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Archivio per la categoria ‘cinema’

Quando il cinema di genere incontra la realtà, linfa per il cinema italiano

24 Ottobre 2006 Commenti chiusi

 

Giuseppe Tornatore torna alla macchina da presa dopo quasi dieci anni (se si eccettua la parentesi poco nota al pubblico di Malèna) e dimostra che il talento non è acqua fresca: La Sconosciuta è sicuramente uno dei migliori film in circolazione, se non il migliore che ho finora visto (mi spiace per il tipo che è uscito dopo di me dal cinema Anteo e che dissertava su come "Hitchcock è forma e contenuto, qui mi pare solo forma"… Forse voleva darsi un tono da gran intenditore, ma mi sa che ha preso un granchio!).

Nonostante questo, è triste che a dare una speranza all'asfittico panorama del cinema italiano, travolto sempre da tragedie moraliste e drammi famigliari un po' stucchevoli e ripetitivi (la mamma, la pizza, il mandolino, ecc ecc), debba essere comunque un regista maturo e che proprio quest'anno compie 50 anni. In ogni caso Tornatore dimostra che interpretare il cinema è ancora possibile nel 2006. La Sconosciuta è il punto in cui il cinema di genere (noir, in questo caso) e l'attualità si incontrano, una sorta di reality fiction (definizione che prendo a prestito dal lavoro che stiamo facendo su blackswift con il socio beirut) in cui elementi della realtà che ci circonda e un pizzico di immaginazione danno la possibilità a tutti di fermarsi a pensare e di non dare per scontato la versione televisiva del presente. Come ha scritto da qualche parte Sandrone (aka il Gorilla), la letteratura (e il cinema) di genere hanno fatto molto di più – nel loro piccolo – per affrontare il problema della deriva culturale che non tanti pomposi saggi e tanti cialtroni in politica.

La trama è avvincente e la tensione ti inchioda dal primo minuto e scema solo nel finale quando lascia il posto alla valutazione dell'attualità, il tutto senza attaccare pipponi e senza stonare. Qualche buchetto di trama qua e là si intravede, ma tutto sommato sono molti di più i pregi e le trovate per far quadrare il cerchio della narrazione, che non le smagliature. Chapeu per la scelta di evitare il lieto fine dove tutti si salvano e sono felici e contenti, optando invece per una realtà ben più grama in cui pagano sempre gli stessi. Ovazione per la scena – totalmente gratuita dal punto di vista del soggetto – del pestaggio di Irina da parte di due Babbo Natale, un momento mitico di astio verso l'odiata festività. Soggetto e sceneggiatura promossi, la regia è eccellente e si completa con una fotografia pulita e lucida con la complicità del panorama urbano italiano (Fabio Zamarion), un montaggio veloce e ben fatto (Massimo Quaglia) e  delle musiche come al solito superlative (l'intramontabile Ennio Morricone, notare il 552). Tra gli interpreti: Kseniya Rappoport, Michele Placido e Alessandro Haber sopra tutti. 

Voto complessivo: 8

 

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Un oscuro scrutare: esperimento riuscito!

23 Ottobre 2006 Commenti chiusi

 

Il nome di Linklater non mi diceva nulla, così ho consultato la bibbia e ho scoperto che era il regista di Suburbia, un filmetto niente male di qualche tempo fa. La cosa non mi ha stupito, dato che, nonostante il silenzio assordante nel mezzo del quale è stato distribuito (avete mai visto il trailer?), A Scanner Darkly può dirsi un esperimento riuscito.

La tecnica di cartoonizzazione delle scene e il lavoro di postproduzione rendono perfettamente il senso di spaesamento dell'opera di Dick, e devo ammettere che la tuta disidentificante è esattamente come tutti gli amanti di PKD se la immaginavano. Il film è molto fedele (qualche semplificazione nel finale giusto per non perdersi un 20% degli spettatori per pura questione di stile) al libro originale, e non manca di gratificare i devoti dickiani di alcuni momenti cult: la scena paranoide iniziale e il tentato suicidio di Frecks sopra tutti gli altri.

Purtroppo la profondità umana e politica del libro non esce in tutta la sua potenza nel film, ma diciamo che quello che si può fare in due ore lo fa tutto. Le polemiche che  hanno accompagnato la preparazione del film mi paiono ampiamente ingiustificate e mi azzarderei addirittura a dire che vedono uno dei pregi più grandi del film (la focalizzazione sulla recitazione più che sul marketing o l'effetto speciale) come una specie di limite, nell'hollywoodiano mondo di plastica. La colonna sonora dei superbi radiohead è la ciliegina sulla torta.

