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Archivio per la categoria ‘storia e memoria’

Police partout justice null part

9 Maggio 2009 2 commenti

 

Ci ho messo qualche giorno a metabolizzare la cosa, a digerire la rabbia che mi risale nella gola più degli antibiotici. Giovedì 7 maggio la Corte di Cassazione si è pronunciata sul processo per i fatti del San Paolo, confermando la sentenza di appello. Se non sapete di cosa sto parlando adesso faccio un piccolo riassunto senza pretese di esaustività. E’ una storia di merda, senza se e senza ma, e si conclude dimostrando una cosa sola: che la giustizia è al servizio del potere e del più forte, che per i deboli e per chi si oppone a un sistema non c’è altro che repressione e violenza. E che non si capisce perché si dovrebbero ripagare braccia e menti del potere con altro che questa stessa moneta.

Immaginate una sera di primavera. Dipingetevi in riva a un canale di acque placide, circondati da molta gente ma non troppa. Raffiguratevi l’aria leggera dei primi mesi caldi, la luce che scompare sempre più tardi oltre l’orizzonte, il pensiero che si ricomincia a vivere per strada con meno fatica. Prendete un martello e frantumate lo specchio in cui avete rappresentato questa scena: quel colpo sono le coltellate che un vostro amico, un vostro compagno si prende in una vietta laterale, insieme ad altre due persone, a pochi passi da un commissariato di polizia e da un noto centro sociale. Gli aggressori sono un nazista e i suoi due figli, con un cane chiamato Rommel, tanto per capirci. La vittima è Davide Cesare, detto Dax, che muore praticamente sul colpo. Delle altre due persone una rimane gravemente ferita. 

Ora immaginatevi a correre a perdifiato verso l’ospedale dove hanno portato il corpo del vostro amico e gli altri. Immaginate di non sapere nulla di come sta, impazziti alla ricerca di una buona notizia qualsiasi. Arrivate davanti al pronto soccorso del San Paolo e ci trovate la polizia, entrate, chiedete, nessuno sa nulla, nessuno vi risponde. Poi esce un carabiniere in borghese e ironizza sul fatto che il vostro amico è morto. Altri agenti intanto stanno interrogando in malo modo le altre persone ferite come se fosse colpa loro aver preso una coltellata. Percepite la rabbia che monta? Percepite la sensazione di impotenza?

Ecco, ora immaginate che le forze dell’ordine anziché defilarsi per evitare che gli animi si scaldino continuino a sfottere e che parta qualche spintone. Immaginate che arrivi un reparto della celere e che scenda dal furgone già in assetto antisommossa e cominci a caricare, fino dentro le corsie del pronto soccorso. Immaginate gente messa a terra, ammanettata e picchiata a manganellate, e carabinieri girare intorno all’edificio con mazze da baseball tirate fuori dai cofani delle auto di servizio. Siete ancora lì? Guardate una ragazza con un braccio rotto chiusa in auto e minacciata, poi lasciata a duecento metri di distanza con la minaccia di non farsi più vedere, inseguimenti, grida, insulti, pestaggi. E immaginate che qualcuno abbia filmato tutto.

Poi arriva il processo. Contro quei poliziotti e quei carabinieri che si sono comportati da animali sanguinari? Che hanno deriso la morte di un vostro amico? Contro i tre nazisti che hanno ammazzato una persona? No. I tre nazisti fanno un processo a parte e il maggiorenne prende poco più di dieci anni di carcere, mentre il padre che lo accompagnava praticamente nulla. Se c’eravate voi di fianco a un’omicida a incitarlo vi davano sicuro 20 anni per concorso morale. Ma a loro no. Ma non è questo il processo: il processo San Paolo vede come imputati quattro dei ragazzi davanti all’ospedale tra cui uno dei feriti e il ragazzo ammanettato a terra e pestato a manganellate da un carabiniere e un poliziotto coraggiosi. Loro sono accusati di resistenza, perché ovviamente da terra avranno cercato di evitare i colpi per esempio. A processo ci sono anche due carabinieri e due poliziotti, per lesioni e abuso d’ufficio. 

Il processo è a senso unico: giudice e pm vogliono dimostrare la famosa tesi del tutti colpevoli della violenza, nessuno responsabile. Gli avvocati delle forze dell’ordine che sono bravi ragazzi che onorano la divisa e che magari hanno sbagliato ma senza malafede, a massacrare di botte gente che voleva solo sapere cosa era successo a un loro amico accoltellato. Secondo voi com’è finita? E’ finita che le forze dell’ordine nonostante i video, nonostante tutti sappiano cosa è successo, sono state praticamente tutte assolte. Due dei compagni presenti (tra cui quello colpevole di aver tentato di schivare i colpi mentre era ammanettato e pestato a terra come immortalato in un video) sono stati condannati a un anno e sei mesi e a pagare i danni al pronto soccorso (fatti dalle forze dell’ordine) per 120 mila euro. 

Poi chiedetevi perché quando vi ritrovate coinvolti in una situazione di tensione con di mezzo la polizia non dovreste cercare di spaccare quanto più cose e persone possibili. Tanto pagherete comunque. Essere ragionevoli non conviene in un mondo in cui ha ragione solo il più feroce e il più figlio di puttana. 

I dati che riporto potrebbero non essere tutti esatti. I server di autistici sono incasinati e la mia memoria vacilla, ma la sostanza c’è tutta: non sarà un mese in più o in meno di condanna a cambiare l’aberrazione che rappresenta. E quanto dimostra il sistema in cui viviamo e come ognuno dovrebbe regolarsi. 

Il giorno dopo questa sentenza ho portato i pischelli della mia prima media al Museo di Storia Naturale. Arrivato ai Giardini di Porta Venezia ho incrociato le macchine della Digos che solerti sorvegliavano innocui rifugiati sdraiati sull’erba. Mi hanno salutato come una vecchia conoscenza, mentre li guardavo in cagnesco e bestemmiavo sottovoce. Sono tornato a scuola verso le 13.30 e ho incrociato i bambini delle elementari che tornavano da una bellissima gita alla caserma del reparto mobile (di via Cagni penso) di milano, gente meritoria, che ha partecipato anche se un po’ defilata alle cariche su via Tolemaide e ai fatti di piazza Alimonda (se qualcuno non lo sapesse la piazza dove è morto Carlo Giuliani). Ho visto i bambini scendere, con i poliziotti in divisa antisommossa che gli davano il cinque e facevano grandi sorrisi, ognuno con il suo cappellino della Polizia Italiana. E’ un quartiere difficile quello della mia scuola, e qualcuno pensa che questa sia "educazione alla legalità", che serva a far diventare persone migliore i ragazzi destinati a una vita sospesa tra violenza e criminalità. Io penso di no. E non per ideologia, ma perché penso che uno non debba diventare una persona capace di distinguere il bene dal male solo perché ha come modello coloro che esistono solo per punire. Penso che un ragazzino dovrebbe capire come si fa a vivere insieme agli altri e non idealizzare il ruolo dei cani da guardia. 

