Divertissement e inquietudine

4 Gennaio 2007 3 commenti

 

Due notizie disparate, una è con tutta probabilità falsa ma molto divertente, l'altra vera e molto inquietante. Pillola rossa o pillola blu?  Sto studiano cinese e quindi ho poco tempo per leggere e scrivere on line, ma qualcosina posso anche metterlo su, sennò finirete per pensare che penso solo all'Inter.

La compagnia delle poste di Sua Maestà la Regina di Inghilterra parrebbe aver consegnato una cartolina d'auguri nonostante questa fosse priva di indirizzo, sostituito da nome del destinatario e mappa della località di residenza (abbastanza buono il tratto, forse non precisissimo 🙂

Al contrario Repubblica Online oggi spende un titolone che mi rende edotto del fatto che qualcuno sta vendendo lotti di terreno lunare: la domanda esatta è, a nome di chi? Chi è titolare della proprietà del suolo lunare? Meno divertente ancora è il fatto che la seconda meta del sionismo israeliano dopo Gerusalemme è il nostro satellite (mica anche i sogni saranno originariamente proprietà di chi rivendica la paternità del Vecchio Testamento!?!?!?!?!?)

 

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Categorie:atlas, conscienza Tag:

Placeblog

2 Gennaio 2007 Commenti chiusi

 

Continuano ad affiorare progetti che cercano di collegare luoghi, informazioni, e la sensazione di un luogo. Un paio di mesi fa abbiamo segnalato outside.in, mentre oggi segnaliamo placeblogger, un progetto che vorrebbe raccogliere blog dedicati a luoghi, quartieri, città. L'intento non è dissimile: mappare i collegamenti tra persone e luoghi, storia e ambienti: forse il progetto più ampio in questo intento è  wikimapia, ma per ora i ritmi di crescita sono ancora non particolarmente interessanti, forse vittima di un generale rallentamento quantitativo anche di wikipedia (qualitativo è un po' difficile da valutare così di primo acchitto 🙂

PS: oggi non ho granché voglia di dilungarmi nello scrivere, prendete i post un po' come vengono 🙂

 

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Categorie:atlas, jet tech Tag:

Stephen King e la complessità della pop culture

2 Gennaio 2007 4 commenti

Riposto in calce un articolo uscito in questi giorni su Unità e Carmillaonline, scritto da Wu Ming 1, che affronta il nodo della crescita della complessità dei prodotti della cultura pop: racconti, film, libri di genere sono opere con un tessuto sempre più complesso, che spaventerebbero anche i più temerari tra i lettori e gli spettatori di solo trent'anni fa. Il ritmo di "evoluzione" dei fruitori e dei produttori di cultura pop è un indice abbastanza elementare di quanto la realtà che ci circonda abbia aumentato la sua energia cinetica, il numero di messaggi che ci avvolgono quotidianamente, costringendoci a diventare dei processori di informazione molto più rapidi che in passato, anche se non necessariamente migliori.

Mi sono trovato spesso a chiedermi quanto questo processo sia all'origine di una generalizzata minore capacità di stratificazione delle conoscenze, di una loro comprensione superficiale, di un appiattimento generalizzato di ogni differenza, proprio nel momenot in cui la natura relativa di quasi tutto diventa più evidente. O quanto sia all'origine di una cesura sempre più prepotente tra chi riesce a "governare" questa complessità, ad assumerla in qualche modo, e chi invece la subisce disperatamente.

Forse è questa cesura a far sì che la dimensione relativa dei singoli eventi della realtà non ha stimolato una valorizzazione della diversità, del molteplice, ma spinto a un enfasi dell'omogeneità, dell'omologazione, in modi che il passato ha difficilmente conosciuto: nessuna età dell'oro, solo una rete con maglie molto più rade e più possibilità di tesserne pezzi nuovi o di cadervi attraverso. 

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Cina e Africa

30 Dicembre 2006 3 commenti

中国

 

Riporto integralmente l'interessante articolo di Irene Panozzo tratto da carmillaonline, che a sua volta lo ha tratto da Limes (n3./2006). Molto ben fatto nella sua dimensione abbastanza riassuntiva di rapporti che possono vantare almeno una cinquantina di anni di storia solida 🙂

 

“I primi anni del nuovo secolo testimoniano una continuazione dei profondi e complessi cambiamenti della situazione internazionale e l’ulteriore avanzamento della globalizzazione. (…) La Cina, il più grande paese in via di sviluppo del mondo, segue la via dello sviluppo pacifico e persegue un’indipendente politica estera di pace. (…) Il continente africano, che comprende il più gran numero di paesi in via di sviluppo, è una forza importante per lo sviluppo e la pace del mondo. Le nuove circostanze creano nuove opportunità per le relazioni tra Cina e Africa, tradizionalmente amichevoli.”
Inizia con queste parole il documento programmatico che il governo di Pechino ha presentato il 12 gennaio 2006. Un documento non a caso intitolato “La politica della Cina in Africa”, che fotografa e allo stesso tempo costituisce la punta dell’iceberg di un fenomeno di ampia portata, in atto da anni ma sempre più all’ordine del giorno nelle riflessioni che riguardano l’Africa: la penetrazione cinese nel continente.

La pubblicazione di questo documento è tanto più notevole in quanto si tratta di un passo più unico che raro da parte del governo di Pechino. Infatti, l’articolazione di una politica specifica nei confronti del continente è la seconda del suo genere in tutta la storia della Cina popolare. Solo nel 2003 Pechino aveva preparato qualcosa di simile per mettere nero su bianco la sua politica nei confronti dell’Unione Europea. Ma nel caso dell’Africa la presentazione di questa sorta di ‘libro bianco’ sui rapporti cinesi con il continente si è inserita in un fittissimo reticolato di incontri, firme di accordi di cooperazione economica, visite ufficiali, appalti ricchissimi per la costruzione di infrastrutture e contratti energetici miliardari. A illustrare il documento alla stampa, c’era quel giorno il portavoce del ministro degli Esteri cinese.

