Le Benevole

11 Gennaio 2008 Commenti chiusi

Riposto qui un ottimo articolo di Wu Ming 1 a commento del libro Le Benevole di Jonathan Littel. Lo condivido molto e il libro è ottimo, anche se forse tirato un po’ per le lunghe. Non è di facile lettura e su alcuni passaggi mi pare che strafaccia per la caratterizzazione del personaggio, ma nulla è perfetto. Consigliato a tutti.

 
NESSUNO È IMMUNE DAL DIVENTARE NAZISTA

Le benevole, Supercoralli Einaudi, 2007Impressioni dopo la lettura del romanzo Le benevole di Jonathan Littell

di Wu Ming 1
da "L’Unità" del 30 settembre 2007

Premio Goncourt 2006. Monumentale opera prima scritta in francese da
uno statunitense. Caso editoriale in diversi paesi. Oggetto di stupore,
shock e ammirazione. Alzate di polveroni a destra e a manca da parte di
storici e critici, di ebrei e gentili. Perché?
Perché è chiaro fin da subito (dal lungo prologo intitolato "Toccata") che Le benevole di Jonathan Littell vuole imporsi come il romanzo supremo e definitivo su Germania nazista e sterminio degli ebrei.
Di questa ambizione, questa hybris
che fa scavalcare ogni argine e sfidare ogni precedente narrazione
sull’argomento, ho un’esperienza diretta di molti giorni. Leggere Le benevole è ritrovarsi testimoni, percossi e attoniti, di un tracimare:
goccia dopo goccia, rivolo dopo rivolo, il fiume di dati, episodi,
conversazioni, ricordi, sogni e citazioni si compone, si allarga, si
alza, si gonfia finché non esonda. Arriviamo sul fronte russo sospinti
da un’alluvione, immane ondata che spazza via interi mondi e
innumerevoli vite, finché non impatta con la resistenza di Stalingrado,
inattesa, inspiegabile. Le giornate di Stalingrado scavano un momento
di "vuoto" nel romanzo e nella vita del protagonista, Maximilien Aue,
ufficiale SS. Il vuoto si riempie di follia, follia per una volta non
sistemica né organizzata, follia non burocratica bensì singolare e
selvaggia. L’accerchiamento sovietico apre un crepaccio nel tempo e la
psiche devastata di Aue produce visioni e fantasticherie. I passaggi
sono fluidi, non più scanditi da cifre, date e acronimi, tutto è bianco
e non si sentono rumori… E’ a questo punto che l’onda s’incurva e
volge indietro, con violenza moltiplicata. L’Armata Rossa e il Generale
Inverno annichiliscono la Sesta Armata. Aue si salva, lo riportano a
Berlino.

Una volta respinta, la piena – che, ripeto, è una piena di informazione
– copre altre direzioni, invade altri campi. Le acque brune e scure
trasportano nuovi dati, episodi, conversazioni, reminiscenze di incesti
e sodomie, incubi e rimandi ad altre opere (drammi, romanzi e saggi,
film e documentari). Personaggio, autore e libro s’impantanano
nell’asfissiante burocrazia dell’universo concentrazionario, della Endlösung, dell’Olocausto. Che è ormai soprattutto amministrazione: se le spaventose Aktionen,
i massacri di ebrei nell’Ucraina occupata, avevano smosso la coscienza
del protagonista sferzandolo con dubbi e rimorsi, la "soluzione finale"
lo trova desensibilizzato, apaticamente dedito al compito: "adesso
predominava in me una grande indifferenza, non tetra, ma lieve e
precisa". Siamo a poco meno di 2/3 del romanzo: Auschwitz compare solo
adesso, ecco Höss, ecco Mengele… La piena diventa un lago artificiale
di acqua densa, appiccicosa, le minuzie galleggiano e si attaccano alla
pelle. "E poi, se dovessi ancora raccontare in dettaglio tutto il resto
dell’anno 1944, un po’ come ho fatto fin qui, non la finirei più.
Vedete, penso anche a voi, non soltanto a me, un pochino perlomeno,
certo ci sono dei limiti, se mi sobbarco tutte queste fatiche non è per
farvi piacere…" E avanti così, poi la catastrofe, la fuga, la
mimetizzazione borghese.

Questa non è semplice audacia da esordiente: l’impressione è che l’autore sia stato travolto
dai propri studi e dal progetto narrativo, e ne sia rimasto
prigioniero. Littell si è recluso per anni nel mondo che andava
evocando, la Germania del Terzo Reich vista come un unico, grande campo
di concentramento che imprigionava anche i carnefici e i loro complici
(immagine proposta anni fa da Bruno Bettelheim). Siccome "è libero chi è vassallo" (Frei sein ist Knecht sein), ne è derivato un grande arbitrio del raccontare: Littell vuole dire tutto, mostrarci tutto, descrivere ogni meccanismo, indugiare su ogni delitto.
Le benevole è un libro iperrealistico, sembrano davvero le
memorie per troppo tempo procrastinate di un ex-criminale di guerra.
Nel numero di pagine (956 nell’edizione italiana, per giunta fittissime
e quasi prive di a capo), nell’esorbitante numero di divagazioni ed
eccedenze, nell’attenzione pedante per i minimi dettagli, si manifesta
la tipica "incontinenza" dei memoriali di certi anziani.

Le benevole sembra anche la versione narrativa (e capovolta,
poiché dal punto di vista degli assassini) della colossale impresa
storiografica di Saul Friedländer, i due volumi de La Germania nazista e gli ebrei. Friedländer aggiorna le ricerche di Raul Hillberg
e si dedica alla ricostruzione più vasta e minuziosa della "soluzione
finale", attingendo a ogni sorta di fonte, procedendo per accumulo di
migliaia di microstorie, che collega e incastra fino a indurre il
quadro generale. Tuttavia, la narrazione di Friedländer è
moltitudinaria, sono milioni di persone a reggerne il peso e il dolore.
La storia più difficile da raccontare e da ascoltare batte sulle tempie
mentre leggi, e solo un impianto corale può darle fondamenta abbastanza
solide. Le benevole ha invece un solo protagonista, unico
"filtro", un "io" dai piedi d’argilla che sotto il peso della tragedia
sbanda, si incurva, sovente cade, perde consistenza e coerenza. Che
compito ingrato, il soliloquio dell’inenarrabile.

