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Archivio per la categoria ‘movimenti tellurici’

Il crepuscolo degli eroi sarà il crepuscolo dell’epica?

1 Dicembre 2009 5 commenti

 

Il nuovo libro dei Wu Ming – Altai – è il sequel (volevo scrivere postquel, ma poi ho pensato di fare la persona seria) di Q. Sequel in termini di contesto storico, di personaggi e anche di tematiche: la rivolta, il ruolo degli eroi e degli antieroi, la guerra e la libertà, e quanto costano. Avviso i naviganti che la mia recensione se ne sbatte di spoiler e anticipazioni, per cui leggetela DOPO aver letto il libro, se non vi piace sapere come finiscono le storie.

Altai si presta a una duplice lettura (non ho ancora deciso quale mi convince di più) e anche a una duplice interpretazione della conclusione. Le letture si dipartono dai due personaggi fondamentali del romanzo (non gli unici, ma quelli che per me sono la chiave della trama, senza per questo togliere valore simbolico ad altre figure): Ismail alias Gert dal Pozzo e Manuel Cardoso De Zante alias Altai.

Da un lato l’anziano rivoluzionario, l’"errante per scelta, che per tutta la vita i potenti ha cercato di abbatterli", il "fiume che evapora e diventa nuvola, per scavalcare il deserto e piovere sui monti." Rappresenta ciò che è stato, la saggezza dell’esperienza, di chi il prezzo l’ha già pagato e ne ha conosciuto l’amarezza, in grado di riassumere in una frase apodittica ciò che è stato, è e sarà: "Volevamo giustizia. E una ragione per vivere e morire." L’epitaffio che chiunque abbia un animo desideroso di cambiare il mondo vorrebbe sulla propria tomba è la storia della vita di Gert. Ed è la storia di Q. Riassunta dagli autori stessi.

Dall’altro il giovane idealista, rinato a una nuova vita dopo aver negato se stesso, i propri ideali e la propria personale epica, il ribelle che trova una causa e un maestro (forse più di uno considerato Ismail): "Nessuno di loro credeva in lui. [in Yossef Nasi, nda] Eppure migliaia di ebrei gli dovevano la vita. Eppure io ero lì a dimostrare che era possibile cambiare tutto. Bastava volerlo e con l’aiuto del Signore le cose potevano essere capovolte, il caos cancellato, l’equilibrio ripristinato. Tikkun olam. Così lo aveva definito Nasi. Aggiustare il mondo, sanare la ferita che il nostro popolo si portava dietro da millecinquecento anni, così come aveva rimarginato la mia piaga, nascosta per metà della vita." L’idealismo un po’ naif, un po’ ingenuo e per questo vagamente massimalista, privato in un certo senso di profondità di fronte all’entusiasmo, e che si scontra con il cinismo un po’ saturo e un po’ saggio di Gert.
Manuel Cardoso è Altai: "Altai […] è il nome di questa stirpe meticcia. […] E’ un falco molto robusto, fedele, facile da addestrare. Non occorre fare nulla con un altai, e un buon falconiere fa il meno possibile. E’ la natura del falco che lo spinge in volo e gli fa conficcare gli artigli sulla preda. Se vuoi che lo faccia per te, devi solo mostrargli qual è il suo vantaggio." Una creatura fedele all’idea che si fabbrica per lui, in grado di seguire il suo istinto eroico e martire, fino alla sua ultima conseguenza: la morte, la violenza cieca, la barbarie. Di fronte alla quale il velo si strappa per rivelare la realtà della storia. Un perfetto strumento del potere.

Allora Altai (il romanzo) si presta a una prima lettura spinoziana: ogni volta che muore un eroe, che un’idea vince o perde o si trasforma, che muore un’occasione di rivolta, ciò che ne rimane rinasce in un nuovo movimento, in un nuovo afflato di speranza. La storia è un continuo divenire ciclico di eventi, di epica, di eroi. Ed è per questo che non dobbiamo mai pensare che sia finita, che ogni istante è un nuovo inizio da giocarsi fino in fondo.
Anche se il ciclo è "d-evolutivo", se ogni generazione di battaglieri sembra sempre meno densa di quella precedente, sempre più bassa nelle proprie aspettative e possibilità, come se la volontà fosse un bene consumabile, che si assottiglia insurrezione dopo insurrezione. E non è detto che sia così. E’ il ciclo che ricomincia con il ritorno finale di Ismail/Gert a Mockha per un nuovo terreno di battaglie da coltivare, per nuovi popoli da aizzare, per cercare un nuovo territorio da colonizzare con l’idea di libertà.

Questa lettura mi sembrava molto precisa in una prima fase del romanzo, ma sul finire del romanzo mi si è presentata una seconda chiave, più tradizionale forse, e sicuramente parziale (ma d’altronde ogni lettura è parziale): Altai come dialettica dell’epica, con Q come tesi, il presente romanzo come antitesi e noi, sì proprio noi, quello che viviamo e che facciamo, come sintesi. Schematico forse, ma interessante. Ismail come la tesi di rivoluzioni con grandi aspirazioni e capaci di giocarsi la partita fino in fondo, fino a pagare il dazio greve di chi ci prova senza risparmiarsi neanche un grammo di coraggio e di volontà, nonostante la fine tragica.
Ismail risponde proprio a Manuel:
"- Mi avete parlato di quel che avete perso. Cosa vi resta?
– Soltanto loro".