Il responsabile del dicastero, il ministro Li Zhaoxing, non era presente, perché impegnato altrove. In Africa, guarda caso, in un viaggio ufficiale di otto giorni, nel quale è passato da Capo Verde al Senegal, dal Mali alla Nigeria, dalla Liberia alla Libia. Sei paesi, sei tasselli ugualmente importanti per la strategia cinese, anche se per ragioni diverse: per la pesca Capo Verde e il Senegal, per il petrolio la Nigeria e la Libia, per il legname la Liberia e per il cotone il Mali. Ma al di là delle risorse naturali, tutti gli incontri bilaterali e gli accordi firmati da Li Zhaoxing con le controparti locali hanno riguardato anche la cooperazione tecnica e politica e quella in campo medico e culturale.
I buoni rapporti tra Cina e paesi africani non sono una novità. Fin dall’epoca delle indipendenze, della guerra fredda e del non-allineamento la Cina ha sempre intessuto relazioni diplomatiche anche importanti con parte dei governi del continente. Il primo paese africano a riconoscere la Cina popolare e a instaurare relazioni diplomatiche con Pechino fu l’Egitto di Nasser, nel 1956. Cinquant’anni fa e un altro panorama internazionale: erano gli anni della nascita del movimento dei paesi non-allineati, creato dallo stesso Nasser assieme al presidente jugoslavo Tito e a quello indiano Nehru: la Cina di Mao, i cui rapporti con l’Urss di Chruš?ëv erano in fase di crescente tensione , era uno dei paesi a cui avvicinarsi. Tanto più che Nasser si trovava in rotta di collisione con i paesi occidentali per la questione di Suez ed era quindi pronto a guardare a quelli comunisti per ottenere i fondi necessari alla costruzione della grande diga di Assuan, soldi che arrivarono prontamente dall’Urss. Nei decenni successivi, la dottrina cinese del terzomondismo e l’arrivo al potere in alcuni paesi africani di padri della patria campioni del “socialismo africano” – primo tra tutti il tanzaniano Julius Nyerere, la cui politica di collettivizzazione agricola basata sulle ujamaa (solidarietà familiare in kiswahili), i villaggi comunitari rimasti la struttura portante del sistema agricolo tanzaniano per quasi vent’anni, era chiaramente ispirata ai princìpi della rivoluzione cinese – istituzionalizzarono ulteriormente i rapporti tra Pechino e alcune capitali africane.
È pensando a questo passato che il documento del 12 gennaio richiama nel prologo i rapporti “tradizionalmente amichevoli” tra Cina e Africa, sottolineando come tutti i paesi, sia da una parte che dall’altra, siano da catalogare come paesi in via di sviluppo. Il panorama internazionale, però, non è più lo stesso degli anni Sessanta e Settanta. E anche la natura dei rapporti tra Pechino e il continente africano è cambiata radicalmente. Non sono più l’ideologia, la solidarietà con governi e partiti comunisti o socialisti considerati amici o le scelte di politica economica a determinare il destino delle relazioni tra Cina e Africa. Da più di qualche anno ormai la parola è stata lasciata alle monete sonanti con cui le concessioni petrolifere vengono pagate, a quelle degli ingenti investimenti cinesi nelle infrastrutture di molti paesi africani o a quelle che costituiscono i prestiti a tassi quasi inesistenti per paesi così indebitati da far difficoltà a ricevere finanziamenti dalle istituzioni internazionali o dai paesi donatori riuniti nel club di Parigi.