La domanda che si pone il lettore è: perché Aue – nonostante il
disgusto, i conati di vomito, la diarrea psicosomatica che lo
perseguita per quasi mezzo libro – fa quello che fa?
Perché a suo modo è un illuminista, sembra dirci Littell. E’ un giovane
intellettuale dalle buone, anzi ottime, letture, ed è consapevole della
“dialettica negativa” dell’illuminismo, tanto da volere vederla
compiersi.
[Qui sorvolerò sul fatto che il cosiddetto "illuminismo" liquidato da
Adorno e Horkheimer e poi da frotte di pensatori postmoderni non
corrisponde in alcun modo all’illuminismo storicamente, concretamente
esistito. Lo spiega molto bene Robert Darnton nel suo L’età dell’informazione, Adelphi 2007.]
In parole povere: Aue vuole scoprire fin dove potrà spingersi prima di
smettere di provare qualcosa. Vedere se i mille pretesti, le
razionalizzazioni di comodo, i falsi sillogismi riusciranno a prevalere
sulla nausea, la pietà e i sensi di colpa. Man mano che ciò accade, si
trova a rimpiangere
l’orrore e la pena che provava al principio, "quello choc iniziale,
quella sensazione di una frattura, di uno squassarsi infinito di tutto
il mio essere". Aue è la cavia del proprio esperimento sui limiti
dell’umano. Insieme a noi, "fratelli" chiamati in causa fin
dall’incipit, scoprirà che l’umano non ha limiti, che "disumano" e
"inumano" sono epiteti ipocriti. E’ questo ad avere turbato molti
lettori.

La consueta trappola dell’io narrante: io cammino con Aue, lo seguo
nell’esperimento, ragiono con lui, in un certo senso sono lui, come lui
è me e chiunque di noi: "Gli uomini comuni di cui è composto lo Stato –
soprattutto in periodi di instabilità -, ecco il vero pericolo. Il vero
pericolo per l’uomo sono io, siete voi. E se non ne siete convinti,
inutile continuare a leggere oltre. Non capirete niente e vi
arrabbierete, senza alcun vantaggio né per voi né per me."

Finché Aue soffre per il dolore che infligge, io soffro insieme a lui, ho gli stessi conati di vomito. La descrizione delle Aktionen
in Ucraina è quasi insostenibile: chi è padre o madre vedrà i propri
figli in ogni bambino fucilato e gettato nudo sul cumulo di morti.
Queste pagine fanno amare la vita disperatamente, ti ci fanno
aggrappare con tutte le forze, perché non c’è nulla di "edificante" nel
modo in cui le vittime vanno a morire, sono decine e decine di pagine
di macelleria a cielo aperto, pagine brutte, perché è la morte
violenta a essere brutta: non c’è tempo per ultime frasi che tocchino
il cuore; non c’è spazio per pose plastiche nella calca della fossa
comune; la morte subita in mucchio è ancor più misera e priva di
redenzione.

Gradualmente, però, la quantità mi prevarica, fa scattare le mie
difese, distanzia l’esperienza e annulla la compassione. Un morto è
omicidio, un milione di morti è statistica, ipse dixit. Di
massacro in massacro, mi desensibilizzo insieme ad Aue, conseguo il suo
medesimo distacco. Il romanzo coglie nel segno (se questo era il segno
a cui mirava) e arriva a dimostrare che chiunque può abituarsi
all’orrore. Al limite la pagherà con disturbi psicosomatici, cacarella,
bruxismo… Poca roba. Del resto, non muoiono di fame e stenti ogni
giorno migliaia di bambini senza che io ci perda il sonno? Il fatto che
io non sia lì a guardarli morire, bensì distante migliaia di miglia, mi
rende poi tanto diverso da Maximilien Aue, mi rende forse più innocente
di lui? Aue è mio fratello, è contro me stesso che devo vigilare,
nessuno di noi è immune dal diventare "nazista".

Littell, per dirla in una delle sue lingue native, has got a point,
eppure il suo successo è un fallimento, perché mi anestetizza, toglie
calore alle dita che reggono il libro. L’inflazione della valuta-morte
mi fa davvero sembrare uno sterminio poco più di una statistica, e il
rischio è che diventiamo più cinici anziché più vigili nei confronti di
noi stessi. Eterogenesi dei fini. Per metterla giù in modo chiaro:
finiamo la lettura più stronzi di quando l’avevamo iniziata.

Detto questo, è un romanzo importante, epocale, che non si può né si
deve ignorare, che va letto e affrontato. E’ anche un romanzo impervio,
con centinaia di nomi e cognomi che non è possibile tenere a mente,
parole tedesche che mettono soggezione, scartoffie infilate nel flusso
senza alcuna mediazione. Sovente Littell va oltre il nozionismo e si
produce in tirate piene di riferimenti criptici, come se si stesse
rivolgendo – e forse è davvero così – alla corporazione degli storici
anziché ai lettori comuni.

Durante un viaggio a Parigi, Aue si imbatte in un libro di Maurice Blanchot, Passi falsi, il quale contiene un saggio su Moby Dick,
"libro impossibile" che "si rivela solo attraverso l’interrogativo che
pone". Fin troppo scoperta, la dichiarazione di poetica: Littell è
melvilliano dallo sfintere al nervo ottico. E se Melville – come fa notare Henry Jenkins – scriveva così perché era un fan, un appassionato della navigazione che voleva sviscerarne ogni aspetto, allora Littell di cosa è fan? Littell è un fan
del Novecento, inteso come "secolo di ferro e fuoco". Coglierne
l’essenza è stato per anni la sua ossessione, la balena bruna a cui
dare la caccia.

Ma non è forse l’ossessione di noi tutti? Quel mondo è sempre con
noi: la seconda guerra mondiale è l’evento storico più raccontato e
rappresentato di tutti i tempi, e il Führer ci tiene compagnia
continuando a sbucare come monito, icona pop, pietra di paragone.
Qualunque sterminio e genocidio è implicitamente o esplicitamente
valutato in confronto alla Shoah, a cui ci riferiamo per metonimia:
"Auschwitz". Qualunque nemico, anche occasionale, viene paragonato
all’imbianchino. L’avvocato americano Mike Godwin ha coniato una "regola" (Godwin’s Law)
secondo cui "più una discussione on line si protrae nel tempo, più
aumentano le probabilità che uno dei partecipanti venga paragonato a
Hitler."

Le benevole non sarà il romanzo definitivo su nazismo e
dintorni. Continueremo a raccontare quella storia, perché non possiamo
farne a meno. Ci viviamo ancora dentro e chissà quando ne usciremo. Il
nazismo ha perso eppure ha vinto, condicio sine qua non del nostro immaginario.