Voto complessivo: 7

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Ridi, ridi che la mamma ha fatto i gnocchi (il passatempo Clerks II)

14 Ottobre 2006 2 commenti

Clerks è stato uno dei film più geniali degli anni 90. Questa affermazione non è discutibile. Anche i film successivi di Kevin Smith (aka Silent Bob) non sono stati malvagi, ma nessuno è più riuscito a eguagliare la pungente semplicità della sua opera prima. Sono passati 12 anni e decine di film, Kevin ha fatto un bel gruzzolo con le sue commedie sacrileghe e poco inclini al politically-correct, e si può permettere di farsi finanziare il sequel del suo film migliore senza timore di andare sotto al botteghino.

In Clerks II si ride, si sghignazza e si rivede la versione aggiornata delle battute migliori del primo film. Se ci si aspetta un secondo capolavoro si sbaglia, ma se si va al cinema per uscire con il mal di mandibola ci si va abbastanza vicino. Se Randall era il personaggio più simpatico nel primo, i 12 anni si sentono anche per lui e per il suo viso meno tagliente e più grassoccio nella mezza età; stessa cosa per Dante. L'attrice protagonista non è all'altezza della prima fidanzata di Dante ma se la cavicchia e ci fa un misto perfetto di sesso e solidarietà. La favola ha lieto fine e sono tutti felici: la fine della precarietà è il lavoro autonomo. Fortunatamente Kevin sul finale si riprende e lo sguardo finale in bianco e nero al Quickstop è il giusto dubbio sulla morale altrimenti filo USA.

Il mito sono e rimangono Jay & Silent Bob, disintossicati e ferventi seguaci della "Sacra Fottuta Bibbia", ma non redenti. La performance di Jay è da MTV Award! Imperdibile.

Voto complessivo: 6

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“Di nascita sono di confessione ebraica, poi mi sono convertito al narcisismo”

7 Ottobre 2006 Commenti chiusi

Un flop. Meglio che lo sappiate subito. Un film i cui unici pregi sono quelli del nome del suo regista e della sua attrice principale non è un film particolarmente significativo. Ho la sensazione che i film dignitosi per quest'anno me li sono già visti durante la rassegna Venezia/Locarno che fanno tutti gli anni a Milano. 

Scoop è un film abbastanza mediocre, molto al di sotto del livello dell'ottimo Match Point: gli attori principali si sforzano il minimo possibile, la trama ha dei buchi di inconsistenza incresciosi (perché nessuno della famiglia che ospita Scarlet Johansson sputtana il suo falso nome? perché il giornalista amico di famiglia sia degli ospiti della bionda che del presunto omicida non fa trapelare la cosa al diretto interessato? Tanto per citare i più macroscopici), la regia è orfana, visto che Woody Allen è tutto preso a interpretare sé stesso sotto falso nome. Meno male che se lo dice da solo (il titolo del post è una sua battuta nel film).

Scoop può essere definito una delusione programmatica. Si ride a un sacco di battute ma se volevo vedere un monologo satirico di Woody Allen andavo a vederlo suonare il clarino a teatro.

Voto complessivo: 5 e mezzo

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Lady in the Water: una fiaba moderna non può essere un aforisma

4 Ottobre 2006 1 commento

Lady in the Water si apprezza quasi esclusivamente per un motivo: cerca di affrontare la difficile questione di come raccontare una fiaba moderna, come riallacciarsi al filone del fantasy moderno anche nel cinema (dopo che il mondo del fumetto e della narrativa hanno offerto ottimi spunti, con personaggi del calibro di Neil Gaiman, ma non solo). Purtroppo per il regista, sceneggiatore e attore M.Night Shyamalan una fiaba non è un aforisma e non funziona con gli stessi meccanismi di una normale sceneggiatura. Così il più grande merito nelle intenzioni diventa la più grossa delusione nella realizzazione.

Il film è abbastanza guardabile, nonostante le carenze di sceneggiatura, e nonostante lo spreco che si fa di alcuni attori che potrebbero sicuramente dare di più, come Bryce Dallas Howard (che, a dispetto del padre, ricordiamo soprattutto per il superbo Manderlay postdogma), impiegata invece in una dimensione algida e dall'espressività più che abbozzata. Il regista indiano dimostra di avere un ottimo talento per la tensione e l'horror, ma non è altrettanto dotato per scrivere il proprio screenplay, soprattutto quando esce dal seminato del genere per approdare alla wanna-be favoletta morale: lo stesso errore della seconda parte di The Village e in minor accezione in Signs e ne Il Sesto Senso. Senza neanche entrare nel merito poi della morale della favoletta in questione. 