La Cina ha iniziato la sua nuova penetrazione in Africa circa dieci anni fa, attirata dalle ricchezze minerarie del continente, soprattutto dalle sue riserve di petrolio e gas (senza dimenticare però quelle di rame, cobalto, carbone e oro), necessarie per far mantenere al paese asiatico il rapido passo della sua crescita economica. Ma è stata anche la presenza di mercati di facile penetrazione, dove i manufatti cinesi, con buona tecnologia ma di poco prezzo, sbaragliano qualsiasi concorrenza, ad attrarre l’attenzione di Pechino. L’Africa soddisfa quindi le necessità primarie della grande crescita economica del gigante cinese, che ha saputo crearsi ampi spazi d’azione nel continente.
Solo da alcuni anni però la “conquista” cinese dell’Africa, iniziata senza fanfare e con molto pragmatismo, è diventata tanto evidente da attirare l’attenzione del resto del mondo. Degli analisti politici ed economici, ma anche di quei governi, a iniziare dagli Stati Uniti e dalla Francia, che si sono trovati ad aver perso terreno, a tutto vantaggio di Pechino, in un continente considerato strategico per i loro interessi sia economici che geopolitici. Bastano alcune cifre per capire quale sia la questione: stando ai dati ufficiali del governo cinese, il volume degli scambi commerciali tra la Cina e il continente africano è quadruplicato negli ultimi cinque anni. Solo nei primi dieci mesi del 2005 è cresciuto del 39%, arrivando a superare i 32 miliardi di dollari . Di questi, le esportazioni cinesi verso il continente hanno contato per 15,25 miliardi, mentre le importazioni hanno raggiunto quota 16,92 miliardi di dollari. Sempre negli stessi dieci mesi, aziende cinesi hanno investito nei paesi africani un totale di 175 milioni di dollari .
Ufficialmente, il punto di partenza di questa crescita esponenziale nei rapporti commerciali tra le due parti è da fissare tra il 10 e il 12 ottobre 2000, quando a Pechino si riunirono i ministri degli Esteri e della cooperazione internazionale della Cina e di 44 paesi africani, creando il Forum sulla cooperazione Cina-Africa, una “piattaforma realizzata dalla Cina e dai paesi africani amici per [dar vita] a consultazioni e dialoghi collettivi e a un meccanismo di cooperazione tra paesi in via di sviluppo che ricade nella categoria della cooperazione Sud-Sud” . Da allora Pechino ha cancellato i dazi su 190 tipologie di prodotti di importazione in arrivo sul suo mercato interno da 28 paesi africani meno sviluppati, mentre i manufatti cinesi invadevano il mercato africano.
Ma all’ottobre 2000 Pechino era già presente in maniera importante in alcuni paesi africani. Uno per tutti il Sudan, diventato ufficialmente produttore ed esportatore di petrolio nel settembre 1999 soprattutto grazie all’intervento cinese. Che nel sottosuolo della regione al confine tra Nord e Sud Sudan ci fosse del petrolio lo si sapeva dalla fine degli anni Settanta. Ma la ripresa della guerra civile tra le due parti del paese nel maggio 1983 aveva impedito alle compagnie petrolifere straniere presenti sul terreno di lavorare. A metà degli anni Novanta, dopo anni di stallo e a conflitto ancora ampiamente in corso, un consorzio conosciuto con il nome di Greater Nile Petroleum Operating Company (Gnpoc) ha preso in mano sia i lavori di prospezione e sfruttamento dei blocchi 1, 2 e 4, sia la costruzione di una raffineria poco fuori Khartum e di un oleodotto di 1.600 km necessario a portare il greggio dai campi petroliferi del Sudan meridionale a Port Sudan, sul Mar Rosso. Con il 40% delle azioni , il partner di maggioranza del consorzio è la China National Petroleum Corporation (Cnpc), una delle più grosse (e delle più attive sui mercati esteri) compagnie petrolifere di Stato cinesi . Oltre alla partecipazione al Gnpoc, la Cnpc ha in concessione “in solitaria” anche l’intero blocco 6, mentre divide con altre compagnie straniere lo sfruttamento dei blocchi 3 e 7.
Il fatto che le compagnie cinesi non debbano rispondere delle loro azioni e del loro eventuale coinvolgimento in situazioni di guerra e di gravi violazioni dei diritti umani a un’opinione pubblica sensibile a questi temi ha sicuramente favorito la stretta collaborazione che si è creata tra Pechino e Khartum. Il settore petrolifero rimane il più importante agli occhi della Cina, visto che oltre la metà dell’export sudanese di greggio va al colosso asiatico, coprendo così il 5% del suo fabbisogno. Ma non c’è solo il petrolio ad attrarre i capitali cinesi sulle sponde del Nilo. Ci sono anche le infrastrutture da creare ex novo – tra cui una pipeline di 470 km per portare l’acqua dal Nilo e dall’Atbara nell’arida regione orientale (un progetto siglato nel giugno 2005 e che costerà 345 milioni di dollari) e il più grande progetto idroelettrico in corso nel continente, una diga in costruzione 350 km a nord di Khartum, all’altezza della quarta cateratta del Nilo – e la vendita di armi, il settore delle telecomunicazioni su cui investire e la cooperazione tecnica e medica.
Il Sudan è il principale destinatario degli investimenti esteri cinesi e uno dei paesi africani con cui Pechino ha più scambi commerciali. Ma non è certo il solo. Innanzitutto perché non esiste solo il petrolio sudanese. Le tre principali compagnie petrolifere di stato cinesi, la Cnpc, la Cnooc e la Sinopec, si stanno ritagliando sempre più spazio nello sfruttamento del greggio africano. Mentre la Cnpc è impegnata in prospezioni nel Sud del Ciad e nell’Etiopia occidentale, la Cnooc ha firmato nel gennaio scorso un accordo miliardario con la Nigeria per comprare il 45% della concessione di proprietà della South Atlantic Petroleum che comprende importanti giacimenti offshore sia di petrolio che di gas.
Accanto alle risorse energetiche però c’è dell’altro. I soldi cinesi stanno trasformando il paesaggio di molte capitali africane (da Yamoussoukro, in Costa d’Avorio, dove sono già in costruzione gli alloggi per i 225 deputati ivoriani, a Luanda, in Angola, dove aziende cinesi stanno restaurando un intero quartiere), in un make-up che rispecchia anche all’esterno un cambiamento radicato nel tessuto economico. Ma anche fuori delle capitali i cambiamenti sono visibili: sono cinesi i capitali e l’ingegneria della ferrovia costruita in Angola, ad esempio, o delle strade e dei ponti eretti in Ruanda, come anche dell’autostrada in Etiopia e di buona parte della rete dei trasporti dello Zimbabwe. La buona tecnologia a prezzi contenuti che la Cina offre nei suoi prodotti ha anche significato per molti paesi poter saltare alla telefonia cellulare senza passare dalla rete telefonica tradizionale, ancora largamente insufficiente anche in molte capitali africane.
Il rapporto tra Cina e Africa, quindi, è interessante per entrambe le parti. Ed è questa situazione che il documento programmatico pubblicato il 12 gennaio fotografa. Il “nuovo modello di partnership strategica” che il ‘libro bianco’ propone non tralascia nessun possibile ambito di cooperazione: politica, economica, sociale, infrastrutturale, culturale e via dicendo, per un totale di circa trenta diversi settori. E non c’è dubbio che ai paesi africani la proposta possa apparire allettante, tanto più che Pechino non pone condizioni politiche. O, meglio, ne pone solo una, facile da rispettare: aderire al principio di “una sola Cina”, rifiutando di avere relazioni ufficiali con Taiwan. Una scelta che, a conti fatti, evidentemente è conveniente fare, se la stragrande maggioranza dei paesi africani preferisce Pechino a Taipei.
L’ultimo in ordine di tempo a rompere con Taiwan per riaprire i rapporti diplomatici con la Cina popolare è stato il Senegal, che è stato subito premiato. Nella sua visita in Africa di metà gennaio il ministro degli Esteri Li Zhaoxing ha fatto tappa anche a Dakar, dove ha dichiarato che la Cina vuole espandere la cooperazione tra i due paesi in qualsiasi campo, dall’agricoltura all’istruzione e dalla sanità alla cultura. Nel frattempo, ha firmato assieme alla sua controparte senegalese un accordo di cooperazione economica e tecnologica.
La mancanza di condizioni politiche, one China principle escluso, è ribadita anche dall’enfasi che la Cina pone a ogni buona occasione sul mutuo rispetto dei confini territoriali, della non aggressione e (soprattutto) della non interferenza negli affari interni dei singoli paesi. Il che significa non fare questioni né porre condizioni di nessun tipo neanche a governi non democratici, violatori dei diritti umani o altamente corrotti. L’esempio sudanese non è l’unico neanche in questo senso. La politica dello “sguardo a oriente” inaugurata da Robert Mugabe, il presidente dello Zimbabwe, in risposta al progressivo boicottaggio e isolamento internazionale con cui i paesi occidentali e le istituzioni finanziarie internazionali hanno reagito alle ripetute frodi elettorali e alla violenza usata dal regime per espropriare i settlers bianchi ha ricevuto un caloroso benvenuto a Pechino. Non solo a parole: quando nel luglio 2005 Mugabe si è recato in visita ufficiale in Cina, ha ricevuto tutti gli onori riservati a un capo di Stato, ma non è neanche stato lasciato tornare a casa a mani vuote. In cambio di concessioni minerarie, Mugabe ha ottenuto prestiti (tra cui uno da sei milioni di dollari da usare per importare mais) e accordi commerciali, un’iniezione vitale per l’asfittica economia di un paese ormai ridotto alla fame, privato da qualche anno degli aiuti economici occidentali e dell’assistenza finanziaria di Fondo monetario internazionale e Banca mondiale. Il radicale cambiamento nell’orientamento della politica estera del paese si è rispecchiato anche nelle scelte del ministero dell’Istruzione, che nel gennaio 2006, in occasione dell’inizio del nuovo anno scolastico e accademico, ha annunciato che il cinese diventerà materia di studio in tutte le università del paese, per favorire il turismo e gli scambi commerciali con Pechino .
Le cose non sono andate molto diversamente neanche in Angola, il secondo produttore di petrolio africano dopo la Nigeria, che sta risorgendo dalle sue ceneri dopo una guerra civile quasi trentennale. Il forte indebitamento del paese e la totale mancanza di trasparenza, che – non è un mistero – nasconde un sistema altamente corrotto, impediscono di fatto all’Angola di accedere all’assistenza finanziaria del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale, come anche ai crediti dei principali paesi donatori. Il vuoto che le regole del club di Parigi hanno creato è stato prontamente riempito dalla Cina: nel marzo 2004 la banca cinese Eximbank ha concesso al governo di Luanda una linea di credito di più di due miliardi di dollari, da utilizzare, progetto dopo progetto, per ricostruire le infrastrutture (rete elettrica, strade, ponti, aeroporti, ferrovie e così via) del paese devastato dalla guerra. In realtà, però, i dettagli dell’accordo non sono mai stati resi noti. Ciò che si sa è che il credito ricevuto viene ripagato con forniture di petrolio alla Cina. Tanto che le importazioni del greggio angolano sono andate crescendo, fino ad arrivare a toccare, nei mesi di gennaio e febbraio 2006, 456mila barili al giorno, una cifra che basta a coprire il 15% del fabbisogno giornaliero cinese. L’Angola è così diventata il principale fornitore di greggio di Pechino, superando non solo il Sudan, finora il principale fornitore africano della Cina, ma anche Iraq e Arabia Saudita .