– Jonathan Littell, Le benevole, traduzione di Margherita Botto, Supercoralli Einaudi, Torino 2007, pp. 956, € 24

 

Il peggior album Calciatori Panini della storia

10 Gennaio 2008 10 commenti

Devo dire che quest’anno l’album di figurine Calciatori Panini è veramente deludente. Ovviamente, nel mio mini momento revanchista da crisi dei 30 anni, l’anno scorso ho ricominciato a collezionare le figurine… più che altro per il gusto di avere l’album in cui la Juventus era relegata in serie B. L’anno scorso con mia non eccessiva sorpresa la serie B ospitava i calciatori nella canonica dimensione, anziché due calciatori per figurina come era sempre stato nella memoria decennale di appassionati collezionisti. Era ovvio: con la Juve in serie B e con 13 milioni di gobbi sparsi per il territorio, dare la giusta dignità al campionato cadetto rappresentava una necessità di mercato. Carino l’anno scorso lil top player, ovvero la presenza di un secondo scudetto per ogni squadra di serie A che rappresentava un giocatore particolarmente famoso o ammirato del team.

Quest’anno la delusione è stata almeno doppia: non mi aspettavo di vedere il lusso per la serie B dell’anno scorso, ma nemmeno una qualità così bassa. Nella mia invettiva comincerò dai lati positivi (che sono pochi, così facciamo in fretta): il ritorno alla doppia figurina per la squadra schierata per ogni compagine di serie A; gli sfondi delle pagine veramente ben fatti con la squadra e i colori sociali graficamente ben elaborati; gli scudetti in rilievo; la presenza anche del calcio femminile e dello spazio dedicato al calcio mercato; il riquadrino per ogni squadra di serie A con una curiosità sulla società in questione; l’affiancamento della tabella con la carriera in parte a ogni giocatore di serie A.

Il problema è che alcune decisioni fatte per l’album di quest’anno scoraggiano anche chi vorrebbe godersi questo infimo lusso da collezionista: in primo luogo le figurine sono di due dimensioni diverse, sì, avete capito bene! Ci sono le figurine per la serie B e la serie C1 che sono più grandi di quelle della serie A e paradossalmente della C2. Questo perché si è scelto di ospitare quattro (4) giocatori di serie B in una sola figurina. Immondi microbi?! Inoltre anche solo tenere in mano le doppie o organizzare le figurine diventa un delirio: prima la serie A (piccola), poi la B (grande) ma con in mezzo gli scudetti della B (due su una figurina piccola), poi la C1 (grande), poi i giocatori più in vista della serie C1 (4 su una figurina piccola), poi la serie C2 (piccola), poi il calcio femminile (piccola), poi le figurine speciali "calcio spettacolo" (grande). Ogni volta che apri un pacchetto con poca cautela strappi una delle figurine grandi incluse nel pacchetto (che per inciso è stato ridotto da 7 figu per 50 cents a 6 figu per 50 cents).
Ma non basta: le figurine sono contornate in un giallo vomito di gallo abbastanza scutibile, in alto a sinistra ospitano un loghino con i colori sociali della squadra di serie A, ma scelti in maniera discutibile (es: il genoa e la samp hanno il loghino uguale rosso blu!! Dello stesso rosso blu di catania, che per chi non lo sapesse è rosso-azzurro e del cagliari…) Inoltre in alto destra viene riportato il nome della squadra, di solito con uno dei colori sociali, ma senza riguardo per lo sfondo, di modo che a parte juve, siena e udinese le altre squadre hanno uno scarabocchio illeggibile in quella zona della figurina.
Sono spariti gli scudetti delle squadre di C1 e C2 che erano presenti l’anno scorso (e che erano molto divertenti), nonché le figurine dei Top Player catarifrangenti, che sono state sostituite da una dozzina di figurine grandi nell’ultima pagina denominate calcio spettacolo: queste dovrebbero rappresentare dei calciatori particolarmente "spettacolari", ma di fatto li ritraggono in pose ordinarie, e su un sfondo abbastanza rauso. Inoltre anche la scelta dei giocatori lascia un po’ perplessi: Fontana (sì, sì, il portiere del Palermo), Mexes, Ventola (!), Montella, Asamoah, Lavezzi, Trezeguet, Kakà, Ibra, Rocchi, Mutu.
Per concludere: non mi aspettavo da una società feralmente alleata delle merde rossonere una mossa di stile (tipo rifare la serie B a grandezza ordinaria per dimostrare che non era per la presenza della Vecchia Megera Gobba che si era fatta tale scelta, ma per valorizzare le serie minori), ma almeno un prodotto all’altezza dell’anno scorso in termini di qualità delle figurine sì, soprattutto dopo i proclami di "innovazione". L’anno prossimo se volete il progetto ve lo faccio io, o almeno qualcuno che ne capisce di calcio.

Categorie:spalti e madonne Tag:

Nuovo anno, nuovi vecchi processi: la mayday parade non si tocca

7 Gennaio 2008 3 commenti

Sembrerà strano a tutti che un evento così importante e pesante politicamente come la mayday parade non sia stata interessata dal solerte intervento di giudici, procuratori e polizia giudiziaria. Infatti non è così: la mayday 2004, quella di Adotta una catena e la prima con una partecipazione ampia a livello nazionale e internazionale, è oggetto di un processo che si è concluso oggi con la sua sentenza di primo grado.

Le accuse iniziali erano ridicole. A parte aver accorpato la mayday con il presidio in solidarietà con marta, milo e orlando in un unico processo, il rinvio a giudizio andava da violenza privata (picchetti davanti alla standa di via torino e a zara di corso vittorio emanuele), a propaganda sovversiva (i volantinaggi), a danneggiamento aggravato (la pittura di telecamere e vetrine di alcuni esercizi commerciali). Il processo ha mostrato come le accuse fossero un palese travisamente della realtà: i picchetti erano legittime forme di protesta contro chi il primo maggio costringe la gente a lavorare per una paga da fame; la propaganda sovversiva era legittima forma di contestazione di un modello di vita e di lavoro che noi avversiamo; i danneggiamenti erano quattro pennellate innocue. 