E ancora:
"- Machiavelli ha scritto che bisogna guardare il fine, non i mezzi.
– Sì, anche Yossef me lo ha ripetuto spesso. Con gli anni, ho invece imparato che i mezzi cambiano il fine."

Le risposte amare di chi ha scommesso tutto sulla libertà e ha perso, ma sapendo di fare quello che riteneva giusto e che poteva cambiare il senso della propria vita e di quella di coloro che lo circondano. Risposte che sembrano un po’ quelle che molti di noi che hanno vissuto gli ultimi dieci anni di movimenti stanno elaborando, incapaci di trovare una strada per cui valga la pena ancora mettersi in gioco. Strada che forse Gert trova (e sicuramente i Wu Ming individuano, considerato i loro commenti a questa mia recensione 🙂 A cui fanno da controcanto le parole dell’antitesi Manuel Cardoso, un fedele servitore di un ideale altrui.
"- […] Solcare il mare è come attraversare il deserto. Sono spazi liberi, aperti a mille possibilità.
– Eppure senza un approdo non si farebbe che andare alla deriva."

La storia è una deriva? Oppure ha un fine? E se ce l’ha chi lo decide? L’epica è la definizione della finalità di (una) storia? O è il canto di come si attraversa una storia alla deriva? Gli eroi sono coloro che cercano di costruire una strada laddove nessuno sa dove andare, di sostituire alla deriva una rotta. Allora la tesi Ismail/Gert e l’antitesi Manuel/Altai si scontrano di fronte alla morte dell’ideale altrui che Manuel ha inseguito e che Ismail ha accettato di correggere: di nuovo sangue, violenza, il tradimento di ogni rotta e di ogni desiderio di giustizia di fronte alla realtà degli esseri umani. E la reazione è differente: Gert torna a se stesso, a ciò che gli è rimasto, a ciò che spera, lasciandosi alle spalle la propria storia e sperando che essa possa insegnare ad altri dove ha sbagliato; Manuel affronta prima il proprio mentore e poi il proprio destino, tragico e mesto, senza onore e senza gloria, come di tutti coloro che hanno vissuto l’ideale di qualcun altro, la sua libertà, la sua giustizia. Quella del potere.
"- Sono queste le fondamenta della nuova Sion? Strage, tortura, infamia? Un giorno dicesti che volevi riparare il mondo, e non mi aspettavo certo che fosse una sutura indolore. Ma ora la piaga è più vasta di prima, e infetta, e non vedo quale cura la potrebbe sanare.
– […] Non vi è regno che non nasca dal sangue dei vinti […]
– […] Almeno i nostri padri presero la terra da soli. Sapevano quello che facevano, e ressero il peso delle morti sulle proprie spalle. Noi abbiamo massacrato per tramite dei giannizzeri, incuranti del male che ne sarebbe venuto."

Gli eroi dei Wu Ming sono morti, sconfitti, vituperati, vinti. Ismail/Gert come molti di noi si rintana in quello che gli è rimasto, convinto che le sue carte siano state giocate e non siano bastate, avvolto dai brandelli della propria volontà, struggente e romantico, ma al termine della sua storia. O forse ripiega su se stesso cercando un altro luogo, un altro tempo, un altro modo di continuare a combattere. Manuel fino in fondo al servizio di una battaglia altrui, intriso di una volontà fotocopiata fino a quando la realtà non lo risveglia con la sua truculenza, abdica la propria esistenza convinto di dover pagare questa sua unica colpa, quella di non aver saputo scegliere, gettando via i dadi per lungo tempo tenuti nelle tasche della giacca come simbolo del caso che menava le sue membra a destra e a manca.

Quello che rimane siamo noi. O forse voi (io mi sento più Gert), altri, ancora convinti che ci sia spazio per combattere e per crederci, sapendo che ogni battaglia ha i suoi prezzi, ma che spesso valgono la pena di essere pagati se il risultato è un epica e una storia che possa essere raccontata. Quello che rimane è piantare dei semi e cercare un nuovo terreno dove costruire la battaglia per una realtà migliore. Nuove possibilità di fronte a un gioco – quello del potere – che è sempre lo stesso e che finisce sempre allo stesso modo. Sapendo che la battaglia sarà ancora una volta e sempre più dura.
Solo così il crepuscolo degli eroi non sarà anche il crepuscolo dell’epica, un preludio alla fine di ogni speranza. Ma solo un nuovo inizio.

"La libertà, invece, non rimane mai la stessa, cambia a seconda della caccia. E se addestrate dei cani a catturarla per voi, è facile che vi riportino una libertà da cani."

PS: non l’ho scritto perché ho una lievissima tendenza a vedere il politico che c’è in ogni cosa, ma l’aspetto testuale dell’opera dei Wu Ming è veramente arrivata ad un livello elevatissimo: scelta delle parole, elaborazione sul linguaggio (il lavoro sul giudesmo è fantastico),  la contestualizzazione e l’affresco storico, la caratterizzazione dei personaggi, tutto verametne di altissimo spessore letterario. In conclusione spero che le note "critiche" nella mia recensione non vengano confuse con una diminuzione della stima che provo per l’opera dei soci bolognesi (e non) che rimane elevatissima. Consigliato vivamente a tutti 🙂

 

Buone nuove

19 Novembre 2009 1 commento

 

Ogni giorno si potrebbe scrivere di quintali di nefandezze che il Paese che Non c’è ci propina. Si potrebbero riempire diari di quanto ci stiamo assuefando a un mondo orribile che ci circonda, a persone schifose e prive di dignità e di rispetto degli altri, di quanto i luoghi e i tempi in cui viviamo scendano nel maelstrom dell’orrore: dal Bianco Natale a caccia di immigrati irregolari su cui apporre una bella stella gialla (o magari nera, per restare in tema) a Coccaglio, passando per la morte di Stefano Cucchi e di decine di altri, fino ad arrivare a scempi quotidiani. Ma la testa si stanca ancora prima di cominciare ad affrontare questa marea nera e appiccicosa, il fronte del maremoto di uno Zeit Geist lontano migliaia di chilometri e di eoni da ciò che io penso sia l’umanità. Allora scegliamo una notizia piccola, ma che ci ricorda che prima o poi la biologia ci salverà: con una catastrofe, una pandemia o anche semplicemente con il decorso naturale della breve vita umana. Prima o poi anche il peggiore dei nostri nemici dovrà lasciare questa valle di  lacrime e fuor di falsi e ipocriti moralismi noi dovremmo sempre brindare. Addio Caradonna, non ci mancherai!

PS: per l’autore dell’articolo. Il soggetto non era una macchietta, ma un ex picchiatore tra i più violenti. Carta canta. E pure un processo che ecn.org ha vinto per non cancellare dal web la memoria di quanto quest’oscuro figuro ha fatto nella sua fin troppo lunga vita. 

I buoni e i cattivi

9 Ottobre 2009 11 commenti

 

E’ il discrimine totale e definitivo, quello che ci offre ogni evento, ogni storia, ogni narrazione, ogni situazione. Il più facile e immediato, quello che non manca mai, il crinale lungo il quale scegliere da che parte stare. Neanche la voga del postmodernismo è riuscita a scalfire il mito di una divisione perfetta tra gli uni e gli altri, alimentata da secoli e secoli di semplificazione. Io, da sempre, fin da quando ero piccino, ho sempre preferito i cattivi. Non ci sono cazzi. Mi sono sempre piaciuti Dillinger, Bonnot, Vallanzasca, gli Indiani e financo Cattivik. Perché? Perché i buoni sono ipocriti e parteggiare per loro è una forma di ipocrisia ancora più viscida, fatta di menzogne taciute anche a sé stessi e di facili schieramenti, perché i buoni vincono sempre anche quando non lo meritano, perché i buoni incarnano ciò che è giusto e naturale che sia giusto, sono l’autoassoluzione dalla propria stronzaggine e della propria intima miseria egoistica. Sono un insopportabile assioma, una tautologia vivente (almeno nelle narrazioni), uno schiaffo alla realtà. Invece stare con i cattivi significa cercare di capire la verità, di capire che cosa succede, di non fermarsi alla facile apparenza e al conformismo di ciò che è giusto o di ciò che è sbagliato secondo "chiunque". Stare con i cattivi significa cercare, pensare, decidere.
Anche Genova è una storia con i buoni e i cattivi, anzi con tanti buoni e tanti cattivi, a seconda del punto di vista di chi vi racconta cosa è successo. Così ci sono i buoni per antonomasia, i poliziotti, le forze dell’ordine, quelli che ci proteggono, e i cattivi per definizione (almeno in questi decenni di bulimia dei consumi e di anoressia dei cervelli), i manifestanti, quelli che fanno casino. Ma anche spostando un po’ più in là l’asticella della nostra narrazione, ci sono sempre i buoni, i manifestanti pacifici, e i cattivi, i manifestanti cosiddetti violenti. Quindi, anche spostandosi più in là possibile con il punto di vista, rimane sempre bello limpido il discrimine: da un lato i buoni e dall’altro i cattivi, i violenti.
Ora: tralascerò una disanima sul termine violenza, una parola che non digerisco più. Intendiamoci: capisco perfettamente la sua denotazione, ma non riesco più ad accettarla come parte del mio lessico da quando è diventata un connotato di giustizia, da quando ciò che è violento è necessariamente sbagliato, come se avesse intrinsecamente un valore morale, come se violento fosse un aggettivo etico e non qualificativo di una situazione. Feroce è morale, forte è morale, prepotente è morale, ma violento in sé non è né buono né cattivo. Almeno fino a quando non hanno deciso di sciacquarci il cervello in un Arno fatto di equidistanze e privazione della capacità di prendere posizione, di decidere in base a ciò che viviamo e che vediamo intorno a noi.
La sentenza di appello per i fatti avvenuti nelle strade di Genova durante il G8 del 2001, nell’arco del famoso processo ai 25 – e se non sapete di che parlo fate una bella ricerchina in rete che non ne posso più di riassumere gli eventi – ha sancito una volta di più che quel discrimine non si può valicare se non a costo di gran parte della propria vita. I buoni, via via nei mesi, sono stati tutti assolti: chi pienamente perché santo subito (De Gennaro, l’ex capo della polizia, e compagnia), chi parzialmente con sentenze che assomigliano più a strigliate che non a condanne (Diaz e Bolzaneto), chi di straforo per culo o per inciso (mancanza di prove o risarcimento per aver subito una carica studiata a tavolino per scatenare il delirio a Genova come nel caso delle Tute Bianche in via Tolemaide, anche se su questo evento e sulla gestione giudiziaria della cosa si dovrebbe parlare a lungo per mille motivi, fatto salvo che sono contento per coloro che sono stati assolti). I cattivi pagano pegno: 10-15 anni a testa, zitti e muti. Con buona pace della storia e della ricerca della verità. Tra dieci e quindici anni. Pensiamoci ogni tanto alle cose che leggiamo o quelle che sentiamo al telegiornale.
I moralisti diranno: bene, se lo meritano. I loro compagni diranno: male, Stato bastardo e assassino. Io – pur condividendo questa seconda posizione diciamo in termini formali e ideologici – voglio ragionare con chi mi legge. La decina di persone che è stata condannata è il capro espiatorio di un evento storico che nessuno vuole guardare in faccia. Anche a distanza di anni, i libri scritti su Genova – sia da ex poliziotti che da (ex) compagni – non vengono comprati, non vengono letti, non vengono discussi. Tutti sono lì a nascondersi quello che è avvenuto, quello che hanno provato, la voglia di violenza che si è scatenata (o che qualcuno ha voluto scatenare, su questo non saremo mai d’accordo e forse non è possibile esserlo) in noi e intorno a noi. Così una decina di persone che ha causato qualche migliaio di euro di danni a un’altra decina di persone viene condannata a più anni che non qualcuno che ha ucciso (ucciso = ammazzato = morto) una persona, o di qualcuno che a truffato decine di migliaia di euro a tutti i cittadini italiani, o che ha aggredito e violato la dignità e l’incolumità fisica di una persona (uno stupratore ad esempio). 15 anni. Sono molti da passare in carcere per aver rotto dieci vetrine. Ma una pena più lieve non sarebbe stata abbastanza per i cattivi. E se i cattivi non sono più cattivi, i buoni non possono essere i buoni, e chi ci capisce più nulla? Non si può fare, converrete con me. Ci toccherebbe cercare di capire quello che è successo, la complessità del mondo in cui viviamo. Ma non è cosa per poveri esseri umani italiani del terzo millennio.
Rimane la rabbia. Rimane la frustrazione per non essere in grado di spiegare quanto sia semplice e brutale la situazione, quanto sia inevitabile e quanto nessuno voglia né conoscere quello che è avvenuto in quei giorni, né porsi il problema di che cosa significhi la parola giustizia o la parola violenza. Rimane l’istinto alla violenza. Rimane ciò che ci circonda. Rimane il disgusto. Rimane il discrimine e la possibilità di scegliere se stare da un lato o dall’altro del crinale. Io non ho cambiato idea.
Rimane la consapevolezza che è giunto il momento di leggere la realtà, di rendersi conto che lo spazio per la rappresentazione, per l’opinione, per la manifestazione è morto da tempo, annullato, vituperato, strumentalizzato. Che se volete dare libero sfogo alla vostra idea, se volete essere partigiani, non potete lasciare spazio ai dubbi. E’ il tempo di fare, di agire: che sia come riformisti (candidarsi, eleggersi, schierarsi, infilarsi in istituzioni di merda varie), che come radicali (tralascio gli esempi, ma penso che Bonnot o il subcomandante Marcos li conosciamo tutti). Non si può più aspettare che succeda qualcosa indipendentemente dalla nostra pochezza. Io sono un codardo, un vigliacco, o forse non sono abbastanza bravo o capace per fare passi così tetri, duri e cinici. Ma ammettendo il mio limite saggio anche il margine con cui mi accosto al crinale. Lo spazio per le speranze è finito da tempo e la storia sarà sempre e comunque di chi saprà scegliere, schierarsi e lottare. E di chi pagherà per questo. Intendiamoci: non servono martiri, ma servono persone che non abbiano paura di fare la cosa giusta. Io sabato 21 luglio avrei bruciato tutta la città. Mi fermai di fronte a decine di miei amici e compagni con cui avrei dovuto venire alle mani per fare quello che ritenevo giusto. Sbagliai. Altri non sbagliarono. Perché di fronte all’assalto alla nostra libertà di quei giorni e dei giorni che sono seguiti da allora, quello che fecero è ancora troppo poco, ma ne possono certamente andare orgoliosi (magari in nicaragua, eh? 🙂
Ho usato esempi estremi, ma ci sono milioni di situazioni quotidiane in cui chiunque di noi può essere un militante della propria statura etica. Non si può più aspettare e osservare il crinale. Bisogna calpestarlo, attraversarlo, cavalcarlo, viverlo. Il versante dei cattivi. Il versante dei giusti.

 

Le proposte per la scuola italiana – una visione eterodossa

7 Settembre 2009 7 commenti

 

Pre Scriptum: non ho riletto; scusate strafalcioni; è certamente incompleto, ma di questi tempi sento il bisogno di cominciare a confrontarsi su proposte serie e strutturali, che di toppe non se ne può più. Ovviamente non penso che le proposte che ci sono in questo post siano complete o anche solo dettagliate, ma almeno sono idee che non ho sentito mai pronunciare nel dibattito pubblico sulla questione, tutto intento a ribadire che la Gelmini è una povera deficiente (vero), a strumentalizzare i precari per colpire il governo (per carità se lo merita il governo), a cercare di risolvere il proprio problema quando è evidente che c’è qualche piccola complicazione strutturale. 

 
In questi giorni – come tutti coloro che seguono quello che succede nel mondo – mi sono interrogato molto sulla questione della scuola in seguito alle proteste dei precari che si stanno diffondendo a macchia d’olio per tutta la penisola. Mi sono interrogato perché io sono uno di loro, ma non sono andato ai presidi, un po’ per pigrizia, un po’ perché rimuginavo.
E’ bene scriverlo in cima al post: ogni mobilitazione merita solidarietà, soprattuto in una fase come questa, durante la quale il tentativo è come sempre quello di distruggere la dignità delle persone, di convincerle che vivere una vita di stenti e di sottomissioni sia qualcosa di appetibile; quindi senza se e senza ma i ragazzi sui tetti dei provveditorati, incatenati ai cancelli di quegli edifici grigi, o attivi in qualsivoglia modo per cambiare in meglio la propria vita devono essere difesi e sostenuti. Inoltre parliamo di persone che hanno speso anni a lavorare per e nella scuola, che hanno studiato, obbligati dai mille sistemi che i governi hanno inventato per ritardare il momento delle scelte su come inserire nel mondo scolastico nuove forze, pagando corsi, prendendo ogni anno una laurea diversa, cercando di inseguire il gioco mafiosetto di governi e istituzioni sul mondo del lavoro.
Però oggi voglio provare a stare al gioco di ogni autorità che si rispetti, voglio provare a rispondere alla trita critica che si muove a ogni protesta: proposte, non pugnette. Bene, la domanda fondamentale è: come può migliorare il sistema scuola italiano? Come si possono risolvere i suoi annosi problemi? Mi sono posto questa domanda, e lentamente aggirandomi per le scuole e per i meccanismi della scuola, ho provato a darmi una risposta senza precludermi alcuna impennata di stronzaggine (chi mi conosce sa che è proprio difficile per me 🙂

Il riassunto di ciò che penso è il seguente: la scuola ha bisogno di più fondi, non di tagli; ha bisogno di una ottimizzazione delle risorse; ha bisogno di scelte nette sulle priorità e di investimenti in tal senso; ha bisogno di percorsi chiari per migliorare. Sembra semplice, ma se guardate bene è esattamente il contrario di quanto fatto dalla maggior parte dei governi da decenni a questa parte: si è sempre parlato di tagli a fronte di finanziamenti sempre più ingenti alle scuole private (no, io non penso che uno debba essere "libero" di scegliere la scuola privata, io penso che la scuola debba essere una e pubblica e che chi vuole una scuola privata se ne debba assumere l’onere anche economico); si è sempre parlato di riduzione delle risorse e mai della loro redistribuzione; le priorità sono cambiate anche nel corso dello stesso governo, e ogni volta alle parole raramente sono seguiti i fatti in termini di strutture, formazione, progettualità; sulle scelte nette, nonostante l’aspetto da virago della stessa Gelmini (di cui ho zero stima, tanto per chiarirci), anche l’attuale governo ondeggia a seconda della necessità politica e della ragione di stato (oltre che di cassa).
La domanda sorge spontanea: cosa faresti tu? Io risponderò, a spanne, ovviamente, non avendo accesso ai conti dello Stato, e tantomento fregiandomi di improvvisate qualità di economista. Risponderò con il buon senso di quello che vedo attorno a me, e con la voglia di cercare soluzioni.

Punto primo: fondi.
Annullare i fondi alle scuole private e reinvestire il tutto nel rinnovamento della scuola pubblica. Chi vuole una scuola privata, se la paghi. E non mi si dica che uno deve essere "libero" di scegliere. La libertà è quella di tutti di avere una scuola dignitosa: se a te piacciono i preti, o i centri rousseau, pagateli. La libertà di tutti è sempre più importante del capriccio di uno. Punto.
Detassare al 100% i versamenti delle aziende alle scuole siano essi in materiali, risorse umane, finanziari.

Punto secondo: posti di lavoro, rinnovamento e riorganizzazione delle risorse.
Facilitare il prepensionamento degli insegnanti over 50.
Facilitare il trasferimento degli insegnanti più esperti (leggi anche più anziani) a obiettivi funzione per varie mansioni scolastiche: dalle vicepresidenze, ai laboratori, alle mille cose che ci sono da fare in una scuola, fosse anche solo tenere i contatti con il quartiere, le associazioni locali e i progetti che si possono realizzare.
Ispezioni serie per valutare situazioni critiche e distribuzione delle risorse: non da lontano, però, da vicino; prendersi un anno e girare tutte le scuole, altrimenti non si capisce un cazzo di quello che succede. Sappiamo bene che il Sud (senza razzismo, è un dato di fatto) scoppia di insegnanti che hanno chiesto il trasferimento vicino ai paesi natii e che sono stati accontentati con strutture sovrabbondanti, tenute in piedi per i buoni uffici mafioso politici di questo o quell’amministratore. Anche al Nord il problema degli accorpamenti e della razionalizzazione delle strutture è impellente. E va fatto senza pietà, Brunetta style. Sappiamo altrettanto bene che le scuole sono piene di persone che occupano il posto pur avendo altri impegni, di gente che non merita di essere professore e che non si capisce con quale criterio sia arrivata a fare questo mestiere. (E tralascio la situazione delle segreterie, che è pure peggiore, se possibile, in molti luoghi).
Valutare la quantità di posti liberati e la loro localizzazione, e indire un concorso che spazzi via TUTTE le graduatorie piccole e grandi. Chi ha anni di servizio, titoli, specializzazioni, abilitazioni parte con un piccolo vantaggio, ma tutti se la possono giocare a viso aperto. Chi entra entra, chi non entra si infila nelle graduatorie di istituto in attesa di supplenze e del successivo concorso quando si rivaluteranno le posizioni vacanti dopo tipo 3-5 anni. Basta equivoci, basta farraginosità, è inutile stare a menare il can per l’aia: ci sono meno posti, un sacco di gente in graduatoria non sa più neanche cosa vuol dire insegnare, un sacco di gente giovane meriterebbe posti che sono in scacco. Un bel repulisti e si ricomincia da zero, ma prima bisogna capire bene quanti posti e dove si possono collocare. Chi non entra, dovrà inventarsi un altro lavoro, almeno per un po’.

Punto terzo: priorità e indirizzi.
Scegliere ogni 3-5 anni degli obiettivi prioritari (che so, alfabetizzazione informatica, strutture di sostegno, progetti multiculturali) e disporre finanziamenti strutturali ingenti in tale direzione (vincolati): se per dire la priorità è l’alfabetizzazione informatica, per esempio, mettere su dei team regionali che attrezzino TUTTE le scuole con un’aula informatica seria per esempio. Giusto per restare sul semplice.
Predisporre (questo più o meno c’è già) ogni anno finanziamenti per progetti della scuola che abbiano a che fare con il contesto dove vive un istituto.
Programmare in via centrale (almeno regionale) gli interventi di costruzione/ristrutturazione di edifici e risorse dell’edilizia scolastica. Fornire sgravi per la riqualificazione di strutture abbandonate a fini scolastici, cofinanziamenti e via dicendo.
Se la via dev’essere quella di scuole che si differenziano anche per la capacità di coinvolgere il tessuto territoriale, che almeno abbiano qualche carta per attirare capitali e risorse. Sennò mi pare evidente che dire "le scuole devono essere fondazioni" è solo un modo per dire "vi diamo meno soldi, arrangiatevi con gli amici degli amici". Italian-style, ma style di merda anche.

Punto quarto: valutazione dei percorsi scolastici.
Il mondo sarebbe un posto migliore se fosse possibile vedere questa filiera: la gente paga le tasse, ottiene servizi PUBBLICI di utilità, valuta questi servizi, le valutazioni vengono registrate, analizzate indagate, e i servizi migliorati. Filiera virtuosa no?
Anche la scuola dovrebbe avere dei meccanismi di feedback locale (con le strutture del territorio, i consigli di zona, i comitati di quartiere e di genitori, un po’ una versione allargata e forse con un po’ più di potere decisionale dei consigli d’istituto diciamo) e globale (indagini statistiche, raccolta di questionari a campione sul territorio da poi filtrare, periodiche visite di autorità centrali, possibilmente a sorpresa e in incognito 🙂
Andrebbero poi premiate in qualche forma quelle scuole che si dimostrano essere in contatto con la realtà che le circonda, che si dimostrano capaci di migliorare proprio per la relazione con chi ha bisogno di loro.

Molti di questi punti sono ispirati da principi diametralmente opposti a quelli sia della presente amministrazione, che di quelle precedenti, strette in ragioni di stato e in un revisionismo del concetto di PUBBLICO francamente imbarazzante per chiunque si definisca "sinistroide". Un giorno qualcuno mi disse che è semplice distinguere: se il tuo obiettivo è rendere la vita della maggior parte delle persone migliore e dare a tutti le stesse possibilità, sei di sinistra. Se la solidarietà, la dignità e l’eguaglianza sono valori fondanti per te, sei di sinistra. Ma adesso si sa è tutto più confuso. Però al di là di posizioni che oggi vengono considerate estreme pur essendo all’acqua di rose, mi pare evidente che combattere per migliorare ciò di cui tutti potremmo godere è una necessità: non c’è democrazia senza la possibilità per tutti di una vita dignitosa. E alcune dei punti di cui sopra, anche se un po’ trucidi, potrebbero essere degli spunti da cui partire per cercare delle soluzioni e non solo delle toppe per nascondere le falle di un sistema rabberciato mille volte senza – come in molti altri campi – la minima idea della società che si vuole costruire e in cui si vuole vivere.

à la prochaine.

 

No olvidamos

26 Giugno 2009 1 commento

 

Sono passati sette anni. Molto cose sono cambiate, ma non tutte. C’è sempre una parte con cui stare e una parte contro cui combattere. Capire quale è facile. E non costa solo lacrime, ma anche una gioia che nient’altro ti può dare, quella di combattere per le persone con cui vivi ogni giorno.

 

http://www.youtube.com/watch?v=ui2FkMJWatM

 

Sette anni fa Dario e Maxi venivano assassinati dalla Polizia di Buenos Aires durante una delle più grandi manifestazioni piquetere. Non tutti gli anni mi sono ricordato di render loro omaggio su questo blog, ma non c’è stato 26 giugno che io non abbia sentito un groppo in gola ripensando a loro e ai miei compagni che continuano a lottare in Argentina. 

 

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I problemi della scuola – parte sesta e ultima – il pagellone

24 Giugno 2009 10 commenti

 

Bene, l’anno scolastico si avvia alla sua conclusione e mi pare corretto cercare di tracciare un po’ un bilancio di quanto è accaduto in questa mia esperienza in quel della Comasina. Mi pare anche che sia giusto nei confronti degli sparuti lettori di questo blog aggiornare su come si sono concluse alcune vicende che tanto hanno animato i commenti e le mie giornate negli ultimi mesi. Ho pensato di farlo con una specie di pagellone, ovviamente con i voti in stile Gelmini: spero nessuno si offenda per quanto scriverò, ma d’altronde è quello che penso 🙂

Studenti, voto 7: come sempre sono la componente più importante della scuola, quella per cui si sceglie di fare questo mestiere. Mi sono divertito molto con loro, ma penso che in generale non siano stati molto in grado di raccogliere e proporre stimoli che altrove ho visto prendere piede molto più decisamente. Sono convinto che le prime di quest’anno saranno un po’ più propositive e che in buona parte non sia solo colpa degli studenti: siamo noi adulti che dovremmo contribuire risolvendo le situazioni problematiche a far sì che il grosso degli alunni possa approfittare delle occasioni che si parano loro davanti. Insomma: bene, ma si può fare meglio. Con l’aiuto di tutti.

Docenti, voto 7: il voto è una media tra l’otto che meriterebbe la dedizione, la bravura e la voglia di lottare di un gruppo (anche consistente) di docenti, e il cinque per la tardiva sveglia del grosso del collegio docenti, accortosi troppo tardi della fonte di alcuni problemi della scuola e disposto alla battaglia solo dopo aver toccato con mano il problema. Avremmo tutti insieme potuto muoverci prima, forse risparmiandoci un ultimo mese veramente thriller di rapporti tesi e problemi rimasti scarsamente risolti. Ovviamente non è "colpa" dei docenti, ma il loro insieme è uno spaccato della società, dei suoi limiti, della scarsa propensione generale a sbattersi per risolvere le cose e per inventarsi nuovi modi per farle. Sono convinto che se una scuola potesse contare sempre sullo stesso gruppo di persone molte cose migliorerebbero di anno in anno, con una progressione che non può che realizzarsi conoscendosi meglio, facendo le cose insieme per tanti anni e limando l’un l’altro i rispettivi limiti. Sarebbe ingiusto non dare la sufficienza al gruppo di adulti che più di tutti ha a cuore l’istituzione scolastica, ma sarebbe anche poco onesto dire che ci si è librati molto in alto. Non mi odiate, sapete che non mi accontento mai. La mozione finale e l’ultimo mese hanno alzato di molto la valutazione complessiva.

Personale non docente, voto 7: sempre disponibili, sono le fondamenta su cui costruire la scuola. Non tutte le bidelle della scuola dove sono stato quest’anno apprezzano la rilevanza del loro ruolo, ma alcune di esse sono insostituibili: C. e V. sopra tutte. Grazie mille.

Segreteria, voto 5,5: un consesso di persone in generale con scarsa propensione all’iniziativa, diciamo così. Se ne salvano due o tre, ma il grosso avrebbe bisogno di qualcuno che spiegasse loro che una segreteria efficente ed efficace è la chiave per una scuola che funziona senza intoppi. Lo dovrebbe fare il preside, ma sappiamo i limiti che la scuola dove ho insegnato ha in questo senso. Il voto è la media tra la disponibilità e la competenza di alcune persone della segreteria e la totale inesistenza di altre. Ho capito che non bisogna disturbare ogni minuto la gente che lavora, ma non è neanche possibile pensare che si debba prendere un appuntamento per realizzare un intervento tempestivo nei confronti di un alunno e della sua famiglia perché "gli orari sono quelli". Su, un po’ di flessibilità ci aiuterebbe a lavorare meglio. E forse nell’ultimo mese senza studenti questa cosa si è notata di più. Il voto è tirato in basso dallo spreco costituito dal dover pagare un consulente economico esterno per fare i conti quando ci sono persone lautamente remunerate in segreteria per quel lavoro. Tristezza in salsa italiana.

Dirigente Scolastico, voto 4: sapete come la penso, l’ho scritto in tutte le salse. Ho tenuto il vecchino (come si è lui stesso firmato) come ultimo punto, anche per aggiornarvi su come è finita la battaglia tra la scuola e il suo inadeguato dirigente scolastico. In uno degli ultimi collegi docenti il preside si è scontrato con tutti i professori: ha pensato bene di rigirare troppe volte la frittata dei problemi della scuola, infine cercando di addossarla a quei docenti che per tutto l’anno hanno retto l’organizzazione della scuola e svolto le funzioni che avrebbe dovuto coprire il dirigente. Non solo, ha pensato bene di addossare a tutto il corpo docente la colpa dei limiti della scuola in cui lavoravano, insultandone la professionalità e l’impegno. Il risultato netto è stata una mozione firmata da tutto il collegio docenti tranne 6 persone (tra cui l’RSU della UIL che ha ritenuto non idonea la sede del collegio docenti per quella protesta) in cui si metteva a verbale l’inadeguatezza del dirigente e il suo totale disimpegno verso la scuola che avrebbe dovuto reggere. Pochi giorni dopo una lettera firmata dalla stragrande maggioranza dei docenti delle scuole medie è stata portata in Consiglio d’Istituto e inoltrata al Provveditorato controfirmata da tutto il Consiglio (in una riunione in cui il Dirigente ha nuovamente fatto una figura di tolla cercando di sgusciare dalle proprie responsabilità e mancanze). Pochi giorni fa a scuola è serpeggiata una voce che finora non mi è stata confutata: il vecchino sarà trasferito in una elementare a Paderno Dugnano, una piccola vittoria che ogni docente della scuola sta assaporando. Non so se sia dipeso da noi, dalla nostra battaglia, dai litigi o semplicemente dal caso, ma sono contento di lasciare la scuola dove ho insegnato (e dove probabilmente non insegnerò l’anno prossimo considerata la mia condizione di precario) con un problema in meno sul groppone.

Concludo salutando tutti i colleghi, il personale ATA, e il personale della segreteria, sia le persone che ho apprezzato che quelle con cui ho litigato. Non sarà un anno che dimenticherò facilmente.

Teen hacking e il Babau

12 Giugno 2009 1 commento

 

 

L’hackmeeting si avvicina: check out hackmeeting.org per ogni informazione!

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Riscaldate i motori, si avvicina l’hackmeeting 2009

7 Giugno 2009 Commenti chiusi

 

Tralascio le elezioni europee che faranno sprofondare questo paese ancora più nel baratro che si sta scavando, per ricordarvi che da questa settimana iniziano ufficialmente le iniziative di avvicinamento all’hackmeeting 2009, l’annuale incontro di smanettoni, attivisti e controculture digitali italiane e non solo. Il meeting sarà a Rho il 19-20-21 giugno 2009, alla Fornace appena rioccupata, in via San Martino 20. Prima del meeting per un paio di settimane gli atenei milanesi e altri luoghi saranno interessati da iniziative di approfondimento che cercheranno di declinare l’attitudine hacker nei temi più svariati. Partecipate numerosi e fatevi vedere a Rho che c’è una marea di roba da fare (parlo io che sono da 5 giorni a casa con la febbre! 🙁

Qui trovate l’elenco delle iniziative del warm up!!

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Politica Snai: le Europee

30 Maggio 2009 6 commenti

 

Se chiedete a qualcuno come si vota alle Europee o chi sono i candidati o che cosa serva il Parlamento Europeo e quale differenza ci sia tra questo e la Commissione, in Italia la risposta che avreste è: boh. Se cercaste sui giornali chiarimenti sul tutto la risposta rimarrebbe: boh. Fermo restando la mia avversione in generale alla dimensione del voto, è pur vero che analizzare la dimensione elettorale fa parte del comprendere che cazzo succede e che cazzo succederà in un determinato contesto geopolitico. Lo spazio politico europeo, unica vera salvezza per questo paese ormai decadente e macilento, è ignorato e privo di un concreto interesse, lasciato a personaggi sconosciuti e di alcuna progettualità politica qualsivoglia. In merito l’articolo di Internazionale di questa settimana è molto istruttivo, perché racconta come il Parlamento europeo va via via guadagnando poteri e che quello che vi accade può avere un riflesso reale nella vita politica nazionale. 

Ma cosa accadrà? Lascio qui le mie previsioni, così vediamo quanto ci piglio: affluenza sotto tra il 40 e il 50 per cento (aiutata dalle provinciali, che non commento neanche dato che a Milano lo scontro è tra un rappresentante dei poteri forti economici e speculativi della città, e uno sfigato di sinistra che cerca di sembrare un po’ leghista per raccattare voti); larga vittoria delle formazioni populiste-xenofobe (stile Lega e La Destra). E il dramma è che se anche volessi andare a votare per remare contro questa tendenza mi ritroverei nomi di gente che non conosco, che non si sa che cazzo abbiano fatto né che competenze abbiano, in liste microscopiche di sinistra senza senso e in liste macroscopiche che si definiscono di sinistra ma che non hanno manifestato una visione di società alternativo a quello propagandato dal Governo manco di striscio. 

Che tristezza. L’unico tema politico attuale sono le scopate del Premier. E magari almeno dettassero scandalo. Manco quello. Questo cazzo di Paese  mi deprime vieppiù.

 

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La Mayday raccontata da noi!

27 Maggio 2009 Commenti chiusi

 

 

 

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