Legami economici e commerciali, investimenti nelle infrastrutture, cooperazione tecnica e militare, copertura politica senza fare domande: sono questi i punti di forza del rapporto di crescente amicizia tra la Cina e l’Africa. E non manca neanche l’elemento più strettamente diplomatico. A cinquant’anni dall’instaurazione delle prime relazioni diplomatiche tra Pechino e un paese africano, la Cina si pone quindi come reale alternativa al monopolio Usa. Ed è ormai chiaro anche per Washington che non si tratta di una concorrenza che riguardi solo l’ambito economico. Un’inequivocabile offerta di sostegno in ambito internazionale arriva anche dal documento programmatico del 12 gennaio, che afferma che “la Cina rafforzerà la cooperazione con l’Africa all’interno delle Nazioni Unite e in altri sistemi multilaterali, assicurando sostegno alle giuste richieste reciproche e alle posizioni ragionevoli”, mentre in un altro passaggio, i policy-makers di Pechino ribadiscono la disponibilità di “continuare a rinforzare la solidarietà e la cooperazione con i paesi africani nell’arena internazionale e a cercare posizioni comuni sulle principali questioni internazionali e regionali” .
Una tale apertura di credito, questa volta politico, non è certo destinata a passare inosservata agli occhi di molti regimi africani, visto che la copertura diplomatica in tutte le piazze che contano, a partire dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu di cui Pechino è uno dei membri con diritto di veto, non è un elemento di poco conto per governi che, in molti casi, hanno parecchie cose da nascondere. E i paesi africani sanno che la Cina non promette invano. Anche in questo caso è l’esempio sudanese a fare scuola. Con l’escalation della guerra in Darfur, nell’estate 2004, gli Stati Uniti hanno ripetutamente proposto al Consiglio di Sicurezza di adottare delle sanzioni economiche contro il Sudan per indurlo a più miti consigli. Si era parlato di un embargo sul settore petrolifero, su quello degli armamenti e di misure finanziarie mirate contro i principali esponenti del governo. L’adozione di qualsiasi sanzione, anche la più leggera, è stata però bloccata dalla minaccia di veto della Cina, pronta a difendere a spada tratta quello che al momento era ancora il suo principale fornitore di greggio in Africa.
Dopo molti tira e molla, il 30 luglio 2004 il Consiglio di Sicurezza ha adottato, con 13 voti a favore ma con l’astensione di Cina e Pakistan, la risoluzione 1556 che concedeva a Khartum trenta giorni di tempo per riportare l’ordine in Darfur e imbrigliare le milizie janjawid, i “diavoli a cavallo” diventati tristemente famosi negli ultimi anni per le atrocità commesse ai danni delle popolazioni africane della regione, promettendo in caso di mancato adempimento “ulteriori azioni, incluse quelle previste dall’articolo 41 della Carta delle Nazioni Unite”. Khartum ha risposto alla minaccia con deboli misure di facciata, che non hanno di fatto cambiato la situazione sul campo. Il governo sudanese era sicuro di avere le spalle coperte dall’appoggio della Cina e, in seconda istanza, della Russia, dalle cui società il Sudan ha spesso acquistato armi pesanti. Così in effetti è stato: nonostante l’inadempienza di Khartum, in settembre il Consiglio di Sicurezza ha adottato un’altra risoluzione di contenuto simile a quello della 1556, senza però prevedere alcuna delle “misure ulteriori” annunciate a fine luglio.
Anche le velate minacce dell’estate sono state alla fine sacrificate sull’altare degli equilibri diplomatici in seno all’Onu, sempre per la strenua opposizione della Cina a ogni misura anche blandamente punitiva contro Khartum. Alla fine di una molto pubblicizzata riunione straordinaria del Consiglio di Sicurezza a Nairobi, la quarta fuori dal Palazzo di Vetro in tutta la storia dell’organizzazione, il 19 novembre 2004 è stata adottata all’unanimità una risoluzione totalmente “annacquata”, da cui era stato eliminato qualsiasi riferimento a eventuali future sanzioni, mentre in Darfur la situazione non accennava a migliorare.

[fonte: n.3/2006 della rivista di geopolitica LIMES]

 

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Love Clubs: un videocast che spacca!

30 Dicembre 2006 Commenti chiusi

 

Come sempre il blog di Warren Ellis (uno dei migliori autori di fumetti della genia Vertigo, insieme a personaggi del calibro di Neil Gaiman e Grant Morrison) è una fonte inesauribile di spasso. Grazie a lui ho scoperto il sito di Melissa Gira, sexerati.com, e i suoi videocast, l'ultimo dei quali è uno spassoso manuale per l'organizzazione della propria vita sessuale. L'ironia è sempre un'arma fondamentale quando si parla di sesso, cosa che abbiamo da tempo disimparato in quella landa desolata di cristianesimo che è l'Europa :/

 

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Google, Oblivion e il sesso

30 Dicembre 2006 6 commenti

E' un po' di giorni che non scrivo, assorto nell'evoluzione dei ragionamenti su noblogs.org con i soci autistici, ma oggi ho preso un po' di tempo per dare un occhio ai miei blog preferiti e ci ho trovato parecchie cose interessanti. No, non sto parlando dell'impiccagione di Saddam, vera e propria manovra ispirata dalla logica mafiosa di Bush che sfuggirà di mano in maniera orribile, ma del mio solito pallino di Google, della sua monocultura, e degli strumenti di aggregazione ed elaborazione delle informazioni sparsi per la rete.

A parte le ovvie autocritiche di chi prevedeva la scomparsa nel vuoto cosmico di Google dopo l'affare con Youtube, è interessante notare che la previsione di una commercializzazione estrema dei contenuti di YouTube sia andata a colpire proprio il bersaglio. Ma non è la cosa più interessante di queste feste circa Google, quanto l'improvvisa sparizione, e successiva riapparizione dai risultati di ricerca della maggior parte dei siti amatoriali di sesso e pornografia. La cosa ha scatenato un'ondata di commenti estremamente caustici rispetto alla possibiilità di google come promotore di una monocultura per nulla libertaria, anche da personaggi che non sono esattamente degli estremisti di sinistra. 

Nel frattempo, sempre da boingboing, ho scovato un'intervista che confronta due portali di recente lancio, la cui funzione dovrebbe essere quella di far emergere le news più interessanti in una forma capace di aggregare pareri e suggerimenti da una comunità di utenti (un po' quello che indy non è riuscita a fare se non con un collettivo editoriale, nonostante le ottime premesse): da un lato il progetto digg.com (commerciale) e dall'altro il neonato progetto NewsTrust. Quest'ultimo è molto promettente, non solo per la sua natura no-profit, ma sopratutto perché il suo obiettivo è proprio quello di aumentare la visibilità delle notizie in base a criteri che non sono quelli spettacolari dei media mainstream. Staremo a guardare dove va a finire, nel frattempo il consiglio è quello di provarlo.

Concludiamo questo post un po' caotico e modello cestino di capodanno, con una carrellata sulle previsione per il 2007 (e valutazioni su quelle cannate del 2006 🙂 e una menzione per il Chaos Computer Congress natalizio di quest'anno, che come al solito è estremamente ricco di trucchetti interessanti: purtroppo è fuori dalla mia portata economica e di tempo in questo periodo 🙂

Mentre leggete tutti i link, torno alla mia incazzatura per le vicende di mercato dell'Inter in questo scampolo di festività invernali. 

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Mappe celesti

24 Dicembre 2006 2 commenti

Un processo naturale per gli esseri umani è sempre stato quello di aggiungere elementi qualificanti a ciò che lo circonda. Forse deriva dal processo di conoscenza del mondo che ci è naturale, dal fatto che siamo coscienti dell’esistenza della nostra percezione di un mondo esterno, e del fatto che questa percezione, scientificamente identica, in realtà varia da persona a persona. Non c’è alcun modo per poter definire la percezione soggettiva della realtà di un’altra persona, e affermare che gli stimoli neurali sono gli stessi non aggiunge alcuna verifica qualitativa della questione, ma solo quantitativa.  Forse è questa consapevolezza che ha sempre spinto gli esseri umani a tracciare relazioni impossibili tra la realtà e la nostra esistenza, definire le relazioni come una sorta di lento processo di avvicinamento alla possibilità di definire il rapporto tra noi e la realtà in modo da eludere il senso di smarrimento quando pensiamo alle differenze tra gli occhi di due persone qualsiasi (e probabilmente anche di due animali 🙂

Uno degli esempi più interessanti da questo punto di vista è l’esistenza (da quando è esistita la civiltà) di uno zodiaco collegato alla posizione delle stelle (sia i pianeti ovvero le stelle mobili come venivano chiamate dagli antichi, che le stelle fisse). Quasi ogni civilità (non sono un esperto di archeologia, per cui mi baso solo su quelle più note) ha voluto correlare il passaggio del tempo alla presenza di gruppi definiti di stelle, immaginandosi che esse dipingessero immagini e figure nel cielo che gli umani nel corso dei millenni potessero riconoscere. Lo zodiaco non è altro che una suddivisione ciclica del tempo, legata a una percezione soggettiva di immagini possibili nel cielo, di relazioni posizionali tra stelle fisse. A questa necessità descrittiva, l’uomo da sempre ha collegato una necessità psicologica, quella di comprendere che elementi regolano la nostra vita, quali influssi subisce, quale potere si nasconde dietro l’influenza del mondo sull’uomo: lo zodiaco insieme alle varie forme di divinazione (in realtà come in quanto una forma di divinazione) è forse una delle forme più antiche dell’uomo per mettersi in relazione con il tempo e con la realtà.

Non stupisce quindi che la mappatura non solo dello Zodiaco nella sua veste quantitativa (cosa è un segno? dove si colloca? cosa rappresenta?) ma anche in quella qualitativa (che influsso ha? cosa significa l’attraversamento del segno da parte delle stelle mobili?) sia stata una delle più antiche forme di cartografia. E non stupisce neanche che civiltà distanti come quella indù o quella greca avessero cartografie simili (sono nello stesso emisfero, e vengono dallo stesso ceppo antropologicamente parlando), mentre quella moderna (derivata dalla tradizione ellenica) e quella cinese siano così lontane ed esercitino il fascino dell’esotico l’una verso l’altra. 

Soprattutto non stupisce che questo istinto non sia stato per nulla scalfito da millenni di scienza e dalla dimostrazione palese di una razionale non esistenza di alcuna influenza da parte della posizione delle stelle sul nostro "destino". Ciò non toglie che ogni forma di divinazione continui a rappresentare un momento di interpretazione della realtà per gli esseri umani, ricorda loro l’ineluttabile realtà della percezione soggettiva di ciò che li circonda, della loro inesauribile solitudine di fronte alla comprensione del mondo. Allo stesso tempo la mappatura della relazione del mondo con la loro vita offre loro uno spunto per riflettere, per pensare, per ricordarsi dell’importanza delle relazioni tra essi e l’esistente (materiale o meno): la divinazione è una forma di filosofia, una serie di epifanie che servono non a interpretare segni di un destino già scritto, ma ipotesi di relazioni possibili con il mondo.

E’ per questo motivo che i segni zodiacali, i tarocchi (in futuro un post su questi strumenti incredibili di pensiero e influenza), i gusci di tartaruga, i vasi, le viscere, i presagi, e chi più ne ha più ne metta, continuano a esercitare su di noi lo stesso fascino, lo stesso immancabile senso di smarrimento e di meraviglia. Per questo lo Zodiaco, nato in Babilonia con il loro sistema numerico a base 60 (o meglio con il precedente sistema numerico a base 12 [vi siete mai chiesti perché contiamo 12 ore del giorno? e 60 minuti in un ora? Non sarebbe stato più comodo un sistema decimale?]), non è mai stato aggiornato o modificato, perché i segni della relazione con ciò che ci circonda non hanno bisogno di essere esatti, ma solo di essere suggestivi di tutte le eventualità possibili e impossibili. Il fulcro della divinazione siamo noi, i segni zodiacali sono un semplice agit prop della nostra coscienza. 

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Sofferenza old school, risultato new style

23 Dicembre 2006 8 commenti

 

Arrivando a San Siro, un tifoso a caso si è fermato lungo la strada e mi ha dato un passaggio lungo la strada che porta allo stadio. La cosa mi ha stupito per l'insolita gentilezza tra individui abitanti a Milano. Non sapevo che era un segno del destino: avrei dovuto soffrire 90 minuti pensando per almeno 45 di essi che avremmo perso la prima partita della stagione in casa contro l'Atalanta. 