La sentenza è andata bene a metà, che di questi tempi è già qualcosa. Il pm aveva chiesto l’assoluzione di tutti, tranne che per 8 persone per le quali aveva chiesto dai 6 ai 9 mesi per danneggiamento. Due persone inoltre dovevano secondo la pm essere condannate per imbrattamente a una multa. La giudice come al solito, non si è accontentata: 10 persone (incluse le due di cui sopra) sono state condannate per danneggiamento a pene tra i sei mesi e i quattordici mesi. Gli altri assolti.  E’ andata bene perché ritorniamo nell’alveo del buon senso con le assoluzioni. E’ andata male perché rifilare 14 mesi a chi anche scrivesse due cazzate su una vetrina di un macdonald durante un corteo di centomila persone che di fatto rappresenta un ampio settore della società è una follia. Per ora gira bene e speriamo che in appello il buon senso impronti anche la sorte degli attuali condannati. Basterebbe quello per accorgersi delle stupidaggini che il mondo della magistratura continua a rifilarci.

Per chi non se lo ricordasse poi, mercoledì non solo riprende il processo per i fatti alla scuola Diaz il 21 luglio 2001, ma comincia anche il processo d’appello per i fatti del San Paolo: i poliziotti che hanno massacrato gente inerme in un pronto soccorso sono stati quasi tutti assolti nonostante fossero ritratti da un video chiaro come il sole; due dei quattro compagni a processo hanno preso un anno e otto mesi per resistenza aggravata e lesioni. Poi si parla di mondo alla rovescia… Ma d’altronde è evidente che il pm Gittardi uno specchio a casa per guardarsi in faccia la mattina non ce l’ha.

 

Categorie:movimenti tellurici Tag:

Hacker forzano i sistemi informatici del palazzo di giustizia di Genova

4 Gennaio 2008 4 commenti

 

Tutti i telegiornali aprono con come seconda notizia la seguente (notare che però sulle edizioni online dei quotidiani non vi è traccia della notizia, mentre le edizioni cartacee la mettono in ventesima pagina):

Hacker all’attacco del Palazzo di Giustizia di Genova. E’ quasi una
certezza dopo che mercoledì, per la seconda volta nel giro di pochi
mesi, circa 150 computer sono andati in tilt perché infettati. Un
guasto telematico che sta paralizzando l’attività del «Palazzaccio» e
sul quale ora la Procura ha deciso di vederci chiaro: ieri infatti il
procuratore aggiunto Mario Morisani ha aperto un fascicolo contro
ignoti. Reato ipotizzato: intromissione nei sistemi informatici.

La situazione appare decisamente seria, anche perché sono molti i file
che rischiano di andare perduti, cancellando così il lavoro di mesi.
Ieri mattina, in particolare, è stato esaminato dai tecnici il computer
sul quale stanno lavorando i pm Patrizia Petruzziello e Vittorio
Ranieri Miniati, i magistrati impegnati ad ultimare la loro
requisitoria sui fatti accaduti alla caserma di Bolzaneto nei giorni
del G8 genovese. Il rischio paventato era che centinaia di pagine
fossero andate distrutte, dai primi riscontri però sembra che almeno la
maggior parte della requisitoria sia recuperabile. Sono in tilt i
computer dei tribunali civile e penale, dei minori e di sorveglianza.
Che cosa sia successo, perché tutti i computer accesi in quel momento
si siano improvvisamente e simultaneamente spenti, non si sa, così come
si ignora quale possa essere il virus colpevole del black out
informatico. Di certo, il disagio a Palazzo di Giustizia è palpabile ed
è una fortuna, dicono in molti, che il «collasso informatico» sia
avvenuto in questi giorni, quando una buona parte di impiegati e
magistrati, è ancora in ferie.

Il guasto ha comunque fatto cambiare, momentaneamente almeno, abitudini
lavorative ormai consolidate: in molti uffici sono ricomparse le
macchine per scrivere e biro, è successo ad un gip chiamato a
convalidare alcuni arresti e che, dopo aver già registrato un
interrogatorio sul computer, quando ha riaperto la macchina per
chiedere il documento in questione ha visto comparire sul monitor la
scritta «manca o è danneggiato il file di apertura». A Palazzo di
Giustizia lo scorso agosto si erano verificati problemi nel sistema e
anche in quell’occasione si era temuto un attacco esterno, un virus
introdotto volontariamente. Invece fu poi accertato che i computer
erano andati in tilt a causa di un surriscaldamento negli armadi
contenenti i congegni.

Peccato che da quello che leggo la sensazione è che si tratti pià che altro di un virus: avranno il coraggio di ammettere l’errore o continueranno a dare suggestivamente la notizia per trarre in inganno gli ascoltatori, i lettori e i telespettatori poco attenti?  La solita informazione pressapochista e poco interessante. Tanto per lasciare tranquilla la procura: noi non c’entriamo nulla, anche perché nel caso avremmo fatto una bella pulizia del computer di pm che lavorano contro di noi… no?

 

Categorie:jet tech Tag:

Lisbona

4 Gennaio 2008 4 commenti

una vista di lisbona dal belvedere di graçaLisbona ricorda molto il Sudamerica, o forse viceversa in effetti, riempito però di liguri, parenti più prossimi da un punto di vista antropologico-culturale ai portoghesi: lo stesso mix di chiusura e generosità, di resilienza al cambiamento e attaccamento alle sensazioni più malinconiche e romantiche. notte a lisbonaLisbona è molto bella: salite e discese, alti e bassi della ricchezza negli ornamenti, nella cura, nella rifinitura di palazzi, strade, luoghi. E’ difficile definirla, non è proprio magica, forse languida è la parola giusta, lentamente e inesorabilmente languida. Sicuramente un posto di cui ti puoi innamorare, come è difficile trovarne tra le moderne metropoli, troppo indaffarate a mostrarsi per ammiccare, troppo lucide e splendenti per avvolgerti come i veli di un odalisca.

Il clima è mite, e nonostante sia capodanno ci sono 14 gradi di giorno e una decina di notte. una buganvillee gigantesca in fiore il 29 dicembreDormiamo alla Perola da Baixa, un posto modesto ma economico, in cui scopriamo subito che con un extra di due euro ti affittano una stufetta elettrica determinante per vivere meglio. Tanto per citare le relazioni con l’antropologia ligure: le braccine gliel’hanno cucite alla spalla anche ai lusitani! 🙂
La città è molto più grande di quanto mi aspettassi anche se il centro è abbastanza ridotto: proprio da Praça do Restauradores, dove dormiamo, cominciano a snodarsi le avenidas che raggiungono le periferie lontane della città, che nel corso dei decenni ha inglobato sobborghi celebri per un motivo o per l’altro… Anzi, di solito per un solo motivo: il calcio: parliamo infatti dei sobborghi di Benfica e di Belem (da cui trae il suo nome il Belenenses).

