie azioni e la propria volontà. Il secondo nome di Clint dovrebbe essere Friedrich.

Voto: 9

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Ponyo of the Cliff

28 Marzo 2009 16 commenti

 

Ponyo della scogliera è l’ennesimo capolavoro targato Hayao Miyazaki e Studio Ghibli. Il grande autore giapponese torna a raccontare una storia semplice, diretta, una fiaba moderna e solare. Parlandone con blanca, ppn e consorte dopo la proiezione ci siamo resi conto che Il Castello Errante di Howl, la precedente fatica del giapponese, è un’animazione molto complessa (I racconti di Terramare sono del figlio, che ne ha di strada da fare prima di dimostrare anche solo di essere degno di raccogliere da terra il pennello del Maestro), forse anche troppo. Io continuo a pensare che Hayao dia il meglio di sé quando con una storia semplice e i suoi tratti sempre bambini ritrae i sentimenti più puri e semplici. Penso che Ponyo sia un tornare a Principessa Mononoke, all’affresco di qualcosa di semplice e primitivo, come il rapporto con il mondo naturale e il desiderio che sia sufficiente un po’ di amore per riportare l’umanità al buon senso. Hayao è un’inguaribile romantico e un cocciuto naif, ed è per questo che non lo si può ammirare all’alba dei suoi quasi 70 anni. Se poi vogliamo parlare del lato tecnico grafico ci sono cose disumane in questa ultima fatica: una su tutte, la resa del mare in tempesta, la sua trasformazione in enormi pesci e poi in onde. Il tratto di Miyazaki si fa più semplice e allo stesso tempo più ricercato. Per me che so a malapena disegnare l’omino del gioco dell’impiccato è qualcosa di stupefacente. Interessante che non ci sia Lana in questo fumetto (c’è, ma è cresciuta in Risa, la madre di Soske), ma che – cito ppn – torni a far capolino uno dei personaggi più mitici della antropogonia miyazakiana: Jimsy, sotto le mentite spoglie dai capelli rossi di Ponyo. 

PS: se non volete venire ipnotizzati per sempre dal tormentone, appena si chiude il cerchio nero della dissolvenza sull’ultima scena, mettetevi dei tappi nelle orecchie (ponyo ponyo, pesciolino tu, dal profondo mare azzurro sei venuto fin quassù ad libitum). 

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Baader-Meinhof Complex

13 Novembre 2008 Commenti chiusi

 

Il film ha destato molto scandalo in Germania e anche in Italia dove le menti telecentrifugate non riescono a elaborare una storia profonda di lotte che ha coinvolto il nostro paese meritoriamente per molti anni. E’ un film che cerca di narrare in tre ore la storia di un movimento di lotta armata che nel paese tedesco è andato avanti senza interruzioni e senza desolidarizzazione fino al 1997 (quasi dieci anni più che in Italia, dove le azioni delle BR si sono esaurite ufficialmente nella seconda metà degli anni 80 e scusate se non considero gli ultimi due episodi come coerenti con la storia della lotta armata in Italia ma proprio non mi riesce di prendere sul serio Desdemona e Galesi). Come tutti i film sulla lotta armata è spinoso e difficile da valutare. 

Io devo dire che il riassunto più sintetico che mi è riuscito è stato questo: "ottime lezioni di storia immerse in un dovuto tributo alla caratterizzazione un po’ semplicistica e politicamente comoda dei protagonisti della lotta armata come delle macchiette". In pratica l’autore ha provato a spiegare i motivi e gli sviluppi della lotta armata in Germania e non solo negli anni sessanta e settanta, lo ha fatto con la crudezza e la schiettezza che ha usato all’epoca anche in Christiane F e i Ragazzi dello Zoo di Berlino, ma si è scontrato con la necessità della cultura dominante di recuperare misura e di dipingere chi scelse la lotta armata come un insieme di bulli, ballerine e nevrotiche, tutto sommato superficiali nella loro preparazione politica e trascinati da un grande cuore, da un discreto cervello, ma da poca fortuna e lungimiranza, vittime di sé stessi prima ancora che dello Stato che combattevano. D’altronde doveva pur farselo finanziare questo film, altrimenti sarebbe rimasto una sua idea. Mi rimane un po’ oscura la figura del capo della polizia federale antiterrorismo che è l’unico a comunicare in un linguaggio non demenziale e pseudo ideologico il succo della lotta armata e della sua relazione con la società. Mi viene il dubbio che il regista non potendo far parlare i protagonisti (se non attraverso gli scritti di Ulrike Meinhof di sconcertante attualità e di incredibile forza politica) abbia deciso di trincerarsi dietro una figura "autorevole" e "alta" per portare seppure in una luce critica il suo apprezzamento per il coraggio delle scelte che molti fecero in quegli anni quando sembravano avere un senso.

Il film comunque è un buon film, basta tenere a  mente che i militanti dei gruppi di lotta armata non erano delle macchiette ma qualcosa di molto più integrato nelle piccole finestre di storia riassunta che il film offre. Imperdibili: la prima scena con i finti studenti iraniani che sprangano gli studenti che protestano democraticamente e vengono aiutati poi dalla polizia; le esplosioni di commissariati e basi nato; i brani dei testi della Meinhof; la votazione "democratica" per portare alle estreme conseguenze la strategia politica; il campo di addestramento in Giordania; il ruolo e il riconoscimento all’FPLP, unica organizzazione comunista ad aver mai attecchito in medio oriente (e scusate se è poco). 

Voto: 7.

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Venezia a Milano, cinque: la conferma

13 Settembre 2008 Commenti chiusi

 

La giornata di oggi è stata la conferma dei dubbi sollevati nei precedenti giorni di proiezioni: un festival di scarsa qualità, ripieno di materiali del vecchio continente e del nuovo continente, ma non dei continenti con qualcosa da dire, vittima dell’aridità culturale, sociale e finanche esistenziale d’Europa e d’America. Non è un caso che i due film migliori visti finora arrivino uno dalla riedizione di un film degli anni 60 italiano e l’altro dall’Etiopia.

Il primo film della giornata è il primo vero pacco rifilatoci dalla penisola di anatolia: la nostra fiducia nei turchi ci ha traditi, scaraventandoci a vedere Due Linee, un pasticcio pseudo psicologico che ci racconta dell’incomprensione di una coppia su come scopare: ci sono modi più interessanti per farlo (almeno ci avessero regalato un po’ di porno gratis) e soprattutto per dirlo. Voto: 5.

Il secondo film già ci ridà un po’ di fiato: Jerichow non è male, forse gli manca la scintilla che l’avrebbe fatto diventare abbondantemente sopra la media. Il dramma tra Ali – immigrato turco proprietario di 45 snack bar, alcolista  e sospettoso della moglie comprata in cambio dei debiti della donna – Laura e Thomas si risolve in una novella sulla natura umana. Un colpo di scena finale dedicato all’astuzia di Ali sarebbe stato degno del miglior Coen. In ogni caso un film che merita la sufficienza e il nostro rispetto per non averci fatto perdere tempo. Voto: 6.

Il terzo film è un film per intenditori: se non vi piacciono i B-movie horror con tanto sangue e attori che sembrano usciti dall’uovo di pasqua, Encarnacao do Demonio non fa per voi. Se invece amate Bela Lugosi e Christopher Lee vi godrete lo spettacolo fino in fondo. A me ha sollevato il morale, e devo dire che la pellicola ha anche uno dei montaggisti migliori visti finora in rassegna. Voto: 7.

L’ultimo film è la ciliegina sulla torta, nonché l’origine del titolo del post. Teza è un film etiope sull’Etiopia. Anzi, Teza è un film etiope sulla natura umana, sulla storia e sui limiti della storia interpretata dal genere umano. Di un lirismo che ormai solo i registi africani sembrano avere, con una trama ben sceneggiata e una regia ben impacchettata, il film commuove, spiega, coinvolge, provoca i sentimenti e i cervelli degli astanti. Come già capitato ovviamente non ha raccolto alcun premio, ma forse le parole del Presidente di Giuria stesso sono un ottimo commento alla cosa: Wim Wenders ha dichiarato infatti di non voler più fare parte di una giuria d’ora in avanti. Forse alcuni rimarranno dispiaciuti, ma io sono pronto a festeggiare la conclusione della carriera di giurato filoamericano di un regista che ho amato molto ma che si è completamente rincoglionito. L’ignoranza di questo grande film meritano una vendetta. Voto: 8.

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Venezia a Milano, tre e quattro: il dubbio

10 Settembre 2008 1 commento

 

Vedere il nuovo montaggio di un film girato nel 1963 che dice già molto, se non quasi tutto, contribuisce a coltivare la sensazione che i tempi in cui viviamo siano cupi e stupidi, più che oscuri. La Rabbia in questa versione epurata dello sciocco bipartizanismo pseudogiornalistico e cerchiobottista della sua costretta versione originale (in cui al lavoro di Pier Paolo Pasolini si affiancò quello del modestissimo destroide Guareschi) è un bellissimo lavoro di restauro politico. I miei complimenti vanno ovviamente all’amico Fabio Bianchini che ha curato il montaggio della "nuova" prima parte del film, scritta a partire dalle bozze di PPP, e al regista Giuseppe Bertolucci, che al contrario di Fabio forse non se ne farà nulla della mia opinione. La definizione esatta per questo film è: profetico. E la porzione finale "Aria del Tempo" è difficile dire se si riferisca agli anni 60 in cui PPP viveva, o alla sua lucida visione di un futuro in cui viviamo noi. Voto: 8.