Happy ending invece con gol di Adriano (unico suo contributo positivo alla partita, non cambia la mia opinione circa il darlo in prestito al Crotone) e raddoppio di Loria (sì, è un giocatore dell'Atalanta, ma segna per noi! 🙂 Il bottino si porta a 11 vittorie consecutive eguagliando il record della Roma, e i punti guadagnati mantengono a distanza i giallorossi e le siciliane. Purtroppo il Milan pare avere un momento di ripresa, ma confidiamo nel fatto che non durerà.

Il primo tempo è un museo degli orrori: Recoba, dopo aver giocato i suoi canonici 90 minuti, si infortuna ai muscoli del polpaccio… se lo facesse apposta non ci crederemmo in una continuità così snervante nel ritmo; Zanetti a centrocampo sbaglia passaggi su passaggi, Cambiasso a ritmo ridotto; Burdisso e Andreolli non si trovano nel registrare la difesa, Maicon fa il possibile, ma Maxwell continua a giocare da ala, anche se è posizionato nel terzo del campo appartenente ai nerazzurri; Stankovic sembra assente e dopo 2 minuti ci ritroviamo con Adriano seconda punta dietro a Crespo (l'unico che insieme a Julio Cesar) non cala mai e ci fa felici. Il gol di Doni al 16' è una doccia fredda che tutti sperino svegli la squadra che ha lasciato il giocatore migliore della Dea da solo a mollare la sua bomba, ma la partita non cambia e soffriamo abulici per tutto il primo tempo.

Nell'intervallo si scalda Figo ed entra al posto di Cambiasso (lieve infortunio) e illumina la squadra con giocate di una classe straordinaria, Maxwell e Zanetti diventano ufficialmente il collettivo di autogestione della fascia sinistra, Stankovic carbura a gasolio e negli ultimi 40 minuti diventa un trattore inarrestabile, Adriano sbaglia qualsiasi pallone gli viene messo su piedi e testa (compreso un tocco a porta vuota), ma riesce almeno a pareggiare, con una sceneggiata napoletana e pianto di gioia, che Un posto al Sole è alta cinematografia a confronto. L'autorete di Loria corona un secondo tempo passato a prendere a pallonate i nerazzurri sbagliati, e portiamo a casa il risultato.

L'assenza degli uomini di personalità della squadra si sente, e siamo CERTI che le riserve in campo oggi POSSONO dare di più di quanto hanno fatto oggi. Speriamo la vittoria sofferta (in qualsiasi altro campionato degli ultimi vent'anni avremmo perso con il 2-0 segnato al 90esimo su ribattuta di un rigore nostro sbagliato all'89esimo) serva a dare fiducia anche a chi parte dalla panca.

Ultima nota, in negativo, per le tifoserie: gli slogan degli Irriducibili inneggianti alle lame e alle forme di scontro tra tifoserie al sangue (sugli scontri ognuno si diverte come gli pare, sulle lame mi pare una pratica infame, come è noto usa ai più spregevoli) fanno da (in)degno contraltare ai lanci dei tifosi della Dea che constringono Bertini (aretino maledetto) a interrompere la partita per qualche minuto. Se avessimo rubato un rigore, o gli avessero annullato un gol regolare, potrebbero pure avere le loro ragioni, ma se la squadra perde per circostanze sportivo-fortuite, mi spiegate che cazzo volete?

In ogni caso, prossimo appuntamento l'andata dei quarti di Coppa Italia, e Toro-Inter il 13 gennaio.

 

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Uno spettro (non un fantasma) si aggira per le strade della metropoli… City of Gods!

23 Dicembre 2006 Commenti chiusi

 

Stamattina, come al solito, mi sono alzato e sono andato a fare la spesa al mercato e a fare colazione in Isola. Mentre passavo per la fermata di Gioia ho notato un plico di City più esiguo del normale. Considerato il fatto che oggi è il terzo giorno di sciopero dei giornalisti e che quindi non ci sarebbero stati giornali da nessuna parte, ho deciso di tirare su il quotidiano gratuito (peraltro quello fatto meglio tra tutti i tre market-leader di settore a Milano), giusto per dare un occhio. Qualcosa stonava nella copertina, ma non riuscivo a focalizzare cosa a prima vista.

Quando sono arrivato al pub24 e ho avuto tempo di leggere mi è preso un colpo: non è un free press, è un action prop!

Cercando in rete ho trovato questo sito… I precari e le  precarie milanesi, una ne fanno e cento ne pensano! ihihiihihihi

PS: il riferimento del titolo del post è al gruppo dei fantasmi giornalisti precari, che si fregiano di un trafiletto oggi su e-polis, ma che sono ben lungi dall'aver idee brillanti come queste per  muoversi sul terreno del conflitto (d'altronde sono un gruppo legato a uno dei sindacati della triade mefitica!)

 
City of gods, una voce della cospirazione precaria

No, non è subvertising (se non siete giornalisti potete passare alla riga sotto). O almeno, non solo.

Cosa avete in mano, o sul vostro schermo

City of gods – il primo free & free press (ovvero libero e gratuito) – è stato distribuito in 50.000 copie nelle città di Milano. E' la parola delle precarie e dei precari dell'informazione che si rivolge alle precarie e ai precari in generale.

I media non sono più un prodotto che vende informazioni al pubblico (troverete stime e dati all'interno di City of gods) ): sono lo spazio dell'inserzionista attraverso il quale l'editore vende i propri lettori, voi. E' un servizio che tra l'altro pagate pure 90 centesimi, 1 euro, 1 euro e 10. Più soldi hanno i lettori, più gli editori si arricchiscono dalla vendita degli spazi pubblicitari.
All'interno di questo meccanismo ci sono i giornalisti, precari, free lance, senza contratto, a cottimo, a pezzo, a parola, a riga, a comete millenarie e casi del destino. Precari e precarie sottoposti al ricatto dei precarizzatori, della manchette, della pagina di pubblicità all'ultimo momento, del “non spingere troppo su questi che sono i nostri inserzionisti”, della creazione di quel complesso meccanismo di informazione, disinformazione che vi fa credere che se la vostra vita è una merda, non potete farci un granché.