La prima sera arriviamo a Lisbona e ci scontriamo con la genovesità dei suoi abitanti: sono le otto di sera e ogni posto dove mangiare è chiuso, o sta chiudendo, senza appello. Finalmente arranchiamo verso il Bairro Alto, la zona dei "localini", una specie di quartiere Isola della capitale portoghese, e scoviamo un baretto minuscolo, si e no quindici metri quadri, incastonato nell’angolo di un palazzo ricoperto di azulejos verdi e bianche, con una vistosa e desueta insegna farmacia. Entriamo nel bar e la ventina di occhi seduti ai due tavolini minuscoli addossati alla vetrina e ai cinque sgabelli di legno ci scrutano per capire che cosa ci facciamo lì: blanca è l’unica donna, e subito dopo di noi entra un portoghese dalle braccia solide e la barba sfatta che mentre spiega al vecchietto dietro il banco come funzionano i cellulari si accomoda su alcune casse di birra rovesciate coperte da una lastra di marmo a fare da pianale per il proprio culo. Ci sediamo sugli ultimi due sgabelli liberi e chiediamo il baccalao a minhota, ovvero il baccalà fritto, piatto tipico. Il tipo ci analizza con lo sguardo di traverso e ci dice: "c’è solo la testa e la coda. non è rimasto altro". In altre parole: baccalà? Finito! Come direbbero alcuni comici savonesi. il castello nelle nuvoleNoi accettiamo, e piano piano il vecchietto si scioglie, commosso dalla nostra indefessa determinazione nel mangiare il piatto locale. Mentre il vecchietto ci chiede di dove siamo e cosa facciamo, il tipo nerboruto seduto sulle casse di birra spolpa un pezzo enorme di baccalà fino a succhiarsi una per una le vertebre: la mia ammirazione per la sua capacità di lucidare il piatto fino all’ultima spina di pesce mi muove quasi a un applauso. Mi trattengo per decoro. La vera sorpresa è a fine pasto: 14 euro in due, compreso caffè, bibite, e due piatti unici con contorno.

Il livello di vita vero del Portogallo è questo: sono chiaramente più poveri, e il costo delle cose è la metà che da noi, ovvero un quarto che in Inghilterra. Ovviamente se vai in un ristorante anziché al baretto arrivi a 30 euro in due per un pasto al ristorante, ma direi che è ampiamente meno di quanto si spenda qui. Anche al ristorante i portoghesi si gemellano con i genovesi: i piatti costano poco, ma prima che ti arrivi il menù in tavola, tu la ritrovi imbandita di stuzzicherie varie, su cui normalmente ti fiondi ammirato per l’ospitalità. In realtà ogni stuzzichino si paga a parte, alla fine, ma lo scopri solo una volta che avrai potuto guardare il menù. Mortacci. Ovviamente noi ci siamo fatti fregare nel posto più costoso che abbiamo frequentato in cinque giorni, ma devo dire che per l’atmosfera ne valeva la pena.

azulejos Mentre attraversiamo per una giornata intera i quartieri di Lisbona per visitare chiese e fotografare azulejos – le mattonelle dipinte che ornano moltissimi palazzi e che sono una vera e propria mania portoghese, tanto da dedicarli un museo splendido a ridosso del quartiere Alfama – testiamo vari luoghi di degustazione di pesce: passiamo dal cafè in mezzo alla strada con le sue crocchette di patate e baccalà, alla mensa dei portuali, dove ci abbuffiamo come maiali di salmone e altro pesce alla griglia, buonissimo.

vicolo in alfama La seconda sera sbarchiamo nel quartiere Alfama per il nostro momento di turismo verace: la cena al ristorante con fado dal vivo. azulejos sul fadoNella giornata precedente avevamo puntato un posticino sotterraneo e sufficientemente dubbio da essere interessante. Scendiamo e un vecchietto che incarna lo stereotipo del portoghese ci fa accomodare a lume di candela. Il vecchio asciugato dal sole e con due folti baffi grigi ci guida proprio di fronte al gruppo che sta per suonare: due suonatori che sembrano usciti da un film di tarantino e due sciantose over 50 che fumano come delle turche: Maria e Annabelle. Mitiche. Lo scantinato è tappezzato anche all’interno di panorami di Lisbona e azulejos. Dopo alcuni minuti comincia lo show e scopriamo che i fadistas sono Maria e il vecchietto che fa anche da maitre e cameriere: l’antifona è chiara. E’ tutta una truffa turistica organizzata su base famigliare per sbarcare il lunario. Noi siamo felici di vedere l’organizzazione criminale di piccolo cabotaggio organizzata ai danni dei turisti deficienti, e loro sono felici di cantare e servirci piatti prelibati. Che si può volere di più? Il top della serata è rappresentato dalla signora Maria che a metà del suo numero lusingata dal baciamano di un francese piacione lo guarda seduto di fianco alla moglie e si propone indicando l’anulare sgombro da anelli con un languido: "yo, no marry!", ammiccando chiaramente. La serata scorre liscia e il baccalà a bras – ovvero saltato con uova e patate – è ottimo, anche se vengo ingiustamente aggredito da lische che non dovevano esserci. Pazienza.

Il giorno dopo ci è toccato Oceanario e Museo delle Azulejos: l’acquario di Lisbona è costruito nel quartiere nuovo costruito con i soldi della World Expo 1998, un salto di 100 anni avanti rispetto al resto di Lisbona; è il secondo acquario più grande del Mondo, e ci si arriva usando la metrò pulitissima e efficientissima che mi ricorda la provincialità di Milano e dell’Italia in generale. nutria marina si gratta le guanceIl concetto di pubblico è più avanzato in Portogallo che da noi, che in teoria abbiamo fior di scuole sociologiche in merito… Pietà. Tanto per dirne un’altra: i residenti entrano gratis nei musei, che comunque hanno un costo contenuto, intorno ai 4 euro.
Le attrazioni dell’Oceanario sono due: un’enorme vasca centrale con svariate specie, tra cui molti squali, e un pesce semidinosauro del peso di due tonnellate, e le nutrie marine. Dire che sono umane è dire poco, infatti sono costantemente circondate dall’attenzione del pubblico che ricambiano con atteggiamente strafottenti degni dei migliori artisti da circo.