Il dubbio è confermato dal secondo film della giornata (a dire il vero mi sono arreso a metà), Below Sea Level di Gianfranco Rosi, un documentario abbastanza scarso in termini di qualità, che non dice nulla, non racconta niente di che, e soprattutto lo fa in maniera del tutto non-interessante. La parte migliore è la barzelletta raccontata da uno dei poveracci intervistati e qualche gag. Ci vuol di più per essere profondi. Voto: 5

In un giorno diverso sono andato a vedere il rinfrescante film dei Coen, Burn Before Reading: evidentemente non è poi così difficile fare un film piacevole, sagace, ironico e divertente. Saranno anche aiutati da fama, soldi e un cast eccezionale, ma non saranno certo senza meriti. In Italia dubito che personaggi come loro troverebbero spazio. Voto: 7,5.

A seguire un film a cui darò un voto strano, Une Nuit de Chien, dato che è difficile giudicareil surrealismo kafkiano inserito in una specie di piece teatrale scarsa su pellicola. Voto: N/A. Avrei poi dovuto vedere La Fabbrica dei Tedeschi, di Mimmo Calopresti, sulla tragedia della Thyssen-Krupp: la verità è che non me la sento, il solo pensiero di rivivere quella vicenda mi arrotola lo stomaco come non mi accadeva dal tempo in cui portavo in giro il film sul massacro a Puente Pueyrredon e sull’omicidio di Dario in Argentina. Non saprei come spiegarlo meglio, ma anche nel mio infinito cinismo, quella della Thyssen è una storia che mi gela il sangue nelle vene e che scuote il mio cervello come una granata, e guardandomi allo specchio sento di non voler essere invaso dalle sensazioni che essa mi scatena. 

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Venezia a Milano, due: cose che si lasciano guardare senza opporre resistenza

10 Settembre 2008 1 commento

 

Giornata di film tutto sommato decenti, che si lasciano guardare, senza destare particolari impressioni, forse eccettuato solo il nuovo lavoro di Ozpetek. Cercherò di essere sintetico che sono in ritardo 🙂

Il primo film, Brideshead Revisited, è una grossa produzione, fatta con parecchi soldi e si vede. Questo non basta a fare un film che si erga sopra la media. E’ come un buon coltello che però non riesce ad affondare nel cuore del problema: rimane sospeso in un giudizio morbido e a volte contraddittorio, come se un attacco diretto fosse troppo poco english. Non fraintendetemi, lo si guarda tutto con piacere e si ha la sensazione usciti dal cinema di non aver buttato via i soldi, ma neanche di aver assistito a qualcosa che ha impreziosito la vostra vita. Voto: 6.

Back Soon invece non pretende così tanto come l’inglese: vuole essere una commedia divertente e leggera, e ci riesce, elevandosi sopra la media sia per l’umiltà dell’obiettivo che per alcuni elementi – come i paesaggi incredibili made in Iceland. Per il resto se avete voglia di farvi quattro ghignate è vivamente consigliato. Voto: 6,5.

Arriviamo ai pezzi  forti della giornata, ovvero il nuovo lavoro di Ozpetek e il primo lavoro come regista dello sceneggiatore di Babel e in generale di Inarritu, Arriaga. Devo dire che quello che mi ha impressionato di più è stato il primo: Un Giorno Perfetto è una grandissima reality fiction ambientata a Roma, quello che forse avrei voluto fare – o forse farò ancora – con Concrete, il seguito ideale di Monocromatica con il progetto Blackswift. E’ stato molto criticato per la Roma – e l’Italia – disperata,feroce e decaduta che ritrae nel film: i beneamati critici forse dovrebbero guardarsi intorno un po’ di più e criticare il soggetto del ritratto e non chi vi punta l’obiettivo di una cinepresa. Non prende un voto molto alto per due motivi: Mastrandrea, che io apprezzo e stimo, non è la scelta giusta per il personaggio che interpreta; l’uso del flashback è totalmente incomprensibile, senza il ritmo del finale sarebbe clamoroso. Per chi scassasse le palle, ricordo che il flashback serve per aumentare la tensione, non per diminuirla. Voto: 7,5.

Il film di Arriaga – che per essere onesti è il suo secondo come regista – è un bel film, impressionanteda un punto di vista formale, ma che tutto sommato ti lascia con questa domanda finale: e quindi? Traduco: il film è fatto benissimo, fotografia precisa, interpretazioni ottime, regia di buon livello, musiche ficherrime, sceneggiatura perfetta, ma alla fine della fiera non sembra riuscire ad aggredire un punto di vista, lasciando chi si gode il film con l’inquietante dubbio che il film non dica nulla di più della trama. Nei film fatti con Inarritu forse questo limite era colmato dal regista o dalla collaborazione tra i due, fatto sta che questo The Burning Plain rimane un po’ monco. Nonostante questo è un gran film, intendiamoci. Voto: 7.

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Venezia a Milano, uno: ottimi antipasti

8 Settembre 2008 Commenti chiusi

 

E anche per il 2008 Venezia sbarca a Milano con l’abituale rassegna. Devo ammettere che fatico un po’ a comprendere i ragazzi che l’organizzano che nel corso dell’ultimo anno hanno preso più granchi che altro (contrariamente alle mie precedenti esperienze). Ad esempio per questa rassegna – che include anche Locarno – hanno selezionato 50-60 film: passi che i film che hai sono quelli che ti danno le distribuzioni, ma perché accorciare la rassegna da dieci a otto giorni come l’anno scorso e infine a sette? Perché obbligare la gente a non poter vedere tutto, ma neanche tanto? Mistero. Se poi ci aggiungete che ovviamente il mondo del lavoro cospira contro di me piazzandomi tutti gli appuntamenti solo in questa settimana e lasciando vuota sia la precedente che la successiva, capite la mia vaga preoccupazione. Ad ogni modo, comincio la dissertazione odierna.

Il primo film che ho visto è stato Il Sol dell’Avvenire, di Pannone, documentario che ha scatenato le ire di benpensanti, politici e associazioni delle vittime del  terrorismo. Comprensibilmente e con merito, io dico. Perché il film racconta con le parole degli ormai vecchi protagonisti e senza andare in profondità più di tanto la storia di un gruppetto formatosi tra fuoriusciti del PCI e altri, parte dei cui membri confluiranno poi nell’esperienza delle Brigate Rosse e parte invece nella FIOM e nel PCI/PDS/DS/PD. Sapete perché tutti ne fanno uno scandalo? Perché senza pretendere di spiegare che cosa sono state le BR o che cosa sia oggi la politica, il film dice una cosa molto banale e molto semplice, ma che tutti con forza stanno cercando di cancellare dal buon senso e dalla storia italiana: chi ha scelto all’epoca la lotta armata non era un pazzo mitomane, mostro della porta accanto, ma una persona normale, intelligente, curiosa, convinta di quello che faceva e della propria storia. Il film mostra con semplicità disarmante che "i terroristi" sono persone normali, con il corollario abbastanza lineare che quelle scelte, che ognuno può giudicare per sé stesso, non erano aberrazioni, ma una delle possibili scelte politiche, inserite nella storia politica italiana e non fuori da essa. E’ una realtà scomoda, e per questo molti si sono inalberati, ma se ci fosse più onestà intellettuale in Italia vivremmo meglio, e questo film cerca di dare il suo contributo. Voto: 7,5.

Il secondo film è stato Birdwatchers – La Terra degli Uomini Rossi, di Marco Bechis: il film è uno spaccato della vita e delle lotte dei Guaranì-Kaiowà in Brasile, semplice nudo e crudo, appena appena romanzato per metterne insieme i pezzi. E’ la dimostrazione che non ci vogliono grandi trame o grandi budget per fare un buon film che ti spiega cosa sta avvenendo nel mondo intorno a te. Non mi dilungo perché ne avrete letto sperticate lodi un po’ ovunque, anche se non capivo e non capisco neanche adesso l’aspettativa per il Leone d’Oro che giornalisti e protagonisti del film avevano: è una bella pellicola e forse (vedremo) avrebbe meritato più di the Wrestler, ma sono convinto che durante la rassegna si possano vedere lavori più densi 🙂 Voto: 7.

Il terzo film è un mio classico: più li guardo più i film turchi mi piacciono. A sto giro si tratta di The Market – Una piccola storia del commercio, di Ben Hopkins, meritatissimo premio per il miglior attore a Locarno. E’ una commedia leggera e umana, che scorre leggera e ti trascina nelle sue pieghe. Cinema vero senza tanti trucchetti. Voto: 6,5.

Ultimo film della giornata è Choke, tratto dall’omonimo libro di Chuck Palahniuk, di cui riesce a trasporre il registro ovviamente scorciando la trama. Il libro è divertente e sagace come Palahniuk sa essere e anche in sala il tempo vola via: Anjelica Houston supera sé stessa e meriterrebe più premi di quanto non abbia raccolto in carriera; Sam Rockwell, già indimenticabile Zaphod Beeblebrox, e Kelly MacDonald – conturbante – sono perfetti nel ruolo di psicopatici, e ti agganciano come se fossero tuo amici di lunga data. Notevole. Voto: 7.

 

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