Mi sono fermato e mi sono chiesto. Quei sorridenti e affabili celerini avranno avuto il coraggio di raccontare a quei bambini in gita del processo San Paolo, dei loro errori della violenza in cui si tuffano come un pesce nell’acqua? Non penso. Perché anche gli sbirri se ne vergognano ed avere il coraggio non è una dote di cui abbondano nella media: intendiamoci, non è un problema delle forze dell’ordine. La pavidità è un problema dell’uomo. Ma per insegnare ai ragazzi a diventare degli uomini e delle donne adulti forse dovremmo essere capaci di trasmettere cose diverse che non l’autorità e la necessità di vivere sorvegliati e imprigionati, repressi e controllati: coraggio, onestà, responsabilità. Basterebbe questo. Nessuna delle qualità che quei celerini potrà mai dire a cuor leggero di avere a meno di non dimenticare troppe vicende della storia recente del nostro paese. 

Mai come oggi mi echeggia in testa un famoso slogan del maggio 68 francese: Police par tout, Justice null part. La giustizia quella vera, non quella dei tribunali ma la virtù a cui si appellano quando emettono le loro sentenze, è antitetica alla violenza e al sopruso che la polizia e le forze dell’ordine rappresentano nel loro agire quotidiano. E non vedo all’orizzonte un evento che cambi questo stato di cose e che mitighi il mio odio e la mia rabbia.

 

25 aprile

24 Aprile 2009 5 commenti

 

Per me le feste nazionali laiche sono le uniche che abbia un senso celebrare. Non ho mai sopportato le feste religiose, il loro corredo di moralismo e di ipocrisia, mentre i momenti corali di un popolo e della sua storia mi emozionano e mi riportano alla mente ricordi e desideri di aver vissuto altre epoche e altri momenti storici. Da sempre per me il 25 aprile è decisamente la festa più importante, nonostante la rilevanza che nella mia personale storia politica ha avuto il primo maggio e quella che dovrebbe avere agli occhi della gente l’8 marzo. Ogni volta che si avvicina vado a rileggermi pezzi della storia di questo paese e non solo, riassaporo le parole di vecchi e combattenti, cercando di ritrovare quell’eroismo semplice e senza fronzoli, disperato per alcuni versi, anche intorno a me e dentro le cose che faccio. Devo ammettere che è molto difficile di questi tempi, assediati dall’indifferenza e dalla scarsità di intelligenza, circondati dai luoghi comuni che pensano che ogni decisione valga quanto un’altra, che tutto sia relativo sempre e comunque. Non mi stancherò mai di ripetermi e di ripetere alle persone con cui ho a che fare tutti i giorni, sia che abbiano 10 anni o che ne abbiano 70 che non è tutto uguale, che esistono cose giuste e cose sbagliate, per le quali valga la pena combattere o che valga la pena disprezzare. Non è tutto uguale, non basta avere la propria opinione per essere un uomo o una donna: la libertà che tanto riempie la bocca di tutti è la possibilità di scegliere che cosa sia giusto e di combattere per esso, non la generica affermazione che ognuno può fare quello che vuole, basta che i fatti gli diano ragione. Viviamo in tempi poveri di spirito e di chances, ma non possiamo che crucciare noi stessi per quello che vediamo intorno a noi. Forse un tempo, un tempo di rivolta e di dolore, le cose più minute avevano un significato più importante, ed era più facile distinguere che cosa volesse dire giusto e sbagliato. 

Chi mi vuole incontrare, domani mi troverà la mattina nel giro delle lapidi dei partigiani dell’Isola (ormai non ce n’è più neanche uno, ma il giro si fa lo stesso con le autoradio a manetta con  i canti partigiani, partenza ore 8.30 in via Sassetti), il pomeriggio in corteo (che io sappia partenza Porta Venezia ore 15.00), e la sera  a Partigiani in Ogni Quartiere, un’esperienza che forse rappresenta una delle poche possibilità che abbiamo di ricominciare a costruire una coscienza diversa in questo Paese. Se oggi dovessi consigliare a qualcuno che inizia a fare politica dove provare a fare qualcosa, gli direi di iscriversi all’ANPI e usare lo scudo di quella enorme organizzazione nazionale ancora rispettata (forse l’unica in una terra di insulti e di volgarità come quella del costume culturale e politico italiani) per ricostruire da zero i valori che la Liberazione e la Resistenza incarnano e hanno incarnato. A domani. 

Fascisti carogne, tornate nelle fogne

3 Aprile 2009 21 commenti

 

Devo dire la verità, a me gli slogan old-style, per quanto riguarda le salde (?) basi della democrazia italiana (?), sono quelli che mi suonano meglio. D’altronde che altro si può voler dire a un branco di dementi privi di cervello che nel 2009 vanno ancora in giro a sostenere idee che dovrebbero essere scomparse da tempo dall’albo della storia ufficiale? Bisogna parlare nella loro lingua, quella del vituperio e della violenza, perché se ragionassero non sarebbero fascisti. Purtroppo l’Italia moderna degli anni 00 è molto prona al linguaggio e ai contenuti xenofobi e ignoranti che ci trasformano in una caricatura neanche troppo divertente del ventennio. E responsabili ne siamo tutti, non solo quei quattro mentecatti con il braccio alzato, ma tutti noi che non riusciamo a spiegare ai nostri studenti, ai nostri figli, ai nostri amici e parenti perché alcune cose anche se sembrano delle barzellette fuori dal tempo sono tuttora molto pericolose. Così perdiamo eoni di tempo a cercare di giustificare cose sciocche e che non necessiterebbero neanche di due parole, e non riusciamo a far capire a ragazzini di 8 anni che uno è cretino indipendentemente dal colore della pelle, e che le cose non si risolvono sempre a schiaffi, e che essere forti con i deboli e deboli con i forti non è una qualità chiamata furbizia ma un difetto chiamato viltà. 

Così gente come Roberto Fiore può ancora circolare impunito – così come il suo socio di un tempo Riccardo De Corato – e anzi presentarsi ed essere eletto. Lui è l’ultimo di una schiera di gente immonda che può riciclarsi affidandosi alla voglia della gente di dimenticare anziché combattere. E puntuale come un orologio quando si avvicinano le elezioni, insieme a topi di fogna di tutta europa, si presenta a Milano, pensando che nessuno se ne accorga. E’ anche vero che è stupefacente come qualcuno finalmente inizi a pensare che certa gente non dovrebbe poter circolare in nessuna città del mondo (e non solo), ma forse se questo fosse avvenuto tempo addietro queste merde non ce le ritroveremmo ancora tra le palle. Scusate il francese. 

Questa domenica i pariti nazi-fascisti xenofobi di tutta europa si sono dati appuntamenti a Milano. Tramontata la mossa a sorpresa che li avrebbe visti a Palazzo delle Stelline (uno dei luoghi più paludati di Milano, un po’ come se io facessi un convegno di teologia a Sant’Ambrogio), hanno deciso di ritrovarsi in uno degli hotel di amici e amichetti di cui non mancano dalle parti della Capitale Morale d’Italia, i cui abitanti  un tempo avrebbero bruciato palazzo e abitazione del manager dell’hotel, ma che ora si limitano a stigmatizzarlo  con due mormorii. Ritrovo quindi all’Hotel Cavalieri. Siccome non basta, hanno pensato bene di fare anche due presidi, forti – come al solito altrimenti non avrebbero mosso un dito – dello spalleggiamento di British National Party e altri ceffi che non disdegnano l’uso delle armi e della violenza abbastanza gratuitamente: il primo alle 11 di mattina davanti a Sant’Ambrogio, il secondo vicino a Piazza Affari (non si capisce bene a fare cosa). Nessuno sa se faranno veramente questi ritrovi o se sono mere provocazioni, fatto sta che una volta di più le autorità cittadine non ritengono che questi loschi figuri vadano fermati (se non altro per evitare problemi di ordine pubblico). Uno a volte si ritrova ad avere nostalgia dei wanna-be golpisti turchi che piuttosto di avere un governo religioso erano disposti al colpo di stato: io piuttosto che vedere in giro questi topi di fogna, preferirei vedere la città militarizzata. A mali estremi estremi rimedi: certo il sogno di vedere i vecchietti dell’ANPI sparargli con i fucili dalle finestre mi sembra un po’ troppo ambizioso, e Milano è sempre stata una città un po’ compiacente e che evita il confronto diretto (purtroppo). 

Meno male che almeno questa volta (le altre volte guarda caso durante un governo di sinistra) CGIL, ANPI, e altri hanno deciso di agire con una certa determinazione sui centri di potere della città per chiedere di vietare il raduno, ma non si spingeranno più in là di questo (un reclamo verbale "vibrante") e di un presidio davanti a Palazzo Marino, a cui invito comunque chiunque può ad andare. Certo è che la speranza che qualcuno decida di agire in maniera più concreta e scaltra come è successo prima dell’inaugurazione di Cuore Nero rapprenta il mio miglior auspicio. E sono sicuro che Milano non è ancora così povera di coraggio antifascista. Lo dico prima così non si potrà dire che nessuno lo sapeva: far circolare certa gente porta guai. Trincerare un presunto diritto ad esprimere idee e azioni fasciste dietro la libertà di espressione è un sofismo che con chi ha un minimo di senso e sensibilità storiche non attacca. Questa gentaglia desiste solo quando la bocca gliela si tappa a stivalate. Se così non fosse non sarebbero fascisti, ma persone civili di idee differenti dalla mia: i nostri nonni lo sapevano meglio di noi e forse toccherà pure a noi impararlo a nostre spese.

PS: non si tollererà alcuna provocazione nei commenti di questo post.

Bergamo: i fasci armati sfilano, i compagni disarmati vengono caricati

2 Marzo 2009 13 commenti

 

Sabato 28 marzo, mentre per le vie di Milano qualche migliaio di persone sfilavano per dimostrare che Cox18 non deve essere risgomberato da nessuno e che l’amministrazione milanese ha fatto di tutto per trasformare in peggio la città, a Bergamo Forza Nuova inaugurava la sua prima sede orobica, con tanto di presenza onoraria del Camerata Roberto Fiore (per chi non se lo ricordasse uno dei protagonisti del terrorismo nero degli anni settanta, un po’ come se a inaugurare un centro sociale di andasse Moretti, chissà come la prenderebbero i giornalai).

La giornata è andata come al solito: i fasci sono liberi di girare per una città inquadrati e armati, mentre i compagni per essere presenti dietro uno striscione vengono caricati e inseguiti per tutta la città. Niente di nuovo, ma finalmente un video che hanno pubblicato i compagni del Paci Paciana, sfronda la vicenda delle questioni spettacolari della carica, e sottolinea come da parte di alcuni settori di chi gestisce l’ordine pubblico in italia ci sia un occhio fin troppo benevolo a chi ammira squadrismi e semina odio. Complimenti, come al solito.

 

Un giorno per la Palestina

3 Gennaio 2009 6 commenti

 

E’ da quando è iniziata l’offensiva "difensiva" (cit. la Presidenza dell’Unione Europea di marca ceca o forse cieca) israeliana a Gaza mi sono fatto molte domande, reprimendo la furia che mi sale dallo stomaco ogni volta che penso alle migliaia di persone prigioniere e bombardate con il placet di tutto il mondo. Oggi ho avuto l’occasione di dedicare un giorno a tutte le persone che ho incontrato nei territori, a Khaled, a Saif, a Bilal, a Lubna, a tutto il campo profughi di Deheishe, a Meri, che sicuramente ora è sotto le bombe. E’ poco, quasi nulla, rispetto a quello che sarebbe necessario fare, a quello che sarebbe giusto fare, ma è il mio piccolo sasso contro un tank. 

Oggi pomeriggio qualche migliaio di persone ha percorso le strade fredde di Milano, tanti arabi, tanti palestini, bambini, donne, uomini, vecchi, che gridavano che Israele è uno Stato di assassini. Ovviamente sui media italiani si parla solo della fottuta bandiera israeliana data alle fiamme, e anche Moni Ovadia, che stimo per molte altre cose, ha perso l’occasione di stare zitto mentre il suo popolo lo Stato di Israele che rappresenta tutto il suo popolo agli occhi del mondo si comporta come e peggio dei carnefici che ha conosciuto tanto da vicino  durante la Seconda Guerra Mondiale. Oggi pomeriggio Milano era fredda, ma mi è sembrata un po’ più umana di quanto abbia potuto notare negli ultimi due anni. Per alcuni brevi attimi ho risentito quel piccolo inestinguibile calore che sale dalle viscere quando stai partecipando a qualcosa di giusto, in un senso superiore e più alto di quello che potresti intendere tutti i giorni. 

La manifestazione è finita in piazza Duomo, in mezzo allo shopping, ai pischelli ignavi e incuriositi, alle signore impellicciate ignare e disprezzabili. Le stesse signore impellicciate che nel giro di un paio d’ore potevi vedere aggirarsi all’Anteo, a vedere Il Giardino dei Limoni, un film israeliano, semplice e senza sofisticazioni, che cerca di raccontare con equilibrio e con immediatezza tutta la tragedia di quello che avviene in Palestina tutti i giorni: la violenza insensata, l’oppressione, la rabbia che viene alimentata e covata, le contraddizioni all’interno del popolo palestinese, i dubbi degli israeliani di buona volontà e il cinismo di quelli di cattiva volontà. Il filme è molto bello, e vedere tutta quella gente che nel pomeriggio per strada non c’era, o era chiuso in qualche negozio per i saldi, è veramente uno spreco di bile. Il mio commento a fine film è stato: "una bella vacanza studio a Gaza di un mese a calci in culo, poi vediamo se fanno ancora i commenti da intellettuale di sto cazzo dell’ultima ora dopo questo film, loro e le loro pelliccie del cazzo". 

Poi torno a casa, guardo il tg3 (non il tg5 o il tg1 o il tg4) e si parla solo dei razzi "criminali" di hamas, mentre soldati israeliani entrano in un territorio già devastato con carri armati, artiglieria e supporto aereo. Altro che Davide e Golia. L’unica briciola di speranza mi viene quando giro su BBC World e assisto a una doppia intervista con il portavoce del governo israeliano dall’altro, tutto frasi fatte e diplomazia, e Mustafà Barghouti dall’altra, tutto schiettezza e parole semplici ma dirette. In Italia una intervista in cui entrambi i punti di vista di questa guerra siano esposti così limpidamente non la vedremo mai, e questo la dice lunga. Come non vedremo mai l’ex sindaco della nostra Capitale (Ken "il Rosso" Livingstone per essere chiari) dire che Israele sta commettendo un crimine di guerra. Siamo un paese arretrato, stupido e inerte di fronte a ogni cosa. E’ stato così anche nel nostro più buio passato, della cui caduta (quasi) tutti adesso si attribuiscono il merito. 

Il giorno che l’occupazione israeliana verrà denunciata da tutti nel mondo, forse ci sarà una chance che i Palestinesi, cocciuti, orgogliosi e con l’unico tesoro della loro dignità, non si facciano ammazzare fino all’ultimo. Palestina Libera. 

 

Le Benevole

11 Gennaio 2008 Commenti chiusi

Riposto qui un ottimo articolo di Wu Ming 1 a commento del libro Le Benevole di Jonathan Littel. Lo condivido molto e il libro è ottimo, anche se forse tirato un po’ per le lunghe. Non è di facile lettura e su alcuni passaggi mi pare che strafaccia per la caratterizzazione del personaggio, ma nulla è perfetto. Consigliato a tutti.

 
NESSUNO È IMMUNE DAL DIVENTARE NAZISTA

Le benevole, Supercoralli Einaudi, 2007Impressioni dopo la lettura del romanzo Le benevole di Jonathan Littell

di Wu Ming 1
da "L’Unità" del 30 settembre 2007

Premio Goncourt 2006. Monumentale opera prima scritta in francese da
uno statunitense. Caso editoriale in diversi paesi. Oggetto di stupore,
shock e ammirazione. Alzate di polveroni a destra e a manca da parte di
storici e critici, di ebrei e gentili. Perché?
Perché è chiaro fin da subito (dal lungo prologo intitolato "Toccata") che Le benevole di Jonathan Littell vuole imporsi come il romanzo supremo e definitivo su Germania nazista e sterminio degli ebrei.
Di questa ambizione, questa hybris
che fa scavalcare ogni argine e sfidare ogni precedente narrazione
sull’argomento, ho un’esperienza diretta di molti giorni. Leggere Le benevole è ritrovarsi testimoni, percossi e attoniti, di un tracimare:
goccia dopo goccia, rivolo dopo rivolo, il fiume di dati, episodi,
conversazioni, ricordi, sogni e citazioni si compone, si allarga, si
alza, si gonfia finché non esonda. Arriviamo sul fronte russo sospinti
da un’alluvione, immane ondata che spazza via interi mondi e
innumerevoli vite, finché non impatta con la resistenza di Stalingrado,
inattesa, inspiegabile. Le giornate di Stalingrado scavano un momento
di "vuoto" nel romanzo e nella vita del protagonista, Maximilien Aue,
ufficiale SS. Il vuoto si riempie di follia, follia per una volta non
sistemica né organizzata, follia non burocratica bensì singolare e
selvaggia. L’accerchiamento sovietico apre un crepaccio nel tempo e la
psiche devastata di Aue produce visioni e fantasticherie. I passaggi
sono fluidi, non più scanditi da cifre, date e acronimi, tutto è bianco
e non si sentono rumori… E’ a questo punto che l’onda s’incurva e
volge indietro, con violenza moltiplicata. L’Armata Rossa e il Generale
Inverno annichiliscono la Sesta Armata. Aue si salva, lo riportano a
Berlino.

Una volta respinta, la piena – che, ripeto, è una piena di informazione
– copre altre direzioni, invade altri campi. Le acque brune e scure
trasportano nuovi dati, episodi, conversazioni, reminiscenze di incesti
e sodomie, incubi e rimandi ad altre opere (drammi, romanzi e saggi,
film e documentari). Personaggio, autore e libro s’impantanano
nell’asfissiante burocrazia dell’universo concentrazionario, della Endlösung, dell’Olocausto. Che è ormai soprattutto amministrazione: se le spaventose Aktionen,
i massacri di ebrei nell’Ucraina occupata, avevano smosso la coscienza
del protagonista sferzandolo con dubbi e rimorsi, la "soluzione finale"
lo trova desensibilizzato, apaticamente dedito al compito: "adesso
predominava in me una grande indifferenza, non tetra, ma lieve e
precisa". Siamo a poco meno di 2/3 del romanzo: Auschwitz compare solo
adesso, ecco Höss, ecco Mengele… La piena diventa un lago artificiale
di acqua densa, appiccicosa, le minuzie galleggiano e si attaccano alla
pelle. "E poi, se dovessi ancora raccontare in dettaglio tutto il resto
dell’anno 1944, un po’ come ho fatto fin qui, non la finirei più.
Vedete, penso anche a voi, non soltanto a me, un pochino perlomeno,
certo ci sono dei limiti, se mi sobbarco tutte queste fatiche non è per
farvi piacere…" E avanti così, poi la catastrofe, la fuga, la
mimetizzazione borghese.

Questa non è semplice audacia da esordiente: l’impressione è che l’autore sia stato travolto
dai propri studi e dal progetto narrativo, e ne sia rimasto
prigioniero. Littell si è recluso per anni nel mondo che andava
evocando, la Germania del Terzo Reich vista come un unico, grande campo
di concentramento che imprigionava anche i carnefici e i loro complici
(immagine proposta anni fa da Bruno Bettelheim). Siccome "è libero chi è vassallo" (Frei sein ist Knecht sein), ne è derivato un grande arbitrio del raccontare: Littell vuole dire tutto, mostrarci tutto, descrivere ogni meccanismo, indugiare su ogni delitto.
Le benevole è un libro iperrealistico, sembrano davvero le
memorie per troppo tempo procrastinate di un ex-criminale di guerra.
Nel numero di pagine (956 nell’edizione italiana, per giunta fittissime
e quasi prive di a capo), nell’esorbitante numero di divagazioni ed
eccedenze, nell’attenzione pedante per i minimi dettagli, si manifesta
la tipica "incontinenza" dei memoriali di certi anziani.

Le benevole sembra anche la versione narrativa (e capovolta,
poiché dal punto di vista degli assassini) della colossale impresa
storiografica di Saul Friedländer, i due volumi de La Germania nazista e gli ebrei. Friedländer aggiorna le ricerche di Raul Hillberg
e si dedica alla ricostruzione più vasta e minuziosa della "soluzione
finale", attingendo a ogni sorta di fonte, procedendo per accumulo di
migliaia di microstorie, che collega e incastra fino a indurre il
quadro generale. Tuttavia, la narrazione di Friedländer è
moltitudinaria, sono milioni di persone a reggerne il peso e il dolore.
La storia più difficile da raccontare e da ascoltare batte sulle tempie
mentre leggi, e solo un impianto corale può darle fondamenta abbastanza
solide. Le benevole ha invece un solo protagonista, unico
"filtro", un "io" dai piedi d’argilla che sotto il peso della tragedia
sbanda, si incurva, sovente cade, perde consistenza e coerenza. Che
compito ingrato, il soliloquio dell’inenarrabile.

La domanda che si pone il lettore è: perché Aue – nonostante il
disgusto, i conati di vomito, la diarrea psicosomatica che lo
perseguita per quasi mezzo libro – fa quello che fa?
Perché a suo modo è un illuminista, sembra dirci Littell. E’ un giovane
intellettuale dalle buone, anzi ottime, letture, ed è consapevole della
“dialettica negativa” dell’illuminismo, tanto da volere vederla
compiersi.
[Qui sorvolerò sul fatto che il cosiddetto "illuminismo" liquidato da
Adorno e Horkheimer e poi da frotte di pensatori postmoderni non
corrisponde in alcun modo all’illuminismo storicamente, concretamente
esistito. Lo spiega molto bene Robert Darnton nel suo L’età dell’informazione, Adelphi 2007.]
In parole povere: Aue vuole scoprire fin dove potrà spingersi prima di
smettere di provare qualcosa. Vedere se i mille pretesti, le
razionalizzazioni di comodo, i falsi sillogismi riusciranno a prevalere
sulla nausea, la pietà e i sensi di colpa. Man mano che ciò accade, si
trova a rimpiangere
l’orrore e la pena che provava al principio, "quello choc iniziale,
quella sensazione di una frattura, di uno squassarsi infinito di tutto
il mio essere". Aue è la cavia del proprio esperimento sui limiti
dell’umano. Insieme a noi, "fratelli" chiamati in causa fin
dall’incipit, scoprirà che l’umano non ha limiti, che "disumano" e
"inumano" sono epiteti ipocriti. E’ questo ad avere turbato molti
lettori.

La consueta trappola dell’io narrante: io cammino con Aue, lo seguo
nell’esperimento, ragiono con lui, in un certo senso sono lui, come lui
è me e chiunque di noi: "Gli uomini comuni di cui è composto lo Stato –
soprattutto in periodi di instabilità -, ecco il vero pericolo. Il vero
pericolo per l’uomo sono io, siete voi. E se non ne siete convinti,
inutile continuare a leggere oltre. Non capirete niente e vi
arrabbierete, senza alcun vantaggio né per voi né per me."

Finché Aue soffre per il dolore che infligge, io soffro insieme a lui, ho gli stessi conati di vomito. La descrizione delle Aktionen
in Ucraina è quasi insostenibile: chi è padre o madre vedrà i propri
figli in ogni bambino fucilato e gettato nudo sul cumulo di morti.
Queste pagine fanno amare la vita disperatamente, ti ci fanno
aggrappare con tutte le forze, perché non c’è nulla di "edificante" nel
modo in cui le vittime vanno a morire, sono decine e decine di pagine
di macelleria a cielo aperto, pagine brutte, perché è la morte
violenta a essere brutta: non c’è tempo per ultime frasi che tocchino
il cuore; non c’è spazio per pose plastiche nella calca della fossa
comune; la morte subita in mucchio è ancor più misera e priva di
redenzione.

Gradualmente, però, la quantità mi prevarica, fa scattare le mie
difese, distanzia l’esperienza e annulla la compassione. Un morto è
omicidio, un milione di morti è statistica, ipse dixit. Di
massacro in massacro, mi desensibilizzo insieme ad Aue, conseguo il suo
medesimo distacco. Il romanzo coglie nel segno (se questo era il segno
a cui mirava) e arriva a dimostrare che chiunque può abituarsi
all’orrore. Al limite la pagherà con disturbi psicosomatici, cacarella,
bruxismo… Poca roba. Del resto, non muoiono di fame e stenti ogni
giorno migliaia di bambini senza che io ci perda il sonno? Il fatto che
io non sia lì a guardarli morire, bensì distante migliaia di miglia, mi
rende poi tanto diverso da Maximilien Aue, mi rende forse più innocente
di lui? Aue è mio fratello, è contro me stesso che devo vigilare,
nessuno di noi è immune dal diventare "nazista".

Littell, per dirla in una delle sue lingue native, has got a point,
eppure il suo successo è un fallimento, perché mi anestetizza, toglie
calore alle dita che reggono il libro. L’inflazione della valuta-morte
mi fa davvero sembrare uno sterminio poco più di una statistica, e il
rischio è che diventiamo più cinici anziché più vigili nei confronti di
noi stessi. Eterogenesi dei fini. Per metterla giù in modo chiaro:
finiamo la lettura più stronzi di quando l’avevamo iniziata.

Detto questo, è un romanzo importante, epocale, che non si può né si
deve ignorare, che va letto e affrontato. E’ anche un romanzo impervio,
con centinaia di nomi e cognomi che non è possibile tenere a mente,
parole tedesche che mettono soggezione, scartoffie infilate nel flusso
senza alcuna mediazione. Sovente Littell va oltre il nozionismo e si
produce in tirate piene di riferimenti criptici, come se si stesse
rivolgendo – e forse è davvero così – alla corporazione degli storici
anziché ai lettori comuni.

Durante un viaggio a Parigi, Aue si imbatte in un libro di Maurice Blanchot, Passi falsi, il quale contiene un saggio su Moby Dick,
"libro impossibile" che "si rivela solo attraverso l’interrogativo che
pone". Fin troppo scoperta, la dichiarazione di poetica: Littell è
melvilliano dallo sfintere al nervo ottico. E se Melville – come fa notare Henry Jenkins – scriveva così perché era un fan, un appassionato della navigazione che voleva sviscerarne ogni aspetto, allora Littell di cosa è fan? Littell è un fan
del Novecento, inteso come "secolo di ferro e fuoco". Coglierne
l’essenza è stato per anni la sua ossessione, la balena bruna a cui
dare la caccia.

Ma non è forse l’ossessione di noi tutti? Quel mondo è sempre con
noi: la seconda guerra mondiale è l’evento storico più raccontato e
rappresentato di tutti i tempi, e il Führer ci tiene compagnia
continuando a sbucare come monito, icona pop, pietra di paragone.
Qualunque sterminio e genocidio è implicitamente o esplicitamente
valutato in confronto alla Shoah, a cui ci riferiamo per metonimia:
"Auschwitz". Qualunque nemico, anche occasionale, viene paragonato
all’imbianchino. L’avvocato americano Mike Godwin ha coniato una "regola" (Godwin’s Law)
secondo cui "più una discussione on line si protrae nel tempo, più
aumentano le probabilità che uno dei partecipanti venga paragonato a
Hitler."

Le benevole non sarà il romanzo definitivo su nazismo e
dintorni. Continueremo a raccontare quella storia, perché non possiamo
farne a meno. Ci viviamo ancora dentro e chissà quando ne usciremo. Il
nazismo ha perso eppure ha vinto, condicio sine qua non del nostro immaginario.

– Jonathan Littell, Le benevole, traduzione di Margherita Botto, Supercoralli Einaudi, Torino 2007, pp. 956, € 24

 

Strade e storielle sociali a genova

13 Dicembre 2007 Commenti chiusi

 

Segnalo, molto rapidamente che non ho moltissimo tempo, un bel lavoro che il  mio socio sta portando a termine sul suo blog, mentre siamo in sospeso sul resto dei nostro lavori narrativo-editoriali: prendi le vie famose per il g8, conoscine la storia, e raccontala a chi non la sa, con il giusto tocco di ironia che merita la realtà abbruttita che ci circonda fin troppo spesso. I due post [ uno e due ] sono molto divertenti, e forse potremmo impegnarci in due per farne qualcosa di più che una boutade.

I progetti di blackswift (molti) latitano nell’attesa di avere tempo e voglia di scrivere e leggere, cosa che sembra venire difficile a entrambi (me e il mio socio armeno), ma non temete, non cesseremo di stupirvi. Le strade, come già si può intuire dall’approccio di monocromatica, non sono neutre: i luoghi nascondono storie, soprattutto storie che si intrecciano con la cronologia ufficiale delle epoche dando uno spessore diverso a fatti che messi in sequenza riducono drasticamente il senso del processo storico. Forse fermarsi ogni tanto a raccontare come si vivono i luoghi delle proprie città basterebbe a tenere viva la loro anima.

 

Genova: il processo ai 25 è finito

7 Dicembre 2007 1 commento

 

Oggi il primo processo sui fatti del g8 2001 a genova è praticamente arrivato alla sua conclusione. Neanche a dirlo, il primo che vedrà una sentenza (mancano ancora l’udienza del 14 dicembre per repliche e controrepliche e l’udienza in cui si leggerà la sentenza che sarà la settimana successiva) è il processo contro 25 manifestanti accusati di devastazione e saccheggio. Ci sono volute 150 udienze circa, quasi 200 testimoni (che poi l’accusa non ha quasi usato), migliaia di ore di lavoro: il processo si chiude sulle parole di alcuni imputati e sul ghigno del pm Andrea Canciani mentre i nostri compagni parlano con il cuore in mano della propria vita. Come ultimo sgarro il pm ha voluto consegnare la memoria di accusa non all’inizio durante la sua discussione, ma alla fine dopo averla corretta per bene durante le arringhe dei difensori: un’ultima scorrettezza formale per avere l’ultima parola, o l’ultimo sorriso di sbieco. Quando ho cominciato a lavorare su questo processo nel 2004 pensavo che sarebbe durato una vita, invece sono passati tre anni e vorrei che ne mancassero almeno tanti quanti ne servono per la prescrizione. Qualunque sarà la decisione del tribunale, i pm avranno la soddisfazione di poter dire di aver dato vita a un processo storico e storicamente temo ingiusto. Sotto potete leggere le dichiarazioni di VV, uno degli imputati, che mi paiono molto belle e condivisibili. Avrei voluto che si facessero all’inizio del processo, sarebbe stato tutto molto più politico e intenso, anche se non so se avrebbe cambiato qualcosa. 

Innanzitutto vorrei fare una breve premessa: in quanto anarchico,
ritengo i concetti borghesi di colpevolezza o innocenza totalmente
privi di significato.
La decisione di voler dibattere in un processo di “azioni criminose”
che si vogliono imputare a me e ad altre persone, e soprattutto
l’esprimere qui le idee che caratterizzano il mio modo di essere e di
percepire le cose, potrebbe essere oggetto di valutazioni sbagliate: è
necessario quindi precisare da parte mia che lo spirito con cui
rilascio questa dichiarazione, dopo anni di spettacolarizzazione
mediatica dei fatti di cui si dibatte qui dentro,è quello in cui anche
la voce di qualche imputato si faccia sentire. Con questo breve
intervento comunque non cerco né scappatoie né giustificazioni: per me
sarebbe assurdo anche il fatto che la corte decida che sia legittimo
rivoltarsi non spetta ad essa.

Rileggere dei fatti accaduti sotto una certa ottica, con un certo
tipo di linguaggio (quelli della burocrazia dei tribunali per intenderci) non equivale solo a considerarli parzialmente, ma significa
distorcerne la portata, la loro collocazione storica, sociale e
politica, significa stravolgerli completamente da tutto il contesto in
cui si sono verificati.

Quello che mi si contesta in questo processo, il reato di
devastazione e saccheggio, implica secondo il linguaggio del codice penale che “una pluralità di persone si impossessa indiscriminatamente
di una quantità considerevole di oggetti per portare la devastazione”:
per questo tipo di reati si chiedono condanne molto alte, e questo
nonostante non si tratti di azioni particolarmente odiose o crimini
efferati.
Mi sono sempre assunto la piena responsabilità e le eventuali
conseguenze delle mie azioni, compresa la mia presenza nella giornata
di mobilitazione contro il g8 del 20 luglio 2001, anzi sono onorato di
aver partecipato da uomo libero ad un’azione radicale collettiva, senza
nessuna struttura egemone al di sopra di me.
E non ero solo, con me c’erano centinaia di migliaia di persone, ognuno
che con i propri poveri mezzi, si è adoperato per opporsi a un
ordinamento mondiale basato sull’ economia capitalista, che oggi si
definisce neoliberista…la famigerata globalizzazione economica, che si
erge sulla fame di miliardi di persone,avvelena il pianeta, spinge le
masse all’esilio per poi deportarle ed incarcerarle, inventa guerre,
massacra intere popolazioni: questo è ciò che definisco devastazione e saccheggio.

Con quell’enorme esperimento a cielo aperto fatto su Genova (nei
mesi precedenti e nelle giornate in cui si tenne quella kermesse di
devastatori e saccheggiatori di livello planetario) che qualche
ritardatario si ostina ancora a chiamare gestione della piazza, è stato
posto uno spartiacque temporale: da Genova in poi niente più sarebbe
stato come prima, né nelle piazze né tanto meno nei processi a seguito
di eventuali disordini.
Si apre la strada con sentenze di questo
tipo ad un modus operandi che diventerà prassi naturale in casi simili,
cioè colpire nel mucchio dei manifestanti per intimorire chiunque si
azzardi a partecipare cortei, marce, dimostrazioni…non credo sia fuori luogo luogo parlare di misure preventive di terrorismo psicologico.

Non starò qui a dibattere invece sul concetto di violenza, su chi la
perpetra e su chi da essa si deve difendere e via dicendo: questo non
per assumere atteggiamenti ambigui riguardo l’utilizzo o meno di certi
mezzi nella lotta di classe, ma perché reputo questa sede non adatta
per affrontare un dibattito che è patrimonio del movimento antagonista
al quale appartengo.

Due parole in merito al processo alle forze di polizia.

Si prova con il processo alle cosiddette forze dell’ordine a dare un
senso di equità…i pubblici ministeri hanno voluto paragonare ad una
guerra fra bande le violenze tra polizia e manifestanti: senza troppi
giri di parole dico solo che io non mi sognerei mai di infierire
vigliaccamente su persone ammanettate, inginocchiate, denudate, o in
palese atteggiamento inoffensivo col preciso intento di umiliare nel
corpo e nella mente…
Sono ormai abituato a sentirmi paragonare a provocatore, infiltrato ecc
ed è dura, ma essere paragonato ad un torturatore in divisa no… questa
affermazione è a dir poco rivoltante!
È degna di chi l’ ha formulata.

E poi allestire un processo a poliziotti e carabinieri, giusto per
ricordare che siamo in democrazia significa ridurre il tutto ad un pugno di svitati violenti da una parte, e dall’altra a casi di
eccessivo zelo nell’applicazione del codice. Questo, oltre ad essere sinonimo di miseria intellettuale, indica la debolezza delle ragioni
per cui sprecarsi al fine di preservare l’attuale ordinamento sociale.

Dal mio punto di vista processare la polizia parallelamente ai
manifestanti significa investire le cosiddette forze dell’ordine di un ruolo troppo importante nella vicenda; significa togliere importanza ai
gesti compiuti dalla gente che è scesa in strada per esprimere ciò che
pensa di questa società, relegando tutti quanti nel proprio ruolo
storico di vittime di un potere onnipotente. Carlo Giuliani, così come tanti altri miei compagni, ha perso la vita
per aver espresso tutto ciò col coraggio e con la dignità che
contraddistingue da sempre i non sottomessi a questo stato di cose e
finché i rapporti tra le persone saranno regolati da organi esterni
rappresentanti di una stretta minoranza sociale, non sarà l’ultimo.
E siccome sono disilluso ed attribuisco il giusto significato al
termine democrazia, l’idea che un rappresentante dell’ordine costituito
venga processato per aver compiuto il proprio dovere mi fa sinceramente
sorridere. Lo stato processa lo stato direbbe qualcuno a ragione.

Sicuramente ci saranno delle condanne e non le vivrò di certo come
segnale di indulgenza o di accanimento nei nostri confronti da parte
della corte. Esse andranno valutate, in qualsiasi caso, come un attacco
a tutti coloro che in un modo o nell’altro avranno sempre da mettere in
gioco la propria esistenza al fine di stravolgere l’esistente nel
migliore dei modi possibile.

Genova non è finita… e due

26 Ottobre 2007 Commenti chiusi

 

Nuovo articolo per nazione indiana, mentre oggi si sono espresse le difese per gli imputati per i fatti dell'11 marzo a Milano. Un 2007 maledetto nei tribunali. Vi copio qui l'articolo per nazione indiana, e vi rimando al mio socio per il riassunto dell'udienza per l'11 marzo, mentre su supporto c'è la trascrizione completa. PS: lo stato, tanto per confermare da che parte sta ha chiesto 2 milioni e mezzo di euro di danni a 25 persone imputate per devastazione e saccheggio. come se la galera non bastasse.

Genova non è finita – 2

Sapevo che ottobre non sarebbe stato un mese entusiasmante per
seguire i processi genovesi, ma saperlo non aiuta a reprimere le
emozioni che ascoltare ogni martedì e ogni venerdì i pubblici ministeri
Anna Canepa e Andrea Canciani mi provoca. Il mese di ottobre è stato il
mese che i pm si sono presi per rileggere i fatti di Genova a modo
loro, per riuscire a presentare al mondo la loro versione della storia,
la loro versione della verità, dei torti e delle ragioni. Non c’è
bisogno di dire che non è la stessa che ho vissuto io. O voi.
Le loro conclusioni sono più eloquenti di ogni altra cosa: “chiamiamo
genova per quello che è stata, devastazione e saccheggio.” In termini
di richiesta di condanna vuol dire pene dai 6 ai 16 anni per le 25
persone che l’accusa di Genova ha ritenuto responsabili di tutto ciò
che è accaduto a Genova. Vuol dire che persone che sono ritratte in
decine di foto mentre non fanno nulla o tutt’al più lanciano due sassi
dovrebbero essere condannate secondo l’accusa di Genova a tanti anni
quanto la Franzoni per aver ammazzato suo figlio piccolo. Il bello è
che mentre parlano i pm si vede che si sentono i portatori di una nuova
morale nelle lande devastate e saccheggiate della storia italiana.
Una nuova interpretazione del diritto che si riassume nella frase: “la
responsabilità morale in questi casi è più importante della
responsabilità materiale”. Quanti di voi si sentono “moralmente”
responsabili di Genova? o anche solo “politicamente responsabili”?
Ecco, tutti noi, tutti, secondo questi pm dovremmo essere imputati di
un reato che risale all’anteguerra e che dovrebbe portarci anni in
galera. Tanti anni.
Una nuova interpretazione della storia e del buon senso quando Canepa e
Canciani si soffermano su quei giorni: “le persone hanno
deliberatamente scelto di proseguire gli scontri. Dopo la prima carica
contro le tute bianche, ad esempio, che comunque e’ stata breve e non
particolarmente violenta, potevano sempre tornarsene indietro e
eventualmente denunciare le violenze di cui sono stati testimoni”.
Oppure: “le forze dell’ordine possono aver sbagliato a decidere la
carica, ma quando hanno deciso, hanno agito coerentemente e non
particolarmente male”. E ancora: “alla fine dobbiamo ricordare che i
cassonetti le persone li hanno messi in strada ben prima che i blindati
caricassero a folle velocità, cosa che comunque è avvenuta solo due o
tre volte”. I pm, gli uomini nuovi della verità e della giustizia,
stanno minimizzando tutto quello che hanno combinato le forze
dell’ordine in una delle loro più note e più terribili debacle.
Il colmo lo raggiungono quando per lavarsi la coscienza, i pm si
auspicano che “la medesima severità che stiamo chiedendo sia usata nei
confronti dei massacri compiuti dalle forze dell’ordine e che vanno
condannati”. Penso che il problema sia di intendersi sul termine
massacro, e forse anche sul termine ordine. Perché secondo i pm quelli
compiuti sotto i portici di via Gastaldi a Genova, o nel cortiletto
della Metalfer, o durante la carica di via Tolemaide, o il sabato
pomeriggio sul lungo mare, non sono massacri, ma legittime cariche per
disperdere i facinorosi. E sempre secondo i pm “tutela dell’ordine
pubblico” vuol dire anche quello che si è fatto a genova, “forse era
meglio lasciare tutto in mano ai manifestanti, qualcuno ci vorrà dire!”
– ha gridato Canciani. Io penso per un’istante che se fosse stato
lasciato fare ai manifestanti ci si sarebbe limitati a un po’ di reati
contro il patrimonio. E continuo a pensare che qualche vetrina
spaccata, qualche auto bruciata, non valgano la vita di una persona.
Perché continuo ad arrovellarmi e non riesco a capire come si possa
mettere le cose sullo stesso piano. Come sia possibile che i pm che
hanno raccolto la testimonianza di Placanica, continuino a ritenere
legittimo quell’atto e non la resistenza di centinaia di migliaia di
persone. Come sia possibile che uno dei pm chiamati mentre si stava
procedendo alla operazione alla Diaz, abbia il coraggio di chiedere
giustizia per quella notte. Perché poi il vero problema è che questi pm
sanno benissimo che i reati con cui si stanno imputando i poliziotti
nel processo Diaz si prescriveranno nel 2009, come anche quelli del
processo di Bolzaneto, mentre il reato dell’articolo 419 del codice
penale, devastazione e saccheggio, si prescriverà nel 2024. E sanno
anche che non esiste il reato di massacro, o anche solo la volontà di
trasformare delle condanne in qualcosa di realistico e politicamente
significativo.
Per settimane ho passato e ripassato questi pensieri, accorgendomi che
tutti intorno a me continuano a pensare che un delitto contro una cosa
è peggio di un delitto contro una persona, e che per questo 25 persone,
prese a caso tra 300.000 manifestanti paghino per tutti.
Chiamiamo Genova per quello che è stata: una rivolta; qualcosa che ha
gelato il sangue nelle vene del potere. E l’acrimonia dei pm nella loro
requisitoria finale, la loro voglia di passare alla storia e di punire
severamente chi sono riusciti a trovarsi per le mani, è la
testimonianza più efficace della voglia di vendetta che anima chi si
sente il cuore e il guardiano di un sistema che chi era a Genova voleva
combattere.
Non è ancora troppo tardi per far sentire la nostra voce e dimostrare che Genova non è finita.

[un appello qui]

 

Tutto per la gloria

24 Ottobre 2007 Commenti chiusi

 

Martedì 23 ottobre 2007, a più di sei anni di distanza dai fatti del g8 di Genova, i pm di Genova Andrea Canciani e Anna Canepa hanno chiuso la loro requisitoria nel processo che vede 25 persone imputate del reato di devastazione e saccheggio, un articolo del nostro codice penale desueto e inteso per ben altre situazioni. La requisitoria si è chiusa con la richiesta di 225 anni di carcere per i 25 imputati, una richiesta introdotta da una stucchevole, moralistica e arrogante lezioncina intesa per il tribunale, per gli imputati e soprattutto per la stampa, accorsa in massa per l'occasione in cui finalmente i due pm riusciranno a mettere il loro meschino nome di fianco a "un processo che farà storia".
"Vogliamo pene severe, non esemplari, perché il reato che abbiamo scelto di usare per il capo di imputazione prevede già una pena minima molto alta. Pensiamo si debba avere il coraggio di chiamare quello che è successo a Genova con il suo nome, ovvero devastazione e saccheggio, così come con il suo nome vanno i chiamati i massacri della Diaz". Strano che il reato di massacro non esista, e che quello di strage non sia stato usato per i dirigenti delle forze dell'ordine imputati per la Diaz e per Bolzaneto. Ancora più strano che queste parole vengano fuori da un magistrato che la notte della Diaz venne chiamato per l'operazione e che decise di continuare a dormire senza alcun rimorso di coscienza. Ulteriormente strano che questo corso accelerato di morale venga dalla bocca di chi per sei anni si è guardato bene dall'indagare gli abusi della polizia in piazza e da chi continua a giustificare il gesto di Placanica, pur essendo stato il magistrato che ha interrogato il carabiniere dopo i fatti di piazza alimonda. E infine che nessuno ci dica che i processi per le forze dell'ordine andranno tutti prescritti, mentre la prescrizione per il reato scelto per i manifestanti è di 22 anni e mezzo, con buona pace della giustizia giusta del duo genovese

Ma l'arroganza con cui è stato condotto questo processo non si esaurisce in tutto questo. Il pm ha scelto, nonostante il passare degli anni avrebbe forse indotto a miglior consiglio, di porre il tribunale di fronte al solito dilemma: fare un torto a un altro magistrato o fare torto alla storia? Perché la richiesta di condannare per devastazione e saccheggio tutti indistintamente i 25 imputati, evidenti capri espiatori di un evento storico con cui nessuno è stato né ha voluto fare i conti, costringe il tribunale a sconfessare tutto l'operato del pm, cosa che di solito i magistrati sono restii a fare se non altro per solidarietà di casta e di presunzione come depositari della verità assoluta, oppure a confermare la tesi accusatoria e distruggere la vita di 25 persone, e con essa la storia che abbiamo vissuto tutti insieme in quei giorni a Genova.
Le parole dei pm di Genova, se fossero lette fuori dalla bagarre spettacolare in cui sguazzano da anni, farebbero rabbrividire: "sono casi come questi che rendono evidente come il concorso morale sia più importante del concorso materiale; se io incito 20 persone a lanciare un sasso sono più responsabile materialmente del reato che non se io ne lancio cinque personalmente." La ricostruzione delle giornate di Genova è un agghiacciante susseguirsi di minimizzazioni degli abusi delle forze dell'ordine ("la carica in via tolemaide è durata solo due minuti"; "i blindati hanno caricato all'impazzata solo due o tre volte"; "l'assalto al blindato poteva risolversi con un bilancio molto più grave dei seppur tragici fatti di piazza alimonda, comprensibilmente") e di affermazioni assurde sulle reazioni delle persone in piazza ("i cassonetti sono stati messi ben prima che i blindati caricassero", e pensate cosa sarebbe successo senza quei cassonetti; "la scelta di contrapporsi è stata deliberata, perché la gente poteva anche andarsene e poi fare la sua bella causa civile", che per inciso sono quasi tutte finite nel nulla cosmico della giustizia italiana).never enough!

Tra le 25 persone imputate ci sono persone di cui si hanno si e no dieci foto. SN accompagna il suo ragazzo che tira un paio di pietre al blindato, ma i due non fanno nient'altro se non essere presenti in piazza in via tolemaide: la condanna richiesta è di 6 anni e 6 mesi ciascuno. AF si vede si e no in quattro foto, tira un solo sasso quasi per stizza, ma per il resto no fa nulla: la condanna richiesta è di 6 anni. Un altro imputato alla fine non fa null'altro che gironzolare per gli scontri in vespa e portarsi a casa due lasagne dal dì per dì di piazza giusti: condanna richiesta 7 anni e 6 mesi. Sono solo esempi, ma sappiate che se eravate a Genova, e avete anche solo insultato un militare che vi aveva massacrato l'amico di fianco, potreste essere imputati. Anzi, se le richieste venissero confermate dal tribunale potremmo iniziare a fare lo scherzone di denunciare un po' tutte le persone che riconosciamo nei filmati che abbiamo visto mille volte.

Ognuno di noi dovrebbe seguire questi processi come se fossero il proprio, invece fa comodo a tutti lamentarsi sterilmente della cattiva sorte toccata a 25 compagni e compagne al posto nostro. La storia siamo noi, ma se non saremo in grado di parlare, la storia ricorderà i nomi di Anna Canepa e Andrea Canciani, esaudendo il loro più grande, narcisistico e meschino desiderio, quello della gloria a scapito della vita degli altri.

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