 

Il Museo delle Azulejos è splendido e ospita ceramiche che datano dal 1500 in avanti, fino ad arrivare a un enorme pannello in piastrelle che mostra il panorama di Lisbona prima dell’incendio del 1755 che l’ha rasa al suolo: è lungo una trentina di metri e alto uno e mezzo! I colori delle azulejos che trovate nel museo sono incredibili, e valgono una visita.

Per concludere con i consigli turistici, l’unico luogo extra che abbiamo visitato è stata Sintra: un luogo magico, arroccato nell’interno, i cui due principali castelli – il Palacio Nacional e il Palacio de la Pena – sono veramente splendidi. In particolare il secondo sembra uscito da una fiaba e merita una visita quando passate dalle parti del Portogallo. A questo andrebbe aggiunto il Mosteiro dos Jeronimos a Belem, uno splendore tra il gotico e il barocco, a cui in coda potreste aggiungere una tappa allo Stop do Bairro, un ristorantino a conduzione familiare nella zona di Campo do Ouarte, in cui amano andare calciatori e sportivi: noi ci abbiamo trovato Camacho, l’attuale allenatore del Benfica!

Il resto è vagabondaggio quotidiano, vinho do porto, strade che si trasformano nel giro di dieci metri da viette trendy in stradine popolari con le case abbandonate a sé stesse. Qualcuno ha descritto Lisbona e il Portogallo come una signora decaduta, ma io aggiungerei che è una condizione temporanea, e che la capacità di valorizzare la propria bellezza potrebbe trasformare Lisbona in una splendida Nobildonna. Ci sarebbero mille aneddoti e mille racconti da fare, come per ogni viaggio, anche solo di cinque giorni, ma la stanchezza presto vince la voglia di narrare, aiutata dalla sensazione di svilire sensazioni uniche con la reiterazione del racconto troppo rapido e poco ricco di densità emotiva. Allora forse meglio aspettare che qualche decina di parole meriti di riacciuffare dalla memoria un particolare di questo viaggio, per raccontarlo di nuovo e con una prospettiva ogni volta diversa.

Categorie:gulliver Tag:

Campioni solo in televisione, il campo è nerazzurro

23 Dicembre 2007 3 commenti

Campioni d’inverno, record di punti, rossoneri a -25: quando spegni la tv, il milan non c’è più. In campo c’è solo una squadra, ma i milanisti sono noti per avere più culo che anima, infatti nel primo tempo un tiro su punzione, un gol. Cazzo. Per il resto c’è solo Inter, anche se in chiara tradizione interista smettiamo di giocare quando esce Jimenez, godendoci i soliti dieci minuti di terrore. Il pareggio sarebbe stata una ingiustizia cosmica, anzi Mondiale.

Dietro Maicon non può più essere definito, Cordoba potrebbe regalare di più a Inzaghi, Samuel non fa vedere il pallone a Kakà, e l’unica volta che il brasiliano lo vede quasi ci infilano, e il rigore non sarebbe stato così inventato. Pochi minuti dopo in compenso Kaladze gioca a pallavolo in area ma anche lì Morganti si tiene il fischietto in tasca. Maxwell a sinistra continua a non convincermi e non si capisce perché non ci poniamo il problema di avere un vero terzino dal punto di vista della fase difensiva.

A centrocampo siamo rovinati, ma Cuchu è immenso e si  intende perfettamente sia con il capitano che con Chivu. Jimenez dietro le punte spinge, tiene palla e serve. Unica pecca: egoismo su un contropiede che lascia senza palla Ibra smarcato e serve invece Cruz chiuso dai difensori rossoneri. Davanti Ibra dimostra di non essere in grado di fare la differenza nelle gare decisive, mentre Cruz non manca un colpo e mette dentro un gol incredibile.

Morganti arbitra di fede rossonera, ma non troppo (almeno non quanto mi aspettassi). Se noi avessimo fatto i falli dei milanisti avremmo finito in nove. Entrambe le squadre lamentano un rigore non fischiato. Noi lamentiamo parecchi falli in attacco decisamente inventati. In ogni caso la nostra superiorità è talmente palese da farci andare alle feste di natale e capodanno con un sorriso a 32 denti.  

Categorie:spalti e madonne Tag:

La partita non l’ho vista ma mi fido!

19 Dicembre 2007 4 commenti

Vagare per Milano al freddo per un’ora per trovare un locale che abbia preso la scheda La7 Più e scoprire che la Pay TV nello sport è una merda. Lo sapevo già, ma stasera ho avuto la conferma. E sapere che l’origine di questo male coincide con il presidente del Milan è solo motivo di gioia e rinnovo dell’astio. La partita quindi non l’ho vista, ma Valdanito è tornato al gol, Balottelli ne ha segnati due e uno annullato perché segnato alla Messi/Maradona (confermando così le indiscrezioni di Moratti che considererebbe Supermario la nostra alternativa a Pato con un risparmio netto di 40 milioni di euro) e abbiamo vinto 4-1 con addirittura una rete di Liz Solari. Dovrei odiare ancora di più la Pay TV ma mi accontento di sfogarmi sul blog. Per ora. 

Categorie:spalti e madonne Tag:

D’altronde poi ormai l’antifascismo non è un valore fondante del nostro Paese

17 Dicembre 2007 4 commenti

 

Su repubblica.it leggo con tripudio – sono ironico – la notizia che la Corte di Cassazione ha rigettato l’uso dell’attenuante per le finalità di alto valore sociale e morale nel caso di una motivazione antifascista per un atto di violenza. Con questo tipo di passaggi si sancisce molto chiaramente – come nella sentenza in esame – che l’antifascismo non è più un valore fondante del nostro Paese e della nostra società, ma che è solo una opinione politica, valida come un’altra, per esempio quella fascista. Forse dopo sessantanni la storia italiana ha chiuso un altro ciclo ed è pronta ad altri anni di barbarie. Chiunque non si sdegni, li merita e ne merita anche le conseguenze. Perché si sappia, nel caso, a me potrete trovarmi in montagna.

PS: per chi non lo sapesse si fa riferimento a un fatto accaduto qualche anno fa a Milano. Il 25 aprile, Festa della Liberazione, alcuni militanti di Forza Nuova decisero di presentarsi in piazzale Loreto per deporre una corona di fiori in memoria del Duce martire. Alcuni attivisti di centri sociali e associazioni antifasciste si presentarono all’appuntamento e impedirono ai pelati di insultare la memoria storica della città, eccedendo con le cattive (il portatore della corona mi pare che finì con un braccio rotto). Le persone accusate delle lesioni a distanza di un annetto dall’episodio  vennero arrestate e tenute in carcere in via cautelare, grazie al tipico uso per nulla repressivo fatto delle misure cautelari preventive in Italia.

