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Archivio per la categoria ‘movimenti tellurici’

San precario CFC: un segno indelebile nella storia

8 Giugno 2008 3 commenti

 

La San Precario Cricket and Football Club lascia un segno indelebile nella storia del Torneo dei Centri Sociali e delle Associazioni Antirazziste: con lo 0-8 patito nella terza partita del gironcino chiudiamo a 0 punti e -17 di differenza reti, quasi certamente il peggior risultato della storia del torneo per una formazione. Con questo non solo vinciamo il cucchiaio di legno, ma anche una imperitura nomination negli annali di questa prestigiosa competizione. D’altronde nessuno capirà la generosità del nostro gesto: con il pesante passivo, come al solito immeritato, consentiamo alla squadra di giovani migranti del Comitato Inquilini di Calvairate di passare agli ottavi di finale del torneo. Le buone azioni passano sempre inosservate, ma la nostra coscienza è pulita.

Certo eravamo entrati in campo convinti di dover vincere con il maggior scarto di reti possibile, ma un arbitraggio dubbio e l’aggressività degli avversari, nonché la nostra solita assenza di riserve, di ossigeno e di gioco, hanno messo subito la partita in discesa per gli avversari. C’è poco da dire sulla partita, se non che un risultato così clamoroso non può essere certo frutto del campo ma di loschi complotti alle nostre spalle. Ma guardiamo i lati positivi: quest’anno siamo sempre stati ALMENO in 11 e abbiamo finalmente una divisa sociale ufficiale; inoltre abbiamo varato una piccola mailing list che ci consentirà di raccattare i giocatori e allenarci in vista delle sfide dell’anno prossimo. Allora sì che si vedrà di che pasta è fatta la San Precario CFC. Hasta la victoria! Talvez!

Sempre a proposito di leggi razziali a Milano

6 Giugno 2008 5 commenti

 

Sempre a proposito di leggi razziali a Milano, oggi ho ricevuto una mail che mi segnala come siano in atto le nuove misure del prefetto relativamente ai campi nomadi: da stamattina polizia e carabinieri stanno provvedendo a fotografare, identificare e schedare tutti i presenti nei campi milanesi. Sono sicuro che la gran parte delle persone non ci vedranno niente di strano in tutto questo, anzi che gioiranno, come dimostrano le occhiate di schifo complice che si scambiano le signore impomatate sulla metrò quando entra l’ennesimo rom a suonare una tarantella con l’armonica. Io invece ci vedo qualcosa di strano, anzi di schifoso: se al posto di schedare i rom passassero da casa vostra a chiedervi di farvi una foto e di segnare dove state e con chi state, sono sicuro che non vi sembrerebbe tanto normale. Chi abita in un campo rom non è diverso da me e da voi, è un cittadino europeo (nella maggioranza dei casi), spesso addirittura italiano, ha un documento d’identità valido, e non c’è nessun motivo per cui debba essere schedato, se non un pregiudizio e la necessità di soddisfare la canea mediatico-popolare. Ma questo tipo di soddisfazioni non sono mai un buon preludio. E’ aberrante che l’unico a scrivere cose intelligenti in proposito sia Gad Lerner. Forse perché la sua storia gli ha insegnato come cominciano i periodi bui per la democrazia e l’umanità in generale.

 

Gomorra

5 Giugno 2008 12 commenti

 

L’altra sera sono riuscito ad andare al cinema. Finalmente dopo giorni di incasinamenti vari. In attesa di vedere anche Il Divo, per cui nutro grandi aspettative, ho visto Gomorra di Garrone. Il libro non l’ho ancora letto (mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa), ma forse è un bene, perché mi consente di valutare il film per quello che offre e per quello che è, indipendentemente dal confronto con l’opera originale. Il film, diciamolo subito, è un gran film: vero, crudo, duro, senza sconti (se non per nomi e vicende che nel libro mi risultano più esplicite). Il film dimostra che i buoni registi ci sono in Italia, che si possono fare ottimi lavori con UN dipendente per settore della produzione (non ci sono 80 truccatori, ma uno; e così costumisti, sound designer, fotografi, ecc), e soprattutto che la carenza nel panorama italiota sta da tutt’altra parte. In Italia quello che manca è il coraggio di raccontare e soprattutto il talento per farlo: sono i soggetti e gli sceneggiatori decenti che fanno difetto al cinema italiano, nonché i soldi, ma se questo secondo problema si può minimizzare, il primo è una specie di aut aut per la qualità delle immagini in movimento che hanno dato tanto lustro al Bel Paese. Uscendo dal cinema con blanca ci siamo chiesti, leggendo che la pellicola era stata finanziata dal Ministero dei Beni Culturali: con tutti i limiti del governo di centro sinistra, oggi l’avrebbero finanziato un film così? La risposta ce l’ha data il giorno dopo Luca Barbareschi, neo deputato di FI, candidato anche a ruoli importanti poi tramontati nella partita a scacchi di Berlusconi con i suoi ingombranti alleati: "Gomorra non è un buon film, esporta solo quello che non funziona dell’Italia". Quindi, no, non l’avrebbero finanziato, perché dell’Italia bisogna raccontare gli spaghetti, le belle donne, le spiaggie, e il fascino dei suoi luoghi. Tutto il resto, tutta l’Italia vera che sta nella merda fino al collo anche se non lo sa, non bisogna metterla in piazza, perché si sa, è tutta una grande famiglia i cui panni vanno lavati in casa. Le parole di Barbareschi spiegano molto di come siamo messi. Almeno siamo riusciti per un piccolo frammento di tempo e di spazio a raccontare la verità, e a poter essere orgogliosi di un prodotto italiano coraggioso e ben fatto.