Ma andiamo con ordine. Il primo problema del film è proprio la non comprensione della dimensione della fiaba, un discorso che abbozzo qua, ma che meriterebbe un approfondimento tutto suo. La fiaba, come la sua gemella favola, le leggende e il fanasy in generale (anche se quest'ultimo è sicuramente il genere che ha subito maggiormente l'imbastardimento dell'eccessiva popolarità, ma è allo stesso tempo il figlio diretto di fiabe e favole) hanno alcune caratteristiche che le rendono profondamente diverse e molto più piacevoli dell'operetta morale o del saggio. Nella fiaba, in quella moderna tanto in quella antica, non abbiamo bisogno che sia il narratore a spiegarci per filo e per segno il senso di quello che ci sta raccontando. Gli insegnamenti di una fiaba devono essere inferiti dagli avvenimenti e non spiattellati li' come se fosse una lezioncina da imparare a memoria. Questo a Shyamalan non riesce, anzi evidentemente si è lasciato trascinare dal protagonismo se alcune di queste lezioni ce le viene a fare in persona, nella veste dell'autore del libro che cambierà il mondo (giudizio su questa intrusione omologo a quello degli estensori delle recensioni sul Vivimilano che apprezzo molto). Con un ragionamento molto abbozzato mi verrebbe da dire che l'elemento interpretativo di chi legge, ascolta, vive la storia che si racconta è una parte fondamentale della dimensione "educativa" della fiaba. La trasposizione in narrazione di un rito non può esimersi dal trasformare chi l'ascolta, dall'obbligarlo ad attraversare il significato delle parole per capire che cosa vogliono dire veramente per lui o lei e per la sua storia personale. In Lady in the Water questo elemento è assente, cancellato, come anche in The Village, dalla voglia di Shyamalan di darci la propria versione della lezione. Se il regista voleva dirci la sua faceva prima ad usare un bell'aforisma: la vita è così, prendere o lasciare; faceva molto prima che girare un film ambizioso ma deludente.

Tanto per concludere la carrellata impietosa, veniamo poi al contenuto effettivo di questa morale fondamentale che il regista indiano vuole comunicarci: famiglia e dio. E che cazzo, sta diventando una persecuzione! Anche questa ricorrenza del tema religioso (non del misticismo, ma della dimensione propriamente teista) e del tema famigliare (il 90% degli ultimi 100 film che ho visto mette in mezzo la famiglia in un modo o nell'altro come cardine della storia) andrebbe maggiormente indagata (se riesco lo faccio, ma avrei bisogno di una settimana per ognuno di questi temi da dedicare alla ricerca, per cui mi limito ad abbozzare vaccate con fondamenta incerte :), ma è certo che nel contesto di una fiaba moderna stona mortalmente. Shyamalan sostanzialmente gioca la risoluzione del rito contenuto nella sua fiaba moderna su questi due piani: da un lato la riscoperta di un divino che ci guida e ci indica la luce (bleah!) e dall'altro la catarsi di un uomo e dei suoi sensi di colpa verso la famiglia che gli hanno sterminato (ribleah!). Ci manca Gesù in persona, e eravamo a posto. Se proprio questi sono i due assi secondo lui a determinare un cambiamento nel mondo, poteva almeno imbroccarli nel senso di marcia più interessante e universale: il misticismo ovvero il sentimento trascendentale e le relazioni ovvero la capacità umana di costruire legami (indipendenti dalla tradizione per fortuna). Ma no: Deus et Familia, che da un indiano un po' mi perplime, data la scarsa tradizione cattolica che fortunatamente non appesta le sue origini.

D'altronde, il limite della Weltanschauung di Shyamalan si evidenzia nel punto di volta del film (questo sì costruito come un segno da cui decifrare senso, ma se fosse solo qui e là si potrebbe anche accettare qualche suggerimento dell'autore): alla domanda "L'uomo merita di essere salvato?", il protagonista risponde "Sì" . Era facile, come in lascia e raddoppia, tutti sappiamo che la risposta vera è: "No. Merita l'estinzione".

Voto complessivo: 6-

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Il film su Lucarelli e Livorno, 99 Amaranto, e il suo regista

23 Settembre 2006 2 commenti

Eh già. 

Stamattina scorrendo la gazza, avevo notato un articolo sul 99 del Livorno  che era in procinto di essere protagonista di un documentario sulla città. Avevo registrato l'informazione senza troppa convinzione. 

Senonché mentre sto seguendo la radiocronaca di Livorno-Milan, il cronista tra un rovesciamento di fronte e l'altro ha detto il nome del regista del documentario: Federico Micali. C'è mancato poco che mi ribaltassi per terra dal ridere: capisco che non è facile intuire il motivo di questa mia ilarità, ma se sapeste che Federico di lavoro in teoria fa l'avvocato e a tempo perso l'avvocato per indymedia e indyani coinvolti in problemi legali, vi sganascereste anche voi.

Federico peraltro è l'autore di diversi film su Genova in collaborazione con molti altri (usciti come Indymedia o con il suo nome, in collaborazione con Teresa e Stefano):

Inoltre da segnalare un film sulla palestina (La Nostra Terra) e il mitico corto lungarno dove un vecchietto sull'arno racconta la Resistenza.

Mentre finivo questo post, gli odiati cugini hanno pareggiato a Livorno, per cui GODO.

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