CASSAZIONE: NO ATTENUANTI PER AGGRESSIONE ANTIFASCISTA

Non
ha diritto alle attenuanti chi viene condannato per un’aggressione ai
danni di nostalgici dell’eta’ mussoliniana. E’ quanto emerge da una
sentenza della Cassazione con la quale e’ stata confermata la condanna
inflitta dalla Corte d’appello di Milano ad un 52enne accusato di
concorso in lesioni aggravate e porto abusivo di arma impropria, con
riferimento ad un episodio avvenuto a piazzale Loreto, quando un gruppo
di 5 persone che voleva deporre un mazzo di fiori in omaggio a Benito
Mussolini era stato fermato da manifestanti di opposta fede politica.
L’imputato si era rivolto alla Suprema Corte invocando, tra le altre
cose, l’applicazione dell’attenuante in relazione al "ripudio del
fascismo che informa la costituzione repubblicana", nonche’ per il
"carattere provocatorio" dell’iniziativa assunta dal gruppo di piazzale
Loreto. Per i giudici della quinta sezione penale, pero’, il ricorso e’
"privo di fondamento": l’attenuante dei motivi di particolare valore
morale e sociale (art.62, comma 1, c.p.) "puo’ trovare applicazione –
si legge nella sentenza n.46306 – soltanto quando la spinta a
commettere il fatto valutato come illecito dall’ordinamento abbia
tratto origine da valori comunemente avvertiti dalla coscienza
collettiva: il che rimane escluso – spiegano gli ‘ermellini’ – ove i
motivi abbiano carattere politico e, quindi, per loro stessa natura,
non siano universalmente condivisi". Nello stesso modo, "non e’
fondatamente invocabile – aggiungono i giudici di ‘Palazzaccio’ –
l’attenuante della provocazione, in considerazione del fatto che la
condotta denunciata come ‘fatto ingiusto’ non e’ descritta come
direttamente offensiva nei confronti dell’imputato o di persone a lui
legate da particolari rapporti, bensi’ di un sentimento diffuso, che si
assume legato all’antifascismo immanente all’attuale assetto
costituzionale e sociale e che per cio’ stesso – conclude la Cassazione
– e’ prospettato come facente capo a un genere del tutto indeterminato
di persone".

 

Categorie:movimenti tellurici Tag:

Genova non è finita… e tre

17 Dicembre 2007 Commenti chiusi

 

L’articolo che è uscito oggi su nazione indiana era stato scritto nella settimana precedente la sentenza. Ovviamente ringrazio Gianni Biondillo e Nazione Indiana per lo spazio che offre a quello che accade nei processi genovesi e comprendo perfettamente la scarsità di tempo che a volte stravolge i tempi di pubblicazione. Il pezzo rimane valido, anche se l’epilogo lo conosciamo già, ma la necessità di prendere posizione e di scegliere nella vita, rimane un principio fondamentale a cui ci hanno abituato troppo spesso a sottrarci, diffondendo una cultura e una società della pavidità che mi fa sinceramente vomitare.

Genova non è finita – 3

Seguire i processi che riguardano i fatti del G8 di Genova del 2001
è un buon viatico per non dimenticare mai quanto ordinaria sia
l’ingiustizia e quanto quotidiana sia la necessità di prendere
posizione e di agire sui piccoli istanti che ogni giorno mettono su un
piatto della bilancia la tua dignità e sull’altro l’opportunità. Ogni
giorno a Genova capita che tu ti renda conto di quanto falsi siano i
giornali, e prima ancora i giornalisti, di quanto repellente sia la
logica teatrale e superficiale che gli attori di un tribunale
interpretano nella loro vita – con alcune pregevoli e ammirevoli
eccezioni – o di come la realtà venga distorta durante l’esercizio
della cosiddetta giustizia.
So che i miei precedenti interventi su
Nazione Indiana hanno cercato di essere meno estremisti e più
democratici – come si ama dire oggi – ma esistono dei momenti, io
penso, in cui una persona deve scegliere da che parte stare, perché è
evidente a tutti che le cose non sono tutte equivalenti, che, come dice
anche il Papa, il relativismo è un male incurabile della modernità, e
un valore spesso abusato per giustificare ciò che non si ha il coraggio
di indicare come sbagliato.

Non fraintendetemi: non è solo frustrazione e fastidio, esistono
anche dei momenti di obiettivo tripudio. Quando dopo immani sforzi di
mediazione e dopo aver ingoiato giganteschi rospi pur di garantire una
partecipazione di massa di 80.000 persone che arrivano con ogni mezzo a
Genova per dimostrarti che non l’hanno dimenticata, e che non hanno
intenzione di dimenticarsi che poche persone – 25 per la precisione, ma
presto sapremo esattamente quanti – sono nelle mire della magistratura
come capro espiatorio da offrire alla storia per spiegare Genova, non
puoi che gioire.
Non puoi che sorridere e guardare il fiume di persone scendere di nuovo
nelle strade di Genova, e lasciarti confondere da quell’inebriante
oppioide che è la speranza. Per un attimo pensi che anche i magistrati
hanno occhi e cervello e cuore, addirittura lasci sorgere in te il
dubbio che il buon senso per una volta abbia la meglio sulla ragione di
stato e sulle necessità del potere e della Storia che lo rappresenta.
Ti basta tornare in aula due giorni dopo per scoprire che non è così.
Ti bastano le facce contratte in una smorfia di disgusto dei pm che
chiedono 225 anni di carcere per 25 persone, o il viso rilassato a
arrogante di chi difende macellai e aguzzini, ti bastano i dialoghi tra
i primi e i secondi che senti di sfuggita fuori dalle aule di
tribunale. Ti basta vedere due avvocati che si scannano insultandosi
come fossero i peggiori nemici e poi si fumano una sigaretta insieme.
Ti basta ascoltare un avvocato che difende un tuo fratello dare del
delinquente a un altro tuo fratello, con la famosa logica che racconta
che vendersi il proprio vicino di casa è un buon modo per allontanare
la propria fine quanto basta per non farsi scrupoli di coscienza.
Perché forse voi non siete abituati a stare in tribunale e allora forse
non vi rendete conto di quello che significa: ognuno in un’aula
interpreta un ruolo, definito e definibile, che ha i suoi margini anche
di eccesso, non solo di moderazione: come se quello che viene deciso da
un tribunale non abbia in palio la vita di una o più persone, come se
la storia non fosse piena di decisioni e assoluzioni e condanne che
fanno ribollire il sangue. L’unico antidoto a tutto questo è quello che
ha chi come me, con estremo cinismo o forse con medio realismo, non
crede nella giustizia, non crede nei teatrini, e crede che a pochi di
quelli che sono protagonisti in quelle aule freghi nulla del senso di
quello che fanno.