Per questo City of God è free & free: gratis, ma soprattutto libero, nelle parole, nell'irriverenza, nelle critiche, nello stile precario.
Per questo, in occasione dello sciopero dei giornalisti, che incredibilmente, ma non certo casualmente, visto il contesto, da due anni aspettano che gli editori si siedano al tavolo delle trattative per il rinnovo del contratto di lavoro precari e precari dell'informazione e non, hanno deciso di uscire con City of Gods: la stagione della cospirazione precaria è iniziata.

E ancora una volta i precari hanno preso la parola, attivandosi cospirando e creando relazioni e complicità che permettono di stampare, distribuire 50 mila copie di City of Gods (e scriverne il contenuto che per una volta, non ti precarizza, ma ti informa).

Al principio
"Al principio" fu la parola, poi venne il racconto ed infine l’informazione. A questo punto la storia presenta una sorpresa, o quasi: il diritto all’informazione si trasforma immediatamente nella disinformazione compensatrice delle vostre sfighe quotidiane, affinché esse siano “inevitabili”, “oggettive”, “certe”, “inattaccabili”.
Insieme, informazione + disinformazione, diventano propaganda, che trova nei media di massa il naturale alleato e nel brand la sua punta di diamante. Nella costruzione del brand, intimamente connesso alle informazioni che leggete ogni giorno sui giornali o sentite in radio e televisione, è celato un meccanismo più complesso di quello che potrebbe sembrare.
Nel brand si determina la strutturazione di un potente retro_informatore che agisce anticipando l’informazione, creando quel bacino comporta/mentale all’interno del quale l’informazione stessa, e il suo contrario, si collocano. E’ un processo comunicazionale superiore alla propaganda. La rende, alternativamente, compatibile o inutile. In ciò tutta la difficoltà del presente. Ma anche il terreno su cui agire.

L'intelligence precaria
Se vi siete persi il numero odierno di City of Gods lo troverete sul sito dell’intelligence precaria, che si attiva proprio da oggi in intima e sinergica collaborazione con i giornalisti e le giornaliste precari e precarie. L’intelligence è patrimonio comune dei precari e non solo del giornalismo. In esso confluiranno le mille sfaccettature dell’oppressione dei precarizzatori e dei contropiedi precari.
Ma che cosa rappresenta questo sito?
Immaginate un sito che non è un semplicemente tale, ma piuttosto un luogo che fa circolare informazione, non per informare, bensì per formare quel bacino di notizie da cui si estrarrà il bazar della creazione di conflitto. E che contiene anche i prodotti di queste creazioni e gli strumenti che le hanno consentite. Un sito crudele e spietato, scorretto verso le imprese, le istituzioni sociali, le merci ad alto contenuto ideologico e tutti i loro gli adepti: fazioso ma mai frazioso. Un sito che ha la classe del purosangue, la ricchezza del meticcio; che non esercita fashionismo e brigantaggio culturale, che vive da sé, con quello che fa e per quello che dà. Pone questioni di stile, perché lo stile è importante, e chiede, just in time, relazioni e complicità.

City of gods, una voce della cospirazione precaria

 

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30 gennaio: esce Monocromatica, il primo libro di Blackswift

21 Dicembre 2006 9 commenti

L'ormai lontano 27 maggio 2005, io e il mio socio abbiamo deciso che avevamo voglia di scrivere, di raccontare con ironia alcune nefandezze che vedevamo accadere intorno a noi, e di trasformare in parole e pagine quello che turbina nelle strade e nei quartieri che attraversiamo tutti i giorni e tutte le notti. Il mio socio è un mago nelle trame, io non scrivevo un cazzo da dieci anni, ma con un po' di cocciutaggine e tanta faccia tosta, abbiamo cominciato a pubblicare qualche racconto, qualche bozza di romanzo, qualche boutade a metà tra la realtà e la satira, su una specie di blog ultra spartano che abbiamo chiamato all'epoca blackswift.

Piano piano lo abbiamo riempito di idee e di fantasie, di sogni ad occhi aperti e di incubi ad occhi chiusi, e abbiamo scoperto che ci piaceva poter raccontare ogni tanto passaggi difficili da spiegare con le parole che usavamo per parlare di politica o delle nostre elucubrazioni. A un certo punto abbiamo cominciato a usare il termine reality fiction perché quasi tutto quello che trovate scritto in quei brani è solo in parte inventato, molto più spesso una trasposizione balzellon balzelloni della realtà. Quanto è possibile definire il limite in cui le sensazioni di un momento sono reali e quanto vivono nelle nostre sinapsi, nei collegamenti fortuiti che avvengono nel nostro cervello? Non c'è una risposta certa, ma tutti abbiamo vissuto momenti che è difficile descrivere se non attraverso un personaggio, una  situazione. Noi abbiamo scoperto che raccontare è un modo efficace per vivere momenti indescrivibili, e abbiamo pensato che la cosa poteva piacere anche ad altri. 

Monocromatica, il cui titolo originale sul sito di blackswift è Rapsodia Monocromatica, è stato scritto tra il luglio e l'ottobre 2005 (e rivisto nell'estate del 2006). Il 30 gennaio sarà in libreria, edito per la Colorado Noir, con la benedizione di Sandrone Dazieri, che mi ha proposto di pubblicarlo dopo averlo letto e (spero) apprezzato. E' un noir metropolitano tinto lievemente di fantasy, e a me è piaciuto scriverlo, tanto quanto spero a voi piacerà leggerlo. 

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