Voto: 9

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Chi semina vento raccoglierà tempesta

30 Maggio 2008 11 commenti

 

Milano è sempre stata all’avanguardia, e ovviamente in tema di risorgente fascismo neanche tanto liquido non vuole essere da meno. Ieri, capolinea di vari mezzi: alla fermata si presentano la solita batteria di controllori (fino a qualche anno fa erano 3, ormai sono non meno di 6) accompagnati da vigili urbani in tenuta da combattimento e da un bus atm con griglie ai finestrini e alle porte. Chi non ha il biglietto viene identificato e nel caso non abbia i documenti caricato sui mezzi speciali e portato via, non è dato sapere dove (oggi le dichiarazioni stampa dei vigili affermano che ai migranti sono stati notificati provvedimenti di espulsione senza trasferimento in un cpt). Le foto sono eloquenti: dopo le leggi razziali, passiamo ai primi rastrellamenti. Non c’è che dire, si galoppa verso una restituzione di un passato di cui nessuno aveva nostalgia. Sulla vicenda non parla nessuno: De Corato grida "in Italia vige la Bossi-Fini e i clandestini devono stare a casa loro mica sugli autobus milanesi, chi vuole lavorare può" – in nero – "gli altri sono criminali e vanno mandati a casa loro". Nessuno gli fa notare che nessuno ha detto che i migranti sull’autobus fossero altro che persone di diversa nazionalità. Nessuno gli fa notare che in un paese civile la municipale non si fa giustizia da sé. Nessuno fa notare a chi legge e ascolta che i vigili urbani in cinque anni sono diventati una specie di corpo militare guidato da un ex addestratore dei carabinieri, un duro. Ascolto Radio Popolare dove si dà libero sfogo ai penatismi della linea dura, agli inseguitori della sicurezza ad ogni costo, del fascismo dal volto buono contro il fascismo dal volto cattivo. 

Chi semina vento raccoglie tempesta. I politici italiani e gli italiani brava gente devono sperare che i fratelli e le sorelle migranti decidano di andarsene e lasciare il benemerito popolo italiano a gestire i cazzi propri (anche se tornare a guerra e miseria alle volte è peggio che non sopportare il fascismo italiano). Perché prima o poi i fratelli e le sorelle potrebbero decidere che persi per persi, meglio andare fino in fondo. Potrebbero per esempio organizzarsi in bande di mutuo soccorso e affrontare con decisione pseudo sbirri e italiani delatori. Potrebbero decidere che tanto peggio tanto meglio e andare in giro armati male che vada non può che aiutarli a tirarsi fuori dalle secche. Attenzione perchè con il vento che stiamo seminando la tempesta potrebbe essere molto dolorosa. E quando la disperazione e la rabbia ci farà male, non chiedete a me di essere solidale con un popolo di pavidi schifosi.

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Una Storia Italiana del Nuovo Corso

25 Maggio 2008 1 commento

 

Vi racconto una storia. Una storia che ha molto a che fare sul decadimento del paese in cui viviamo in termini di civilità, di democrazia e di umanità. E’ un esempio, piccolo, ma molto denso.

Ho un amico che viene dal Brasile. Ha antenati italiani e vive in Italia da ormai tre anni e mezzo. Ci vive da clandestino perché nonostante tutti i suoi sforzi non ha potuto prendere un permesso di soggiorno, nonostante lavori 17 ore al giorno in una cucina e nonostante il suo datore di lavoro sia andato con lui in prefettura, abbia fatto le richieste necessarie e abbia già pronto il contratto. E’ un ragazzo simpatico, parla italiano perfettamente, gli piacciono i modellini e nelle poche ore in cui non lavora va su un prato a far volare aeroplani insieme ad altri strippati. Avrebbe preso la cittadinanza ma dopo due anni a cercare documenti, il comune gli ha detto che deve farli timbrare dal consolato brasiliano; inoltre è clandestino, e quindi non può fare richiesta fino a che non esce dall’Italia e torna con un visto turistico (che dura 3 mesi). Ogni volta che vede un poliziotto deve scappare, perché con l’aria che tira adesso rischia di farsi 18 mesi in carcere. Ieri sera mi raccontava che vorrebbe prendere una casa, ma non può, perché è clandestino e deve vivere con i clandestini, in una casa piena di gente del cazzo che si ubriaca e che non lo fa dormire, e lo fa vivere male. Vorrebbe prendere un motorino per spostarsi dal lavoro, dove finisce alle due di notte, quando tutti i mezzi non vanno più, a casa, che è dall’altra parte della città, ma non può, perché è clandestino e quindi non può fare neanche quello. Ieri mi raccontava che odia non poter fare una cosa che lui ritiene normalissima, che continua a sentirsi una non persona, come un fantasma il cui ricordo è solo il lavoro che fa, e le cui memorie non includono una vita normale, una fidanzata, un momento di divertimento, un momento di relax. Ieri notte mentre lo accompagnavamo a casa ci ha detto con gli occhi tristi e la voce segnata dall’ennesimo rinvio per ottenere la cittadinanza: "io non ce la faccio più. Ho deciso che torno in Brasile. Io vorrei restare qui, mi piace, sto bene, ma non posso vivere così altri due anni in attesa di una cittadinanza per cui la legge cambierà ancora e io non potrò comunque averla. Non è giusto". Questo mio amico è veramente una persona intelligente, sensibile, un gran lavoratore, onesto e simpatico, e si è sbattuto, e con lui i suoi datori di lavoro, per non eludere "la Legge" e diventare "regolarizzare". Ma non possono. Perché la Legge, la nostra società non sono più guidate dal buon senso e da valori facilmente condivisibili, ma sono dominate dalla paura, dalla violenza, dalla ottusità. Non serve cercare esempi aulici, quella del mio amico è la storia di milioni – si leggete bene perché sono milioni – di persone in Italia. Ed è la storia che molti italiani avvallano. Amici migranti, tornatevene a casa, lasciate in merda questo popolo di barbari e imbecilli, lasciate che debbano accudire i propri vecchi, che debbano costruire le proprie case, pulire i propri giardini, asfaltare le proprie strade, lavorare nelle loro fabbriche per due soldi. Non vi meritano e voi non meritate di vivere così. Ieri mentre tornavo a casa mi vergognavo di essere cittadino di questo paese, non che abbia grande amor di patria, normalmente, ma constatare con estrema concretezza quanto il posto dove vivi sia lontano dalla civiltà è sempre triste. Mi auguro il tracollo di questo Paese, e quando gli italiani piangeranno, forse ricorderanno che cosa vuol dire desiderare una vita dignitosa e libera. Fino ad allora gioite di come quello di fianco a voi venga maltrattato per farvi avere l’illusione di stare bene. Durerà poco. E alla fine farà male.

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70 anni dopo: tornano le leggi razziali

21 Maggio 2008 19 commenti

 

E’ stato un attimo. Era il 1938, l’anno di non ritorno per la storia italiana. Le leggi razziali approvate in quell’anno hanno segnato il destino di questo paese, e messo nero su bianco le sue aspirazioni. Fino ad ora non è che si stesse scherzando: in tutta Europa la questione immigrazione è affrontata con isteria e emergenzialismo degni del più becero senso di paura dell’altro, di ciò che non è identico a noi. I CPT sono l’invenzione più orribile in senso civile e politico degli ultimi decenni di politica, galere prive di regolamenti, in cui la vita di alcune persone viene dimenticata per mesi e mesi (con il nuovo ddl fino a 18 mesi, provate a contarli sulla vostra pelle), in base al solo fatto gravissimo a quanto pare di essere straniero. La xenofobia è stata il silenzioso compagno di viaggio della politica europea e italiana in particolare, e il DDL di oggi ne è il frutto amaro, amarissimo. 

Da oggi essere straniero in Italia è un reato. Penale. Punibile da 6 mesi a 4 anni. Non importa se sei buono, bello, brutto, cattivo, ligio alle regole, sottomesso, ribelle. Se straniero, quindi sei un criminale. L’equazione più semplice e contraria a ogni concetto di libertà fondamentali dell’uomo è per la prima volta nel nostro paese sancita nero su bianco. O meglio bianco su nero. Questo è l’ultimo passo, l’ultimo confine. Tra la civiltà e la barbarie. Sono combattuto: da un lato spero che il DDL venga dichiarato incostituzionale il minuto dopo che è approvato, dall’altro vorrei vedere le carceri piene di gente straniera per bene che vede la sua vita rovinata, famiglie sul lastrico perché non hanno più la badante o il portinaio o l’idraulico o il muratore, imprenditori che vedono le proprie fabbriche andare in rovina senza gli operai stranieri. Vorrei vedere gli statunitensi in Italia con un permesso turistico prendersi 4 anni di gabbio, e vorrei vedere la reazione dei media e di chi ha votato, coccodrilli dalle lacrime troppo facili. Quanto sta avvenendo è molto più orribile di quello che vogliamo ammettere. E io ricordo che a 5 anni dalle leggi razziali la gente andò in montagna. Armata. Forse è l’unico esito possibile. O forse no. Come dice WM4 a proposito del suo ultimo libro: serve molto coraggio, ma non so se è abbastanza.

Io voglio passare ad un livello successivo.

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Un passivo troppo pesante anche per San Precario

19 Maggio 2008 3 commenti

 

La San Precario CFC affronta la sfida più difficile del suo girone a testa alta e per l’ennesima volta senza riserve. Il primo tempo contro una squadra organizzata e fisicamente preparata ci attestiamo su un dignitosissimo passivo di un solo gol. Rientriamo al secondo tempo con poca concentrazione e veniamo puniti con due gol ingenerosi. Dopo il 10 minuto del secondo tempo siamo tutti in debito di ossigeno, e alcuni, tra cui il sottoscritto, infortunati. Tutto sembra avviato a un dignitoso 3-0, quando la boria degli avversari ci castiga a 89esimo e 90esimo con due gol che valgono solo per la loro classifica marcatori e non sono degni della solidarietà e giustizia che dovrebbe animare il torneo a cui partecipiamo. Adesso guardiamo avanti, convinti che con qualche riserva avremmo potuto portare a casa qualcosa di più, e che ci giochiamo tutto con la squadra del comitato inquilini molise-calvairate sabato 7 giugno 2008, alle ore 18.00. Avremo bisogno di tutto il nostro tifo sfegatato, anche quello che sabato scorso ci urlava che non li meritavamo! 🙂
 

L’Italia di nuovo al tempo del fascismo

15 Maggio 2008 31 commenti

E’ qualche giorno che cerco di riordinare le idee per esprimere appieno quello che serpeggia nella mia testa in questo momento. Il paese in cui vivo per molti anni è stato la barzelletta economica, sociale e culturale del resto d’Europa, per non parlare del Mondo, ma ancora alcuni argini in alcuni casi più ideologici che etici ancora tenevano a freno i peggiori istinti degli italiani. Le ultime elezioni sembrano aver stappato il vaso di Pandora dell’odio e della ferocia. E i media improvvisamente sembrano accorgersi che il clima che hanno contribuito a creare non è passeggero. Il vero dramma è che non si riesce a dare il giusto peso a quanto avviene. Io non ricordo un periodo così buio per quanto riguarda la capacità di filtrare gli istinti animaleschi dell’homo sapiens italianensis almeno dal 1922. E non è un eufemismo. Succede di tutto, e nessuno sente di dover commentare, di dover prendere la parola. E presto tutta questa ferocia non toccherà solo i reietti.  Anzi, in realtà è già così: dopo mesi e mesi di fanfare sull’aborto e sul diritto del feto, nessuno prende parola su tre ragazzi minorenni che via sms si mettono d’accordo per soffocare, buttare in un pozzo e bruciare una ragazza di 14 anni. Avete mai provato a strangolare una persona? Sapete quanta crudeltà o disperazione è necessario per non fermarsi. Due settimane fa cinque ragazzi di buona famiglia ammazzano a calci e pugni un ragazzo di sinistra solo perché di parte avversa: forse se fossero stati dei rom allora "la gente farebbe quello che la politica non fa", come dice Bossi, ovvero avrebbe preso i ragazzi, le loro famiglie e i beni di famiglia e avrebbero dato fuoco a tutto. Invece no. Tutto rimane nei limiti del civile. A Napoli invece la camorra si trasforma in paladina dei cittadini affamati di tranquillità e si mette a fare il braccio armato della politica bruciando campi rom a destra e a manca che manco le SS. Poi lo SCO (il cui capo era il Francesco Gratteri del processo Diaz, mentre quello attuale è il Gilberto Calderozzi anch’egli imputato nel medesimo processo) si risente e decide di dimostrare che il vero braccio armato della legge sono loro: operazione congiunta in decine di campi e 400 arresti. E via così in un susseguirsi di ferocia e di liberazione di bassi istinti che non ha precedenti in Italia. Forse ha ragione ppn, bisogna andare al poligono e a fare corsi di speleologia. Il punto poi è che bisogna scegliere i bersagli. E avere il coraggio di sposare la ferocia convinti che se ne possa uscire limpidi dopo un po’. Ma non è così. Ma era nell’aria da tempo, questo tempo di nuovi fascismi, o questo nuovo tempo di vecchi fascismi, e attraversarlo ci sporcherà la coscienza, ci renderà brutali e orribili, e ci cambierà per sempre. E solo l’uomo è la speranza dell’uomo, anche se in questo momento fatico a vederla per lo schifo che mi domina.

Poiesis in origine indica il fare

8 Maggio 2008 8 commenti

 

Poiesis in origine indica il fare

Una riflessione sul saggio New Italian Epic, sul libro Stella del Mattino, su Blackswift e la Reality Fiction; insomma una riflessione su quello che vogliamo fare con i miti.

Quando ho preso in mano Stella del Mattino avevo appena finito di leggere il breve saggio di Wu Ming 1 "New Italian Epic", ma non solo. Avevo in testa anche le due brevi mail scambiate con lo stesso WM1 e due chiacchiere fatte con il mio socio circa il concetto contenuto in New Italian Epic. Già perché con il mio socio in parole e pagine come Blackswift non riusciamo a prenderci sul serio come scrittori, ma prendiamo molto sul serio la necessità di impegnarsi a scrivere del nostro presente. Non riusciamo a dedicare il giusto tempo a scrivere, forse perché saremmo costretti ad ammettere che la cosa necessita di un impegno quanto e più faticoso della militanza a cui ci siamo già fin troppo disabituati – nonostante la nostra professione di intenti come uomini di azione.
Quando ho preso in mano Stella del Mattino dopo le prime pagine mi sono chiesto se era necessario parlare del passato per poter trasfigurare il presente in un’epica. Ovvero, se fosse strettamente necessario narrare epicamente uno scorcio di storia, per poter ispirare un’epica nel presente disastrato in cui viviamo.
Mi sono chiesto se non fosse altrettanto utile narrare epicamente il presente, trasfigurandolo in qualcosa che al tempo stesso parla di noi e parla di quello che vorremmo essere o che vorremmo che fosse.
In pratica, mi sono fatto la seguente domanda: quando io e il mio socio parliamo di Reality Fiction, cercando di descrivere la robaccia di genere che insistiamo ad amare e scrivere, stiamo parlando della New Italian Epic di cui parla WM1, oppure no?
Come si potrà facilmente desumere da questa introduzione in parte la risposta è sì, in parte è no. Io penso che ci siano molti punti di contatto su come scriviamo noi e come scrivono gli autori che WM1 cita nel suo breve saggio. Ovviamente non penso che scriviamo altrettanto bene, ma sono sicuro che proviamo a fare del nostro meglio, e tanto mi basta. Come sostiene Lucarelli nel suo intervento sulla Nuova Epica Italiana su L’Unità, "chiunque, dal più intimo minimalista al giallista più classico, se scrive con sincerità, è altrettanto utile e importante". Senza per questo implicare che chiunque scriva fa qualcosa di utile alla causa di intervento culturale che mi sembra sempre più necessaria e prioritaria.
Peraltro, aggiungo, sono poche le persone in Italia che sommano a una tecnica ottima, un forte talento narrativo. WM1 credo sia uno di questi, per cui non oserei mai compararmi su un piano paritetico.

Quando abbiamo iniziato a ragionare sul nocciolo del progetto Blackswift il desiderio principale, a parte quello di scrivere, era quello di investire il campo di una battaglia culturale rimandata – per quanto riguardava noi e le nostre intelligenze – da troppo tempo. In un certo senso il lavoro di Wu Ming e Luther Blissett era l’esempio da seguire, ma non volevamo appiattirci sul loro modo di scrivere. D’altronde avere dei cloni sbiaditi di qualcosa che già esisteva era poco interessante, mentre era molto più utile cercare nuove vie convergenti sull’obiettivo di ribaltare il paradigma culturale becero e gretto che si andava delineando.
WM1 con parole più consone parla della necessità di una nuova epica italiana, di qualcosa che ispiri le persone che leggono ciò che scriviamo a interpretare la realtà in maniera diversa e ad agire in maniera diversa.
In altri tempi si sarebbe detto a lottare e su questo tornerò nella seconda parte di questo intervento che parla di Stella del Mattino, non pensate che me ne sia dimenticato.
Il nostro modo di scrivere ha risposto per noi a un interrogativo tutto intellettuale, e solo a posteriori – come già per molto altro che ci ha visto protagonisti – consente un minimo di sistematizzazione.
Penso che il saggio di WM1, in questo senso, ci aiuti: noi parliamo da tempo di immaginari, di necessaria costruzione di una proiezione di quello che siamo e che vogliamo essere nella sfera della fantasia, di una narrazione che poi trascini dietro di sé la realtà, come una specie di magia in cui si modella dell’energia, per poi vederla incarnarsi nel proprio futuro e presente materiale.
WM1 ha parlato di epica, ovvero di come questa magia dell’immaginario, questa tessitura del possibile, si chiami narrazione. Una storia è una cornice immaginaria che viene riempita in un momento con i personaggi creati dalle parole di un libro e il momento successivo con la proiezione di noi stessi nel nostro reale. E’ la risonanza tra la narrazione e la realtà che crea l’epica, che crea la possibilità di trasformare ciò che siamo e viviamo. Per dirla con una delle pagine cruciali di Stella del Mattino che ritraduce il sottotitolo della Poetica di Aristotele: "qui tratteremo del fare nel suo insieme e nelle sue forme, quale finalità abbia ciascuna di esse, e come si debbano comporre i miti affinché il fare vada a buon fine". La New Italian Epic sta tutta qui. E anche la nostra Reality Fiction.
E forse non sono neanche così distinte.
D’altronde, tornando alla domanda originaria, non è detto che parlare di uno scorcio di storia e parlare di uno scorcio del presente (o di un passato molto recente) sia così diverso. Su una pagina la collocazione storica di una storia non cambia sostanzialmente il suo potere in termini di immaginario. Per questo NIE (o forse io in questo senso mi riferisco solo alla NIE di Wu Ming che è prettamente legata a una trasformazione del romanzo storico in senso epico) e RF non sono diverse. Semplicemente scelgono un campo diverso di applicazione del medesimo processo di influenza culturale. I libri più riusciti di Wu Ming (a mio avviso, non tutti saranno d’accordo ma tant’è, Q e Manituana) prendono un pezzo di storia, o alcune storie nella storia e le traducono in un’epica che echeggia il presente, che vorrebbe ispirare chi legge a interpretare la realtà – sia in senso letterale che in senso fattuale – in un nuovo modo. La nostra Reality Fiction prende il presente che abbiamo vissuto insieme a molti altri, e lo trasfigura in una dimensione solo lievemente fantastica, lo ricombina come se fosse un pezzettino di pongo o un modellino di codice genetico, trasformando la nostra esperienza in una narrazione, e una narrazione in una epica del presente, del quotidiano, a misura d’uomo. In questo senso attraverso le differenze le due proposizioni convergono, forse anche compatibilmente con il talento di ognuno.
Non mi sento all’altezza della narrazione di un’epica storica come Wu Ming, ma mi sento un po’ più all’altezza di un’epica del presente. E se su un libro presente e passato storico sono solo due contesti cronologici differenti, allora le nostre intelligenze possono convergere senza rendersi ridicole.
Arrivo alla conclusione della prima parte di questo intervento per sottolineare che l’interrogativo circa NIE e RF non è lana caprina, le definizioni non sono importanti, ma è una scusa per indagare se il nostro approccio alla scrittura e alla necessità di un’epica quotidiana nuova converga con quello che propone WM1 nel suo saggio, anche considerato il fatto che date le forze esigue sarebbe una buona idea se gli sforzi di tutti puntassero nella stessa direzione.

E forse per me Stella del Mattino è la conferma di questo ragionamento, ma considerata la mail che ho scambiato con WM1 proprio appena prima di iniziare la lettura del romanzo di WM4, non solo per me. La prima cosa che mi è balzata agli occhi mentre leggevo le pagine di Stella del Mattino sono i nodi della narrazione: quando si inizia a scrivere un romanzo o un racconto tutto comincia da alcune scene, da alcuni dialoghi, da alcune immagini sulle quali intavolare tutta la narrazione. In alcuni casi un libro è la scusa per poter scrivere quelle poche righe, una sorta di scheletro su cui modellare corpo che ne evidenzi tutta la bellezza: è la densità della tessitura di questo corpo che costituisce uno dei meriti e dei talenti di uno scrittore. Più la campitura è uniforme, più il talento di chi scrive ha saputo dare una pienezza alle proprie intuizioni. Forse perché è successo anche a me sto diventando più bravo – o almeno così mi pare – nell’individuare i nodi di questo scheletro, le giunture fondamentali. Ed è stato divertente cercare di farlo anche con Stella del Mattino.
Devo anche dire che la mia lettura del libro è stata fortemente influenzata da un’imbeccata che ho avuto da WM1 proprio prima di aprire la pagina del libro di WM4. In uno scambio di mail WM1 mi ha detto: "il Lawrence del 1919 siamo noi che facciamo autocritica sulla mitopoiesi del periodo 2000-2001". La mia testa ha incastrato questo dato con lo scritto di WM1 sulla New Italian Epic, e con il secondo romanzo di Blackswift su cui sto lavorando (e che per pigrizia mia è fermo in un cassetto da qualche mese) che tratta del tema del Ritorno.
Stella del Mattino è certamente l’esemplificazione perfetta di quello che concretamente intende dire WM1 nel saggio sulla New Italian Epic: ne ha tutti gli elementi, e forse in un certo senso è la sperimentazione sulla pelle degli autori di quella riflessione dello stesso concetto. Stella del Mattino parla di T.E. Lawrence, parla di una rivolta romantica e impossibile, del ruolo degli uomini nella storia e nel cambiamento, parla di una guerra combattuta e di come questa cambi le carte in tavola, parla di noi, delle guerre che abbiamo combattuto, dei miti che abbiamo creato e di come li abbiamo traditi, di come abbiamo vissuto il tradimento e di come cerchiamo di tornare alla speranza, a noi stessi, a Itaca, a Genova.
La lettura del libro è racchiusa da due frasi cruciali, che non possono che costituire una sorta di epigrafe per il senso profondo della narrazione in relazione alla storia degli autori, che è poi la storia di una generazione (o forse più) e delle sue battaglie: C.S. Lewis rappresenta la coscienza sporca – e forse un po’ infantile – di questa riflessione, siamo noi incaponiti nella mitizzazione e sordi all’epica, induriti dalle nostre paure e dal timore di non essere all’altezza, è la nostra debolezza. Eroi di cartone, più nel nostro ipocrita immaginario che nella realtà. E all’inizio del libro è proprio lui che ascolta un suo professore di lettere classiche parafrasare l’incipit della Poetica di Aristotele (che da il titolo a questo pezzo non a caso) e che riassume in una frase l’obiettivo e il senso della New Italian Epic (ma anche del nostro progetto narrativo blackswiftiano): "Qui tratteremo del fare nel suo insieme e nelle sue forme, quale finalità abbia ciascuna di esse, e come si debbano comporre i miti affinché il fare vada a buon fine". E C.S. Lewis, all’inizio del suo omerico viaggio (come il personaggio del romanzo che dovrei stare scrivendo e le cui assonanze più che infastidirmi confermano una necessità condivisa), confessa all’amico di essere cieco rispetto alla semplice verità dell’interpretazione del suo professore: "Non vedo cosa i miti abbiano a che vedere con i fatti". Alla fine del libro lo capirà.
Inizia qui la mia interpretazione di Stella del Mattino. Il viaggio dei personaggi, o meglio del lettore e dell’autore, di tutti noi, attraverso la poesia, la narrazione, come azione, come fare, per creare e raccontare miti che servano a costruire un orizzonte condiviso, a ispirare azioni e cambiamenti. E’ qui che inizia il viaggio di Lawrence d’Arabia, già famoso per una versione romantica ed epica di ciò che ha fatto, della rivoluzione araba impossibile che ha guidato, ma che egli stesso percepisce come lontana, come falsa, come una rappresentazione strumentale di qualcosa di ancora incompiuto. Lawrence siamo noi, ma non solo Lawrence, anche gli altri personaggi, che seguono l’eroe in un viaggio parallelo, alla ricerca di un meccanismo per superare i propri limiti e cercare di "decidere come spendere la piccola forza creatrice che ci è stata consegnata", perché "la storia non è lettera morta, noi stessi ne facciamo parte" e perché "le parole danno significato alle cose, usare un linguaggio è costruire un mondo". Queste frasi sono un percorso che viene tracciato parallelamente nella vita dei diversi personaggi, e che accompagnano e risuoano come frequenze armoniche con l’epica dell’eroe principale del romanzo: una è dedicata a un giovane Lawrence dal suo mentore, una a un giovane J.R.R. Tolkien che non ha ancora capito quanta influenza avrà la sua capacità di immaginare mondi e parole sul mondo a venire.
Il libro inizia qui e finisce con i personaggi sulla via del ritorno. Che cosa significa ritorno? Io me lo sono chiesto quando ho iniziato a scrivere il mio secondo romanzo come Blackswift, e la risposta mi è venuta da Calvino: il ritorno è memoria, la memoria serve per agire. E questo libro di WM4, come il saggio di WM1 e le riflessioni che abbiamo fatto con il mio socio, sono la chiosa del pensiero di Calvino a proposito di Ulisse: la poesia, la narrazione, l’epica sono gli strumenti di questa memoria, per agire, per cambiare il mondo. I personaggi del libro di WM4 intraprendono un percorso, illuminato dalla Stella del Mattino, da "Lucifero messaggero dell’Alba" – come Graves apostrofa Lawrence involontariamente intervenendo in una discussione su Meleagro – che guida con la sua luce attraverso il viaggio di ritorno. Il ritorno e il viaggio coincidono, non sono distinti: ogni percorso è un ritorno. Lo ritroviamo nei capitoli finali del libro, che come sempre sono la poetica epigrafe a una narrazione, quando Graves è giunto al termine del suo personale percorso, attraverso la guerra, il dolore, fino a comprendere che è necessario tornare a vivere, per immaginare ancora una storia possibile: "Puntò lo sguardo sopra l’orizzonte e la vide. Era là, a lanciare gli ultimi bagliori, ad annunciare la morte della notte e l’arrivo del sole. […] Le avevano dato molti nomi, senza riuscire a ridurla al potere dell’oscurità, né a quello del giorno. Solitaria, senza genere, unica favilla di una divinità indecisa. La sua virtù era ciò che possedeva: una luce tenue, un coraggio duraturo. Quello che sarebbe servito per attraversare la Terra di Nessuno, vasta quanto il secolo che si estendeva davanti. E per trovare la strada del ritorno." Ed è proprio la poesia intitolata Ritorno della raccolta di Graves che Lawrence sceglie come sua preferita.
Lawrence e i personaggi del libro siamo noi. Siamo noi nel vuoto in cui siamo piombati. La nostra guerra, la nostra rivolta è Genova 2001. Molti non ne sono usciti. Qualcuno ha sepolto quegli anni e il tentativo di creare un mito all’altezza dei nostri tempi in quintali di bugie, di sotterfugi, di ipocrisie, alla ricerca di una assoluzione per sé stesso prima che di una ragione per cui lo abbiamo fatto. E siamo noi che seguiamo l’epica del libro per cercare di ritrovare una strada. Siamo noi C.S. Lewis furente con sé stesso e con i suoi limiti che aggredisce la Stella del Mattino, e che allo stesso tempo vi trova la forza per superare sé stesso: "Questo posto è vuoto. Non c’è più nessuno, solo fantasmi. Solo vedove e orfani di cui prendesi cura. Non sarà il tuo Lawrence a farlo. Lui vienne a offrici oasi e principi in cambio della realtà. Un baratto conveniente, tutto sommato. Solo dio è più a buon mercato. E’ qui il deserto, Charlie. Ed è buio pesto. Non servono favole o prefhiere per venirne fuori, ma il lume della ragione." Siamo noi in balia della nostra rabbia, della nostra debolezza, della nostra incapacità di essere all’altezza dell’epica che abbiamo noi stessi creato.
Il viaggio di ritorno del libro, della storia, della nostra personale epica attraversa quegli anni, li deve rivivere, li deve comprendere, e solo così superarli. La guerra è finita. Il mito non finisce. Perchè "in guerra le cose cambiano" – dice Lawrence al giornalista che non gli crede quando ignora il patto Sykes-Picot – e dopo la guerra cambiano ancora. Ma il mito non finisce. Il mito persiste. Gli eroi persistono. Le persone persistono. E devono vivere, devono sognare, devono continuare a lottare.
Lawrence è "il ritratto della nostra parte oscura" – dice Vaughan quando deve descrivere come lo ritrarebbe, e come lo ha già ritratto anche se il suo interlocutore non lo sa. Ogni personaggio della storia è una parte di noi, un pezzo di specchio a ritroso di Lawrence/Noi, una possibilità di attraversare la storia, e di ritornare a noi, a quello che abbiamo voluto e desiderato, e che ancora non è spento. Perché "del resto gli eroi non sono che invenzioni di poeti. E i poeti sono uomini, a volte sciamani, che in mezzo ad antichi cerchi di pietre si accingono a evocare gli spiriti. […] Riportare in vita i morti non è poi una gran magia. Pochi muoiono del tutto, basta soffiare sulle ceneri, per scoprire le braci ancora calde e far rivivere la fiamma. E chissà che un giorno, tra cent’anni, qualcuno non pronunci l’incantesimo anche per noi, reduci guerrieri dalla corazza ammaccata. […] Alla fine ho fatto la mia scelta. Come direbbe Siegfried, gli amici uccisi sono dovunque vada e non brucio più per redimere i loro peccati. Non sono pentito della mia vecchia, sciocca dolcezza e c’è assoluzione nelle mie canzoni". E gli eroi siamo noi, i guerrieri ammaccati siamo tutti noi, e anche i loro narratori.
WM1 mi dice che "Lawrence siamo noi che facciamo autocritica sulla mitopoiesi del 2001", e questo è evidente nel romanzo: Lawrence che cerca di redimere la propria figura eroica, di rendere la verità, di attraversare lo specchio del suo mito, per costruirne uno nuovo, per saldare il conto con quello che voleva fare. Perchè "la merce più a buon mercato in Arcadia è l’ipocrisia" – come dice Vaughan all’ipocrita C.S. Lewis – e ogni epica è una bugia, ma è anche una verità. Ogni racconto ci da una faccia di quello che accade, è uno strumento per agire, uno strumento per agire in una direzione. Scrivere la storia della nostra rivolta è ancora combattere (Graves a Lawrence), è ancora memoria, è ancora vita, è cercare di "restituire un po’ di colpi".
Il problema è che le epiche, la nostra storia, la nostra vita non è un’equazione, è complicata, e a volte i racconti cercano di farla più semplice di quello che è. Genova 2001 è stata il nostro mito, la nostra piccola derelitta guerra, una guerra che ci è valsa un’immaginario potente e una speranza. Ci abbiamo creduto e abbiamo combattuto, e alcuni ne hanno fatto le spese anche al posto nostro. E poi abbiamo continuato il viaggio. Ma l’unica strada per redimere ogni rivolta è quella di proseguirla, di non mollare, di crederci fino in fondo. E cercare di fare capire a tutti che ogni battaglia non è una strada a senso unico, che ogni epica cela dietro di sé la vita reale, che non si può ignorare. Siamo umani e non possiamo credere di rendere tutto più semplice con un artifizio retorico. Ma essere umani significa anche essere capaci di superare sé stessi.
Lawrence siamo noi quando ci accorgiamo che "Per due anni abbiamo portato un anello come questi. Ce ne siamo serviti per condurre le persone che si fidavano di noi a un trionfo vano. Abbiamo imbrogliato loro e noi stessi. E’ questo che dovremmo scrivere, di quanto ci è costato. Difficile conciliarlo con l’epos della rivolta". Stella del Mattino scrive di questo. Scrive di quello che succede dopo.
"Alla fine mi accorgo che il libro è l’argomentazione di uno che non ha mai visto le cose con chiarezza. Ma adesso penso che forse non è poi cos’ importante. Vedere con chiarezza è un’illusione, un effetto ottico. Perlopiù facciamo quello che facciamo in modo inconscio, alla cieca. Pretendere di decifrare a mente fredda ciò che siamo serve a illuderci di dominare la strada percorsa. E’ un esercizio di vanità. Le cose accadono. Noi possiamo solo fare del nostro meglio per restare in sella". Lawrence lascia questa lettera a Graves consegnandoli il manoscritto. Il suo ritorno è completo: comprende che noi continuiamo oltre l’epica, noi sogniamo oltre noi stessi e i nostri limiti. Ed è per questo che Lawrence è ancora la Stella del Mattino: perché lo comprende prima degli altri. Perchè illumina il ritorno degli altri personaggi che giungono attraverso le selve della propria storia e del proprio dolore, delle proprie guerre e delle proprie paure. E che sanno che una volta finita la notte, c’è ancora un giorno. E che ogni uomo tradisce sé stesso e coloro che lo circondano, che la differenza sta nel cercare di cambiare, nel comprendere quello che lo rende umano, quello che una storia può ancora ispirare e che rende immortale la nostra battaglia. Genova non è finita, perché la storia siamo noi. E noi siamo parte della storia, non possiamo fare finta che non sia così. Come Nancy, la coscienza critica dell’autore, di Lawrence e della nostra epica troppo maschile: "-Non pensa che la responsabilità di quanto accade spetta ai popoli?" E la risposta di Noi/Lawrence: "-Immagino di sì. Tuttavia non posso fingere di non avere avuto un ruolo in quegli eventi."
Le parole hanno il potere di cambiare molte cose, di dare forma alla forza creatrice che ci è stata consegnata, la poesia è il fare affinché i miti possano ispirare un fare che vada a buon fine. Il viaggio termina, ha attraversato gli uomini, e giunge di nuovo a noi. E siamo noi che dobbiamo "usare la poesia per trasmettere la verità, non quella fredda delle cronache, ma la realtà di chi vede spegnersi la vita negli occhi di un compagno", di quello che accade dopo, del dolore, del furore, della crudeltà, della violenza, del nuovo dolore, e della Stella del Mattino che torna a splendere alla fine, quando tutto sembra essere silenzioso. Usare la parola per costruire nuove storie, nuovi mondi: "Non un altro mondo, ma il suo, la gloria e la miseria degli uomini. L’atmosfera, la guerra, il tradimento e la redenzione. […] La coerenza stessa di quel mondo lo avrebbe reso vero agli occhi di chi avesse scelto di esplorarlo. Come un viaggiatore che percorresse terre sconosciute, alla scoperta di qualcosa che aveva preceduto la storia dei comuni mortali e lasciato una traccia di sé nelle saghe scampate all’oblio del tempo." Una Nuova Epica Italiana, le nostre storie, la nostra storia, i nostri eroi. Sapendo che ogni storia, ogni epica, ogni eroe è un uomo, è dolore, è speranza, è un sogno e una battaglia.

"Avanti, vieni avanti. Se questo fosse un dipinto, pensa, avrei una lancia. Se questa fosse una leggenda avrei una fionda o un palo acuminato. La prima ruota arriva sul ponte. Invece ho soltanto questa leva e questo innesco. Adesso. La terra esplode con un ruggito assordante".

Esordio eroico della San Precario CFC

5 Maggio 2008 17 commenti

 

Un passo per volta, un po’ come chi dalla promozione arriva lemme lemme in C2, la San Precario CFC, già Pergola Move, riprova a cimentarsi con l’avventura del Torneo di Calcio dei Centri Sociali e delle Associazioni Antirazziste. Quest’anno abbiamo delle maglie da calcio quasi vere, e riusciamo ad essere almeno 11 alla prima partita. Ciò nonostante la precarietà della formazione è sempre alta: moltissime defezioni (traditori!) sono colmate solo dall’eroico sforzo di alcuni membri della squadra nel reclutare altri devoti alla causa sportiva, ma arriviamo al numero di 12 persone, di cui la maggior parte in carenti condizioni psicofisiche.
Il primo tempo il cuore dei prodi giocatori tiene botta, insieme ai loro polmoni e andati sotto per un bel gol con un diagonale sotto la traversa viene pareggiato da un rasoterra velenoso della nostra ala destra. Subito dopo un pasticcio difensivo e una scellerata uscita del nostro portiere ci costa un secondo gol con indignitoso pallonetto da fuori area. Il sottoscritto si trova sul piede la palla del due a due ma il colpo sotto rimane troppo basso e il portiere della squadra della Scighera in uscita sventa il pericolo. Quasi allo scadere del primo tempo la San Precario CFC ci riprova con una punizione di mezzo esterno destro che viaggia spedita verso il sette della porta avversaria fino a che il portiere non la ferma.
Nel secondo tempo perdiamo il nostro unico cambio per infortunio e rimaniamo 11 persone contate con mezzo polmone a testa. Proviamo la resistenza disperata, ma un’ulteriore pallonetto dopo svarione difensivo, un gran tiro da fuori area e un rigore concesso per un involontario fallo di mano (se era involontario quello di Couto o di Lavezzi era involontario anche questo colpo di mano in salto prima di colpire di testa per togliere la palla dalla testa di un avversario!) ci portano sull’ingiusto punteggio di 5 a 1, su cui concludiamo la prima prova.
Con un po’ di sostituzioni in più a fare da polmoni di riserva e meno disattenzioni difensive la partita poteva essere nostra. Ai posteri l’immagine degli eroici protagonisti di questa avventura sportiva. Disonore e Sdegno per gli assenti, Gloria e Rispetto per i presenti! Prossimo appuntamento il 17 giugno maggio alle ore 17.00