Ma a voi forse interessa poco questo mio sfogo, anche se, a ben
guardare un poco capire come funzionano alcuni dei luoghi determinanti
per l’esercizio e il mantenimento del potere, non dovrebbe esservi
completamente indifferente, se siete persone intelligenti. E se non
siete persone intelligenti mi sono sbagliato e passate pure al prossimo
articolo 🙂
Un breve aggiornamento sui processi è fondamentale. E’ giusto che voi
sappiate due o tre cose: settimana prossima il processo più importante
per Genova e per noi giungerà al termine. 25 persone verranno
condannate o assolte dal reato di devastazione e saccheggio, un reato
desueto e ripescato dalle cantine del diritto dai pm Canepa e Canciani
per giustificare una richiesta di pena spropositata – 225 anni – e
un’operazione terroristica contro la fondamentale libertà di
manifestare il proprio pensiero e il proprio dissenso. I giudici
Devoto, Gatti e Realini dovranno decidere se pavidamente accettare le
scelte dei pm in cerca di visibilità e di libri di storia, o se,
coraggiosamente, rispettare non tanto le mie posizioni estremiste,
quanto la Costituzione e il buon senso. Basterebbe quello.
Nel frattempo l’unico poliziotto condannato per lesioni nei processi
genovesi, l’ispettore della DIGOS di Milano Giuseppe De Rosa, è stato
assolto al processo di appello. Era stato condannato a 20 mesi di
reclusione per aver partecipato all’arresto illegale e al pestaggio di
alcuni ragazzi sabato pomeriggio, tra i quali il minorenne con lo
zigomo fuori dalla testa e la maglietta rossa che tutti dovremmo
ricordare. La corte di appello lo ha assolto perché la sua
identificazione non è certa, perché non basta il riconoscimento che un
suo coimputato ha fatto per essere sicuri che quello che manganella
nella foto sia proprio De Rosa. Provate a pensare se c’eravate voi al
posto suo, quanto ci voleva per condannarvi, e avrete presto fatto i
conti con l’emergenza democratica che il nostro sistema sta vivendo
giorno dopo giorno.

Nonostante la moralis interruptus dei pm del processo contro i
manifestanti, che si augurano che gli eccessi delle forze dell’ordine
siano portati a processo e puniti, ma in sei anni si sono guardati bene
dal fare alcunché, i processi contro i tutori dell’ordine per le
torture di Bolzaneto e i massacri della Diaz vanno avanti, tra mille
insidie, piccole scorrettezze e operazioni mediatiche. Seguire i
giornali sul processo Diaz, per esempio, rende facile capire come sia
tutta una questione di immagine, e che della salute delle 93 persone
arrestate – di cui 61 ferite – non interessa a nessuno. Così alle
indagini del pm per falsa testimonianza contro ex capo della polizia De
Gennaro, ex questore di Genova Colucci e ex capo della DIGOS di Genova
Mortola, corrispondono le operazioni speciose degli avvocati delle
difese, con telefonate già ampiamente note di vicini di casa
terrorizzati dai black bloc che mangiano un panino nella piazza poco
sopra la Diaz passati alle radio come dispettuccio da bambino
dell’asilo.
Ci vorrà ancora più di un anno per sapere come finiranno anche questi
processi, nonostante un anno sia il margine ragionevole per vedere anni
e anni di udienze svanire nel nulla con la scusa della prescrizione. E
a quel punto, quale sarà la verità se un tribunale non ce la sancirà?
Saremo costretti tutti, anche i paladini delle istituzioni a riscoprire
il senso delle parole storia sociale e organizzazione dal basso?
Speriamo di sì.

à la prochaine.

Una giornata di grande sportività

17 Dicembre 2007 4 commenti

 

In una giornata di grande sportività, durante la quale a una squadra che doveva giocare in serie B è stato concesso digiocare e vincere la Champions League e il Mondiale per Club, grazie alla compiacenza di un sistema calcio duopolistico che ancora muove le sue fila (come dimostrano le intercettazioni targate 2007 dell’inchiesta di Narducci e Beatrice che addirittura tirano in mezzo le stesse corti giudicanti sportive, anche se nessuno approfondisce l’argomento), l’Inter con grande fair play illude il Cagliari di poter strappare dei punti alla capolista dal suo ultimo posto in classifica. Giochiamo 10 minuti in tutta la partita e facciamo i due gol necessari. Fine delle trasmissioni. Sempre all’insegna del fair play il Torino evita di vincere 4-0 con una Roma inguardabile e di relegare la Juve a un prestigioso secondo posto a parimerito a -8 dalla vetta. Imbarazzante.

Mancini riprova il tridente, come se anche i muri non avessero capito che in partite chiuse come quelle di campionato non funzioni, se non c’è un grande regista dietro – che all’Inter non c’è. Insiste fino a che non sblocchiamo il risultato, cosa scontata con l’ultima in classifica, e poi passa finalmente al 4-4-2. Misteri degli esperimenti del mancio.

Andando alle individualità: Julio Cesar non sa più come è fatto il pallone; Maicon si è innamorato troppo del pallone da quando gli dicono che è bravissimo; Cordoba è inguardabile come al solito, Samuel inpenetrabile come sempre; Maxwell ritorna su buoni livelli. A centrocampo Chivu lavora molto bene, Cambiasso macina, Zanetti controlla. Davanti Crespo è lontano dalla forma migliore, Suazo soffre a segnare al suo pubblico storico, Cruz continua a metterla incessantemente. Intano facciamo giocare altri minuti a Pelè (siamo l’unica squadra con O Rey in panca) e facciamo esordire il ventesimo giovane della fase Mancini, Balottelli, 17 anni. 

Ora testa all’ottavo di finale con la Reggina, e soprattutto al derby con il club più titolato del mondo. Sulle televisioni e sui giornali, si intende.

 

Categorie:spalti e madonne Tag: