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Archivio per la categoria ‘movimenti tellurici’

Prima assemblea per immagine il decennale dell’hackmeeting di Milano (endecennale dell’hm stesso)

13 Marzo 2009 8 commenti

Sotto la mail che è giunta in lista hackmeeting. Ci sono grandi idee e la voglia di scrollarsi di dosso un po’ di indolenza e un po’ della terribile Milano in cui si sta vivendo. Ce la faremo? Ai postumi l’ardua sentenza 🙂

 

a seguito della discussione in lista partita dalla volonta’
di esprimere solidarieta’ a conchetta, cuore storico della
cultura cyberpunk in italia per tutti gli anni 90, si e’ pensato
di tornare a milano con un hackmeeting.

questa domenica, 15 marzo, alle ore 16 presso la cascina torchiera
occupata senz’acqua (piazza cimitero maggiore, milano)
invitiamo tutti gli acari a partecipare alla prima assemblea
di preparazione

tanto e’ da discutere e da fare, occorre creare il contesto
giusto perche’ questo ritorno a milano lasci il segno, percio’
e’ tempo di cominciare a gettare le basi e vedersi e contarsi.
l’invito e’ esteso anche a tutte le realta’ milanesi che in questo
mese hanno espresso interesse e curiosita’ per hackmeeting.
happy hacking,

Categorie:jet tech, movimenti tellurici Tag:

Bergamo: i fasci armati sfilano, i compagni disarmati vengono caricati

2 Marzo 2009 13 commenti

 

Sabato 28 marzo, mentre per le vie di Milano qualche migliaio di persone sfilavano per dimostrare che Cox18 non deve essere risgomberato da nessuno e che l’amministrazione milanese ha fatto di tutto per trasformare in peggio la città, a Bergamo Forza Nuova inaugurava la sua prima sede orobica, con tanto di presenza onoraria del Camerata Roberto Fiore (per chi non se lo ricordasse uno dei protagonisti del terrorismo nero degli anni settanta, un po’ come se a inaugurare un centro sociale di andasse Moretti, chissà come la prenderebbero i giornalai).

La giornata è andata come al solito: i fasci sono liberi di girare per una città inquadrati e armati, mentre i compagni per essere presenti dietro uno striscione vengono caricati e inseguiti per tutta la città. Niente di nuovo, ma finalmente un video che hanno pubblicato i compagni del Paci Paciana, sfronda la vicenda delle questioni spettacolari della carica, e sottolinea come da parte di alcuni settori di chi gestisce l’ordine pubblico in italia ci sia un occhio fin troppo benevolo a chi ammira squadrismi e semina odio. Complimenti, come al solito.

 

Regime Checklist

20 Febbraio 2009 3 commenti

 

Leggi razziali 

Esautorazione del Parlamento a favore del Duce 

Squadre d’Azione 

Leggi sulla libertà di stampa (versione 2008) 

Reati d’opinione 

Repressione di antagonisti politici 

Ampliamento della discrezionalità della scelta d’azione delle forze dell’ordine 

Equiparazione di forze di polizia ed esercito 

 

E si potrebbe andare avanti ancora molto.

Non c’è un cazzo da ridere.

 

Libertà di coscienza? Libertà di fascismo!

9 Febbraio 2009 14 commenti

 

UPDATE: Se esiste un dio laico, oggi si è manifestato. Eluana è morta, mentre nelle aule di un Parlamento bulgarizzato si cercava di usarla per i propri scopi politici. Adesso da un lato si sprecheranno le frasi di circostanza come quelle di Sacconi in Parlamento che ha avuto il coraggio di dire che "ha sempre rispettato le decisioni del padre di Eluana", dall’altro i dietrofront e le ritirate dalla battaglia contro l’attacco che Berlusconi ha voluto portare alla nostra democrazia. Adesso tutto tornerà sommesso e tutti torneranno a fare finta di niente. Come sempre senza spina dorsale. Come sempre senza pudore e senza dignità.

Riprendo la parola sul caso Eluana e su quello che sta succedendo in Italia. Il mio stomaco è colmo di fiele e l’espressione di Roberto mi ha fatto tornare in gola il sapore acido e amaro di quello che provo e della violenza che mi ispira – e che dovrebbe ispirare molti oggi che invece stanno in silenzio o peggio non riescono a provare neanche questo: rabbia, dolore, odio. Che chiama odio, per certo.

Leggo i giornali, ascolto la radio, guardo il telegiornale e sento la stessa cosa. Odio. Disprezzo. Sgomento. La violenza delle parole e delle opinioni. L’ignavia della volontà. Guardo al paese in cui vivo e mi chiedo come sia possibile buttare in mezzo alla piazza una decisione così privata: se io fossi in punto di morte o in uno stato anche lontanamente paragonabile a quello di Eluana vorrei che fosse chi mi ha amato a decidere di quello che mi deve accadere, e vorrei che decidesse di lasciarmi libera. Questa è l’unica libertà che conta. E’ una verità tanto elementare che i fiumi di parole spesi in questi giorni sono un insulto a questa banalità. 

Ma la rabbia non nasce tanto da questo, quanto da tutto il resto. Da quasi un anno ci barcameniamo in mano a una dittatura formale che ha di fatto annullato la separazione dei poteri che da qualche secolo differenzia la democrazia da altre forme di governo e di vita collettiva dal punto di vista politico. Una dittatura formale che può crescere ed autoalimentarsi grazie alla stupidità e all’inerzia di chi l’ha preceduta. In due anni solo due cazzo di cose doveva fare un governo di sinistra: una legge sul conflitto di interessi e una riforma della legge elettorale per ripristinare le preferenze e consentire alle persone di scegliere chi votare (e se lo devo dire io che non voto praticamente per principio… siamo alle cozze). Invece mesi a parlare del nulla, a scassare le palle ai precari e ai poveracci, a rifarsi la cipria per camuffarsi da persone per bene che con la sinistra come la presentano alla televisione non c’entrano nulla. Un branco di poveracci malati di un grave complesso di inferiorità, bambini troppo cresciuti e con in mano un potere che fa più male che bene, affetti dal disperato bisogno di essere accettati dall’estabilishment come parte in causa, non importa a quale prezzo etico o politico. E grazie a questi mentecatti ci ritroviamo con un Parlamento che non serve a nulla se non a ratificare quello che vuole il Governo, e con un Governo che vuole eliminare la Magistratura (non penso di dover dare dei dati in proposito, no?) e ridurre il resto delle istituzioni a mera funzione di ratifica. Una monarchia elettiva, con a capo un pezzo di merda. Perché poi di questo stiamo parlando. Intorno il silenzio.

Tutti zitti. Tutti lì a fare finta di essere dei bravi cittadini che otterrano tutto con il dialogo con il Mostro. Il Mostro morde, brutti deficienti e non so se vi hanno raccontato le favole da piccoli, ma al Mostro l’Eroe non ha mai detto: senti io capisco le tue ragioni parliamone nella tua tana, lascio qui l’armatura e la spada… Tutti zitti. Tutti zitti e accondiscendenti per non essere tacciati di essere contro. Ma chi se ne frega. Sono contro. Molti sono contro tutto quello che sta accadendo. Non ve ne accorgete? No, perché vivete con i vostri stipendi lautamente immeritati, remoti e alieni alla realtà se non quella ovattata che vi costruite intorno. 

E di fronte all’attacco frontale al modo in cui la nostra claudicante democrazia ha finora funzionato (peggio di quanto vorrei, meglio di quanto sarebbe se lasciassimo mano libera a chi governa in questo momento), che cosa fanno tutti? Non parlano del passaggio a una dittatura sostanziale, del fatto che la riforma di cui ora non si parla ma che verrà votata un minuto dopo la legge sul caso Englaro impone alla Magistratura di sottostare alle bizze della Polizia che diventa l’unica depositaria delle decisioni in merito alle indagini, oppure del fatto che il DDL sul caso è senza precedenti perché vuole essere una legge che blocca una decisione del potere giudiziario (come succedeva quando il Parlamento non esisteva e esistevano solo i Re e le Regine). No. Parlano di libertà di coscienza.

Ma quale libertà di coscienza, brutti imbecilli. Quale libertà. Mostrate un po’ di spina dorsale, o levatevi di mezzo e lasciate che sia un governo di un partito unico. Così nessuno potrà fare finta che ci sia qualcosa di diverso tra quanto stiamo vivendo oggi e quanto l’Italia ha già vissuto novanta anni fa. Chi non ha memoria non ha futuro. Brutti maledetti imbecilli privi di coraggio e di intelligenza. 

 

Sui morti e sui vivi, verso il passato

6 Febbraio 2009 5 commenti

 

Finalmente. Posso dire finalmente. Questo governo (come ho già scritto) è mesi che procede all’indietro nel tempo verso il periodo più buio della storia italiana moderna. Senza remore e senza freni, affrontato solo da una imbelle opposizione di rincoglioniti privi di qualità e da una società incapace di formulare un qualsiasi pensiero critico. Finalmente si apre lo scontro istituzionale che costringe anche i più ignavi  ad accorgersi di come ha funzionato finora il potere in Italia (almeno ultimamente). Un bel mix di mafia e fascismo, moderno, danaroso, senza pudori. Senza paure. E il coperchio è saltato sul corpo di una donna che non vive più da 17 anni, la cui famiglia è sottoposta da mesi a una violenza inaudita, nel compiaciuto silenzio di chi può riempire di questa storia pagine di giornale senza preoccuparsi dell’arroganza di chi amministra il potere politico adesso in Italia. Finalmente tutti non potranno più fare finta che l’unico obiettivo del Presidente del Consiglio è stato, è e sarà farsi gli affari propri incurante del senso della parola "amministrazione del comune". Che a dirlo dobbiamo essere noi che per anni abbiamo sputato su tutto quanto è istituzione e politica di palazzo, vuol dire che i ciechi e i sordi in giro sono davvero troppi. 

Scusate lo sfogo.

 

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La paziente ferocia del Leviatano: sgomberata Conchetta a Milano

22 Gennaio 2009 17 commenti

 


Il mostro attende paziente che le vittime si accoccolino nelle sue fauci e poi con feroce voluttà stringe la mandibola e digerisce tutto ciò che vi è rimasto imprigionato. Non ha fretta, può aspettare, non ha bisogno di rinascere costantemente dalle sue ceneri per avere un senso, come i movimenti. Milano da anni grida di dolore, stranziante e straziata, si fa più cupa, più sorda, più gelida, come la luce del suo sole invernale che sembra un raggio congelante emesso da una stella ormai avviata a morire. Chi vi abita non la sente, non la ascolta, con costume tutto italiano si abitua, si ammutolisce, pensa al suo. I milanesi stanno tradendo la loro città, la sua vita, la sua anima, e lei lo sa. E allora anche prendere e passare una giornata al gelo di fronte a un cordone schierato di sbirri al soldo del vero sindaco della città (sua merdosità De Corato) ha ancora un senso: quello di affrontare il Leviatano con dignità, quello di guardare in faccia Milano per dirle che non tutti hanno perso la capacità di soffrire per le sue grida inarticolate. La strada per cambiare non la conosce nessuno, sarebbe troppo facile, ma si può almeno sperare che a un certo punto erompa dall’asfalto in tutta la sua rabbia. Come è già successo altre volte nella storia.
Magari molti che seguono questo scarno blog non sanno neanche che cos’è Conchetta, e quindi per loro il suo sgombero vuol dire poco, un minuscolo granello nella marea di sfiga e violenza che sono costretti a subire ogni giorno. Ma per Milano vuol dire molto. Conchetta è (era) uno degli spazi sociali più longevi di Milano: in piena zona di movida milanese ha continuato da un ventennio a produrre cultura alternativa, e ad ospitare ogni alito di agitazione politica che attraversasse la metropoli. In conchetta è nata e cresciuta la Shake Edizioni, il gruppo di Decoder, vi si sono rifugiati i punx degli anni ottanta milanesi e non solo, vi si è stabilita la libreria Calusca e l’archivio del suo fondatore Primo Moroni, uno dei pochi angoli di memoria storica dei movimenti in città ancora sopravvissuto.
Stamattina alle sei 20 anni di storia sono stati aggrediti da un manipolo di sbirri e canazzi agli ordini di De Corato che senza uno straccio di mandato e con la sola fregola politica di mostrare un po’ di muscoli in tempi di incipiente campagna elettorale provinciale, ha deciso di forzare i tempi della vicenda di Conchetta 18. Tutti infatti si aspettavano che prima della pronuncia di un giudice sull’istanza di sgombero non si muovesse nulla, ma si sa che ormai chi da 25 anni governa questa città impunemente non si interessa molto né della legge (non saremo noi a farne un’elegia) né ai sentimenti della città e della sua storia. Cancellare tutto, radere al suolo, sbranare il nemico fino a farne brandelli. Questo è tutto ciò che conta. E l’unica speranza è che la ferocia prima o poi ripaghi a dovere chi l’ha seminata.

PS: sabato anche i locali di via Pergola 5 verranno riconsegnati ai proprietari. Un altro pezzo importante della vita di Milano che se ne va. Ho vissuto tre anni splendidi in quell’isolato e prima di me chi vi lo ha fatto nascere e crescere ha segnato momenti altissimi della vita sociale e culturale della città. Gli ultimi hanni – è vero – non hanno reso merito alla storia di quel posto, e per me è difficile digerire l’opportunismo che vi si è installato, ma per chi non è stato così coinvolto e vuole omaggiare le serate che ha amato e le giornate che ha goduto in quei luoghi, sabato c’è l’ultimo party. Non perdetevelo.

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Un giorno per la Palestina

3 Gennaio 2009 6 commenti

 

E’ da quando è iniziata l’offensiva "difensiva" (cit. la Presidenza dell’Unione Europea di marca ceca o forse cieca) israeliana a Gaza mi sono fatto molte domande, reprimendo la furia che mi sale dallo stomaco ogni volta che penso alle migliaia di persone prigioniere e bombardate con il placet di tutto il mondo. Oggi ho avuto l’occasione di dedicare un giorno a tutte le persone che ho incontrato nei territori, a Khaled, a Saif, a Bilal, a Lubna, a tutto il campo profughi di Deheishe, a Meri, che sicuramente ora è sotto le bombe. E’ poco, quasi nulla, rispetto a quello che sarebbe necessario fare, a quello che sarebbe giusto fare, ma è il mio piccolo sasso contro un tank. 

Oggi pomeriggio qualche migliaio di persone ha percorso le strade fredde di Milano, tanti arabi, tanti palestini, bambini, donne, uomini, vecchi, che gridavano che Israele è uno Stato di assassini. Ovviamente sui media italiani si parla solo della fottuta bandiera israeliana data alle fiamme, e anche Moni Ovadia, che stimo per molte altre cose, ha perso l’occasione di stare zitto mentre il suo popolo lo Stato di Israele che rappresenta tutto il suo popolo agli occhi del mondo si comporta come e peggio dei carnefici che ha conosciuto tanto da vicino  durante la Seconda Guerra Mondiale. Oggi pomeriggio Milano era fredda, ma mi è sembrata un po’ più umana di quanto abbia potuto notare negli ultimi due anni. Per alcuni brevi attimi ho risentito quel piccolo inestinguibile calore che sale dalle viscere quando stai partecipando a qualcosa di giusto, in un senso superiore e più alto di quello che potresti intendere tutti i giorni. 

La manifestazione è finita in piazza Duomo, in mezzo allo shopping, ai pischelli ignavi e incuriositi, alle signore impellicciate ignare e disprezzabili. Le stesse signore impellicciate che nel giro di un paio d’ore potevi vedere aggirarsi all’Anteo, a vedere Il Giardino dei Limoni, un film israeliano, semplice e senza sofisticazioni, che cerca di raccontare con equilibrio e con immediatezza tutta la tragedia di quello che avviene in Palestina tutti i giorni: la violenza insensata, l’oppressione, la rabbia che viene alimentata e covata, le contraddizioni all’interno del popolo palestinese, i dubbi degli israeliani di buona volontà e il cinismo di quelli di cattiva volontà. Il filme è molto bello, e vedere tutta quella gente che nel pomeriggio per strada non c’era, o era chiuso in qualche negozio per i saldi, è veramente uno spreco di bile. Il mio commento a fine film è stato: "una bella vacanza studio a Gaza di un mese a calci in culo, poi vediamo se fanno ancora i commenti da intellettuale di sto cazzo dell’ultima ora dopo questo film, loro e le loro pelliccie del cazzo". 

Poi torno a casa, guardo il tg3 (non il tg5 o il tg1 o il tg4) e si parla solo dei razzi "criminali" di hamas, mentre soldati israeliani entrano in un territorio già devastato con carri armati, artiglieria e supporto aereo. Altro che Davide e Golia. L’unica briciola di speranza mi viene quando giro su BBC World e assisto a una doppia intervista con il portavoce del governo israeliano dall’altro, tutto frasi fatte e diplomazia, e Mustafà Barghouti dall’altra, tutto schiettezza e parole semplici ma dirette. In Italia una intervista in cui entrambi i punti di vista di questa guerra siano esposti così limpidamente non la vedremo mai, e questo la dice lunga. Come non vedremo mai l’ex sindaco della nostra Capitale (Ken "il Rosso" Livingstone per essere chiari) dire che Israele sta commettendo un crimine di guerra. Siamo un paese arretrato, stupido e inerte di fronte a ogni cosa. E’ stato così anche nel nostro più buio passato, della cui caduta (quasi) tutti adesso si attribuiscono il merito. 

Il giorno che l’occupazione israeliana verrà denunciata da tutti nel mondo, forse ci sarà una chance che i Palestinesi, cocciuti, orgogliosi e con l’unico tesoro della loro dignità, non si facciano ammazzare fino all’ultimo. Palestina Libera. 

 

L’attesa

20 Novembre 2008 3 commenti

 

Rigiro dal mio socio, dato che è tutta farina del suo esimio sacco. A
volte è meglio romanzarci su. Un racconto Blackswift,
liberamente ispirato alla sentenza Diaz. Anche qui, sul sito noswift.org

La
cosa peggiore che può capitare ad un uomo che trascorre molto
tempo da solo, è quella di non avere immaginazione. La vita,
già di per sé noiosa e ripetitiva, diventa in mancanza
di fantasia uno spettacolo mortale.

X.Y.Blackswift,
L’Attesa (o anche Davide e Golia)

Per
descrivere certe passioni, bisogna muoversi nel confine incerto, se
mai esiste, tra personale e politico. Perché alla fine la
certezza è di ritrovarsi di fronte a una sentenza che chiude
molto più di un processo. Che apre nuove scatole, con dentro
altre scatole e altre scatole ancora. E in ognuna di esse c’è
una storia da scrivere. E ci sarà da cambiarle ancora, le
storie, immaginandone diverse. La realtà non è di questo mondo.

Alla
nostra verità di parte sulla Diaz e sul g8.

Un
anno e più non è uno scherzo, può renderti
diverso,
un anno è la fotografia, di te stesso che vai via.

Ha
i suoi motivi la paura, dovrei saperlo già da un po’.

Il
posto ha un nome che quei tre hanno provato a farsi spiegare. O forse
erano altri, in altre composizioni: altri volti, parole, passato.
Storie mai incrociate, parole sospese in un tempo freddo, con il
calore proveniente solo da una piccola stufa. Odore di legna e di
foglie morte. La loro compagnia è una novità della
serata: un incontro in un posto, uno spostamento, poco dopo, in un
altro. Si erano già ritrovati vicini, senza saperlo. Si erano
già ritrovati a osservarsi, senza capirsi. Ognuno dei tre
pensa, cataloga, mette in fila, tesse trame, cerca sensi. Ognuno,
bisogna precisarlo, riferisce solo a se stesso, perché pare
sia finita da tempo la fase del gioco di squadra.

Il
posto ha un nome. Il nome può voler dire: casino. O
anche: il posto giusto. Anche per aspettare, pensa il primo
uomo
seduto. Sta comodo su un divano avvolto da una coperta
rossa: è duro e leggero, come i pensieri e un nome su una
lista, una riga da tirare, un piacere da togliersi. Lui, pensa, è
l’altro: quello fregato. Quello, a breve, braccato.

Il
secondo uomo non capisce niente delle canzoni: due tipi
cantano accompagnati da fisarmonica e chitarra. E’ un suono caldo e
scuro, rude e bugiardo. Il secondo uomo sta pensando alla
differenza che può esistere tra alcuni concetti espressi a
parole. In alcuni casi, per esempio, si dice confusione. In
altri, paura. In alti ancora, percorsi molto più
banali: una presa in giro, forse. La sua attesa, in ogni caso,
sta per finire.

Il
primo uomo ha ordinato un liquore composto da vari liquori.
Pare sia forte. L’ha scelto non perché debba abbandonarsi a
pensieri contraddittori. Ha voglia di dolcezza e gli piace il colore
rosso scuro che prende il bicchiere. Con acqua calda a creare un
torpore che svanisce in fretta. Fa freddo. Tira fuori il cellulare: è
l’ora. Magari la tipa può dargli una dritta. Succedono
cose strane, in Italia e quella ragazza sembra saperne alcune parti
fondamentali. Gli aveva parlato di percorsi, strade, riti.
Confusione.

Il
secondo uomo è meno preoccupato. In generale, non che
non abbia pensieri. E’ che improvvisamente le cose succedono.
E si perde il sonno a pensare a quando sono cominciate. E’
pur vero che a tornare indietro si capisce meglio il presente. Guarda
il primo uomo: lui si che è preoccupato. Eppure quella
frase l’ha sentita dire proprio da lui. E ha capito di essere nel
posto giusto. Quando il passato si può cambiare, la gloria è
vicina anche agli sprovvisti del fato.

La
donna
beve e canta. Capisce alcune parole della canzone, non
tutte. Ha un bel grattacapo cui pensare. Vive nel riflesso
dell’attesa del primo uomo. Vorrebbe raccontargli altre
attese, vorrebbe spiegarsi. Non lo ha mai fatto. Lo scarto d’età,
d’altronde, con il tempo si complica. Ora lo ha visto: ha commesso il
primo errore. Quella ragazza, lei sa, non potrà chiarirgli
nulla. E’ già tutto piuttosto evidente invece, pensa. Proprio
per quel pensiero, come avesse capito che tutto è abbastanza,
lei ha deciso che lascerà perdere. Quella ragazza, dall’altra
parte, farà di tutto: per non aiutarlo. Lei, la donna, invece:
avrebbe potuto fare qualcosa. Quando gli uomini commettono certi
errori, perdono in un istante tutto. Sono sempre errori fatali.

Il
secondo uomo non sta capendo. Si era fermato a pensare a
quello stato in cui hai la percezione della sofferenza. Non ci poteva
mica fare niente. Il primo uomo gli avrebbe detto una cosa
chiara e tonda, se avesse potuto leggergli nel pensiero: pensi
solo a te
, gli avrebbe detto. Da che pulpito, avrebbe immaginato
il secondo uomo. Quelli come il primo uomo, lui, li
conosceva bene. Ne aveva visto un sacco nella sua vita. Delusi,
frustrati e pronti a giudicare. Scacciò il pensiero e guardò
lei, che guardava lui. Questa cosa, pensa, non deve
succedere. Non stasera.

Il
primo uomo sospira. Si era accorto di avere tenuto per lunghi
istanti lo sguardo fisso. Gli capitava spesso ultimamente. E non
ricordava cosa pensava in quegli attimi. Forse quella donna avrebbe
potuto aiutarlo, o dargli qualche indizio da seguire. Parole, parole,
da buttare.
Si chiedeva questo, in fondo: c’è un’altra
soluzione oltre a quella soluzione? Allora si è messo
a guardarla. E lei guarda lui.

La
donna sa già come andrà a finire: quello che
stasera è un pensiero, domani sarà una pulsione. La
delusione non ammorbidisce, ne è sempre stata certa. Era
uscita scorticata viva e si era riguadagnata la pelle abbandonando la
ragione. Non c’è ragione né mai ci sarà. C’è
la necessità di ricostruirsi la pelle. Per questo gli ha
portato il secondo uomo. Gli ha voluto regalare una cosa. Un
tempo era stata nella sua stessa situazione. Ma un tempo la storia si
raccontava. Ora neanche si sa di viverla. Uomini.

Il
primo uomo guarda davanti a sé e osserva la donna.
Accenna un sorriso. Poi guarda il secondo uomo. Cerca di
ricordare quando lo ha conosciuto, senza sapere neanche il perché.
Il secondo uomo ai suoi occhi sembra irrequieto, ma
determinato, come si stesse concludendo qualcosa. Un lavoro, un
problema, una missione.

Il
secondo uomo si chiede che cazzo ha da guardare il primo
uomo
. E ripensa alla sua storia: ricercatore della prima
università che gli era venuta in mente. Venezia: mai stato.
Aveva anche studiato tre mesi per arrivare preparato. In fondo
l’idea non era stata male. Gli piacevano i diversivi. In
alcuni casi si dice: colpi di fortuna.

Il
primo uomo pensa di essere pronto. Sa già come finirà.
Dal cellulare nessun segnale e non è una novità.
Disadattato. Confondere le cose non è da lui, ma c’è
rimasto in mezzo, come si suol dire. Incastrato, senza sapere
bene perché. Sente l’atmosfera delle grandi decisioni: se sarà
come immagina, dovrà fermare la sua rincorsa. Per un po’ di
tempo, almeno. Avrebbe bisogno di: qualcuno che gli spiegasse le
cose, in un altro modo.

Il
secondo uomo comincia a battere il tempo col piede, a terra.
La chitarra si è fatta rapida e spinge verso accordi
tambureggianti. La fisarmonica si muove scattante, a cercare suoni
improvvisi, da adattare alla nuova velocità del ritmo. Lui
guarda il primo uomo e pensa che è il momento di uscire
a fare una pisciata. E una telefonata.

La
donna
vede il movimento del secondo uomo e si scosta, per
farlo passare, senza neanche guardarlo in faccia. Quello che ci
voleva, pensa. Rimanere soli, un attimo. Qualche istante per
accorciare le distanze e provare a ricacciare indietro il pensiero.
Da quanto non ci pensa, si ripete. Da quanto non ne parlo, sussurra.
Il secondo uomo è ormai verso la porta, la donna si
avvicina al tavolo e guarda il primo uomo davanti a sé.
E come ogni volta che una persona ha voglia di spiegarsi, comincia il
discorso con una domanda. Ascoltare, per parlare: non tutti lo
capiscono.

Il
primo uomo inizia, senza sosta: è che la gente non sa,
dietro quale dolore si nasconde una notte, esordisce. E non si
possono sapere i peripli che una vita prende, cercando di mantenere
intatto un modo di essere. Finché ti accorgi di essere
cambiato, perché hanno voluto cambiarti, forse. E sai che
andrai incontro solo a oblio e delusioni, incomprensioni, solitudini,
mestizia, rabbia, pazzia. Ma in fondo, mi chiedo, aggiunge: è
una via di fuga, o un’ulteriore accettazione delle cose? Si ferma e
riprende a parlare: leggo di giudizi: e ora qualcuno si rimetterà
a fare questo e quello, a seguire strategie suicide, quando invece è
meglio lasciare perdere. E’ questo che non so fare, aggiunge l’uomo,
lasciare perdere. La vita, ribadisce, forse è solo
questo: verificare i propri limiti, scegliendo. E più
scegli e più sei insofferente. E più sei
insofferente, più ti accorgi di esserlo. E guai se avessi
un coltello
, termina, per tagliare.

La
donna
osserva le mani, le braccia, i movimenti del primo uomo.
La vita è un calcolo razionale dei limiti, quando li
consideriamo irrazionali. E lei lo ha messo di fronte alla
possibilità di capirne uno, tutto suo. Tra qualche ora, pensa,
il primo uomo saprà di diventare un braccato. Può
eliminare fin da subito un nemico: il secondo uomo. La donna
si chiede se ne avrà la forza, la disperazione. E si augura di
no. Ma sa bene che in quella notte, per lei, non ci sarà
dolcezza. Non darà niente a un corpo alla ricerca di una meta
irrealizzabile. Ha già dato ascoltando. Ora tocca solo a lui.

Il
secondo uomo ora ha un problema: la telefonata è stata
chiara: cancellare. Eliminare. Togliere di mezzo. Levare dal cazzo,
annientare, spaccare tutto. La ragazza con cui ha parlato era stata
chiara: il primo uomo mi ha cercata. Ha capito. Vuole sapere.
Quindi, aveva risposto il secondo uomo? Quindi, aveva risposto quella
ragazza, cancellare, please. Il problema a quel punto era la
donna
. Tra quei due qualcosa doveva essere successo. Forse
proprio la notte in cui lui si era addormentato e non aveva seguito
quei due per le viuzze. Ogni tanto li vedeva prendersi la mano, nelle
notti passate. E quella notte, ne era certo, la dolcezza doveva
vincere per quei due. Due idee, mica due persone. La notizia
che stava per arrivare avrebbe sviluppato traiettorie strane, rapide
e desiderose di calore. Si toccò sotto la spalla destra. Era
lì, calda, pulsante, attiva, pronta. Il secondo uomo
entra nel bar e li vede. Stanno parlando. Se è come pensa, ha
un fottuto problema.

La
donna
osserva l’entrata: intravede il secondo uomo farsi
avanti. Guarda il primo uomo e gli dice, semplicemente: quello
è un tuo nemico. Il primo uomo la guarda. E’
bianco, spettrale, non ha più le parole pronte. Nessuna
citazione, frase, ricordo, frammento. Sorseggia la bevanda e capisce:
non si scherza mica più. Le chiede in che senso stia parlando.
E lei rapida, gli sussurra un nome. Un ricordo della memoria, lontano
per interi giorni e riaffiorato solo in quegli istanti che
precedevano la notizia tanto attesa e già sospettata. La
donna
decide che sarebbe andata via, subito.

Il
primo uomo osserva la donna e poi il secondo uomo. Sta per
entrare. Ha il passo deciso, si tocca sotto l’ascella e il primo
uomo
capisce. Attorno a loro ci sono tre persone, non di più.
Il primo uomo pensa, rapido: al tribunale, alle sue uscite,
agli strani incontri, ai personaggi che si muovono in silenzio, senza
riflettori. Uomini che agiscono, cambiano, motivano e determinano.
Uomini che fanno la storia. Uomini come il secondo uomo.

Il
secondo uomo entra e fa in tempo a vedere la donna che
si alza e se ne va, senza salutare nessuno. Guarda fissa davanti a
sé: ha gli occhi sbarrati. Il secondo uomo si mette di
fronte al tavolo. Il primo uomo lo guarda. Si osservano ed è
fin troppo chiaro: hanno capito tutto. Potrebbe fare un bel casino,
ma decide di sorridere, il secondo uomo. La situazione si
mette bene, pensa.

Il primo uomo ha già capito: non c’è
uscita. Loro sono dappertutto. E’ una guerra.

Non
l’hanno mica ancora capito, pensa il secondo uomo, mentre si
siede, sorridendo.

La
donna
cammina, appoggiando i piedi a terra con un ritmo tutto
suo. Ha visto, ha pensato, ha sognato: le catenelle, i sospiri, i
sorrisi, i pianti, le botte, la violenza, il male. E a breve
tutto diventerà storia: dimenticata, mai raccontata. Finirà
nel buco nero della vulgata comune. Diventerà un’altra cosa,
un’altra storia.

Vivere significa essere partigiani

19 Novembre 2008 4 commenti

 

Il testo che c’è sotto l’ho mandato a Carmillaonline il giorno della sentenza. Per vicissitudini personali di Valerio, Giuseppe e Roberto (i miei ganci da quelle parti) è stato pubblicato solo oggi. In ogni caso lo rigiro qui.

 

Vivere significa essere partigiani

Sabato 21 luglio 2001. E’ notte. I cortei e gli scontri che hanno
ribaltato la città di Genova sono finiti e la gente torna a casa stanca
e provata dalle botte, dalle corse, dai gas lacrimogeni, dalla violenza
della polizia, dalla paura, dalla sensazione che sarebbe potuto
accadere di tutto, che sia accaduto di tutto, ma che possa accadere
altro ancora. Sono in pochi a rimanere, principalmente nei grossi
centri di accoglienza: piazzale Kennedy, lo stadio Carlini, le scuole
Diaz e Pascoli, dove l’attività di comunicazione e assistenza legale
freme ancora. Per il resto migliaia di persone sono nelle stazioni e
sulle autostrade. La maggior parte delle persone pensa che ormai sia
finito tutto, che l’adrenalina di tutti stia lasciando il posto a una
spossatezza infinita. E proprio quando la penombra è al massimo della
sua intensità, quando gli occhi collettivi del mondo stanno per
chiudersi per passare al prossimo spettacolo, ecco che le luci si
riaccendono al massimo della loro intensità.

Squadracce di gente in divisa calano sulle due scuole dove si trova
la sede del GSF, indymedia, radio gap, molti media alternativi e
indipendenti, la sede del Genoa Legal Forum e un paio di centinaio di
persone che vogliono solo dormire prima di andarsene a casa. Nel giro
di un attimo sfondano cancelli e portoni e irrompono nelle due scuole:
al media center distruggono materiali e cercano di tappare occhi e
orecchie dei movimenti; alla scuola Diaz vogliono solo vendicarsi.
Vogliono avere compensazione, si direbbe in altri contesti, della
frustrazione che hanno provato in questi giorni in cui la rivolta ha
dimostrato loro quanto il potere che detengono e difendono non valga
nulla, quanto sia fragile ed etereo. La rivolta li ha fatti infuriare,
li ha stupiti e colti di sorpresa, li ha umiliati. E come un animale
ferito e armato hanno reagito nell’unico modo che sanno: hanno
preparato, organizzato e lanciato un’operazione semplice e violenta,
irrompere, picchiare, attribuire la colpa alle vittime. Deboli coi
forti, forti con i deboli. Come sempre. E poi una bella firmetta su un
verbale di arresto a sancire il fatto che l’operazione sia stata
legittima e necessaria, nonché giustificata.
Purtroppo per l’ennesima volta in quei giorni fanno male i calcoli:
l’irruzione si protrae più del previsto; arrivano media e parlamentari;
tutto il mondo si accorge dell’operazione e della sua grossolana
funzione. Nonostante questo per molti mesi pensano che lo Stato li
coprirà. Nonostante questo si arriva a un processo. Che dura anni. Il
processo è finito il 13 novembre 2008: tutti coloro i quali hanno
organizzato quella operazione infame sono stati assolti; tutti coloro
che hanno partecipato come ultime ruote del carro, coloro che hanno
picchiato perché gli è stata data mano libera, coloro che hanno portato
due bombe molotov in una scuola dove non ce n’erano per addossarle alle
vittime di una inumana violenza sono stati condannati; tutte le vittime
hanno ricevuto qualche spicciolo per non lamentarsi troppo.

Questa è la storia. Le vicende del G8 di Genova hanno molto da
insegnare a tutti coloro che vogliono prestare anche solo un attimo di
attenzione. I libri non la racconteranno così. I libri resteranno sul
vago quando andrà bene, oppure ignoreranno la più grande rivolta dopo
gli anni sessanta e settanta in Italia e forse non solo. Ma la gente
che era lì non la dimenticherà. E la rabbia che proviamo oggi di fronte
a questa sentenza non deve trarci in inganno, deve trasformarsi in
fatti, parole, ricordi, oggetti. Personalmente non ho mai creduto che
finisse diversamente da così: la giustizia è un meccanismo intrinseco
al potere, e non può permettersi di condannare coloro che la traducono
in fatti operativi tutti i giorni. I giudici, i poliziotti, i politici,
i governanti, gli imprenditori stanno da una parte. Noi, i poveracci, i
subalterni, gli sfruttati, i deboli stiamo dall’altra. Questa è la
grande verità di Genova, ed è anche la verità che più di tutte in
questa epoca cerca di essere nascosta. Non è tutto uguale, esistono
parti da prendere. Vivere significa essere partigiani. E alle volte
quando si prende una parte, si perde, anche se era la parte giusta.
Quando ho saputo della sentenza – già perché dopo quattro anni di
presenza in tribunale proprio negli ultimi tre mesi non sono potuto
essere presente – una delle prime cose che mi sono venute in mente è
stato Stella del Mattino,
di Wu Ming 4. Come ho già scritto altrove, quel libro parla proprio di
Genova e di quello che ci ha lasciato, di quello che ha significato per
tutti noi che siamo stati lì e l’abbiamo vissuta. Alla fine del libro,
come alla fine di tutto quanto è stato Genova, non ci resta che il
coraggio di credere che qualcosa possa ancora accadere, che la rivolta
continui ad esistere come possibilità se non come realtà. La sentenza
che chiude la vicenda Diaz, una vicenda talmente lapalissiana che è
difficile credere con quale faccia tosta verrà giustificata dai cavilli
legali dopo essere stata giustificata dall’inazione politica, deve
diventare la nostra stella del mattino: quella luce che tutti conoscono
e che nessuno può negare, eppure quella distanza che ci fa capire che
solo agire e lottare cambia ciò che ci circonda. Se saremo capaci di
imparare questo allora questi anni di lavoro e di parole non saranno
stati una donchisciottesca tenzone con mulini a vento parecchio più
grandi di noi.

Con i compagni e le compagne che hanno seguito Genova giorno dopo
giorno con me abbiamo scritto che non abbiamo rimorsi per quanto
accaduto a Genova, che quanto è avvenuto in quei giorni ci ha dato
coraggio e ci ha trasmesso il senso delle parole dignità e libertà.
Oggi per molti sarà il giorno dei rimpianti in un senso o nell’altro,
ma non per me. Rimpianti significa non aver fatto quello che si
riteneva giusto e necessario. Noi non possiamo averne. Perché ci
aspettano ancora molte cose. Ancora molte cose possono accadere sotto
il cielo e sotto Venere, e molta rabbia è pronta ad esplodere da sotto
la cenere. Fino a quando non ci saranno più storie da raccontare, da
ricordare o da vivere.
Ognuno di noi può demolire un mattone del Palazzo di giustizia di
Genova. Ognuno di noi può ancora lottare ed essere un partigiano.

Processo Diaz: la legge è uguale per tutti…

14 Novembre 2008 5 commenti

 

Imputato,
il dito più lungo della tua mano
è il medio
quello della mia
è l’indice,
eppure anche tu hai giudicato.

Hai assolto e hai condannato
al di sopra di me,
ma al di sopra di me,
per quello che hai fatto,
per come lo hai rinnovato
il potere ti è grato.

Ascolta
una volta un giudice come me
giudicò chi gli aveva dettato la legge:
prima cambiarono il giudice
e subito dopo
la legge.

Oggi, un giudice come me,
lo chiede al potere se può giudicare.
Tu sei il potere.
Vuoi essere giudicato?
Vuoi essere assolto o condannato?

 

Se non sapete di cosa sto parlando, andate a dare un occhiata sul sito di supportolegale, che stasera di tempo per la didattica non ne ho molto. Oggi si è conclusa una fase della mia vita che è durata circa 8 anni. Si è conclusa con una sentenza che a fronte di una storia che ormai tutto il mondo conosce assolve gli organizzatori di una rappresaglia premeditata che è costata quasi la vita ad almeno una decina di persone e la salute a molte di più. Certo i Canterini-boys sono stati condannati e alle vittime hanno dato 1000-2500 euro di danni. Una vera fortuna, no? Chissà quante caramelle si potranno comprare. Il tribunale di Genova, come era ormai palese considerato la condotta in aula del suo presidente Gabriele Barone (sempre molto accondiscendente con le difese degli imputati e molto intransigente con pubblica accusa e parti civili), ha lanciato un segnale chiaro nei confronti di tutti coloro che si degnino di ascoltare, un segnale di impunità e di connivenza con quella rappresaglia. Questa impunità costerà cara a qualcuno, perché tutti coloro che in questi anni hanno combattuto contro questi criminali in divisa sanno bene che per costoro la rappresaglia adesso è solo all’inizio. La speranza è che la sentenza non insegni solo a questi signori che possono fare quello che vogliono tanto saranno protetti da Stato e Giustizia, ma che insegni anche a chi ancora pensa di lottare e partecipare alla vita politica del paese che c’è solo un modo per affrontare gli sbirri e non prevede una interazione democratica. Quello che dice la sentenza è questo. E forse era necessario che un atto che non c’entra con quello che accade quotidianamente inviasse un segnale chiaro di come si stanno mettendo le cose. La sentenza non è uno schiaffo al passato, ma una affermazione del presente e del futuro. Una lezione di storia che come tutte le lezioni utili non serve solo per quello che è già accaduto ma soprattutto per quello che accadrà. Il tempo per scegliere è ormai vicino e nessuno potrà pensare che basterà lasciarsi scorrere la merda che ci arriverà in faccia addosso perché tutto torni entro quella che ci piace chiamare normalità.

Comunicato di supportolegale sulla sentenza Diaz

 

AMNISTIA PER LA POLIZIA!

Giovedì 13 novembre 2008 si è concluso l’ultimo dei tre grandi
processi di primo grado per gli eventi legati alle proteste contro il
G8 del luglio 2001 a Genova.
Il processo a 29 funzionari di polizia per l’irruzione alla scuola Diaz
che terminò con 93 persone arrestate illegalmente e 61 di queste ferite
gravemente si è concluso con una sentenza esemplare: sedici assoluzioni
e tredici condanne.
Il tribunale ha deciso di condannare solo gli operativi e di assolvere
a pieno titolo chi ha pianificato un’operazione vendicativa e meschina.
Di assolvere le menti che per giustificare una carneficina hanno deciso
di piazzare due bombe molotov recuperate nel pomeriggio tra gli oggetti
rinvenuti, di mentire circa l’accoltellamento di un agente, di coprirsi
l’uno con l’altro raccontando incredibili resistenze da parte degli
occupanti della scuola e saccheggiando il media center che vi si
trovava di fronte. La ciliegina sulla torta del presidente Barone e
delle sue due giudici a latere Maggio e Deloprete: alle vittime di
quella notte va qualche spicciolo, tanto perché nessuno si lamenti di
essere stato tagliato fuori da una immaginaria torta.

Alla lettura della sentenza nessuno di noi si è meravigliato. Non
siamo delusi, non siamo tristi, né pensiamo alcuno dovrebbe esserlo.
Siamo solo furiosi.

Non abbiamo mai creduto che la giustizia fosse veramente "uguale per
tutti", non abbiamo mai creduto che chi esercita il potere avrebbe
ammesso di essere giudicato, di essere messo in discussione.
Ma il dileggio con cui è stata confezionata questa sentenza parla da
sé: l’amnistia per la polizia è la seconda parte di quell’operazione
vendicativa e meschina che ha portato alla Diaz.
E’ il secondo tempo della vendetta per la frustrazione e il terrore che
lo Stato e i suoi apparati hanno provato in quei giorni di rivolta. Non
ce l’hanno mai perdonata e non ce la perdoneranno.
La sentenza che chiude questo ciclo di processi di primo grado dovrebbe
essere una lezione di storia, e forse grazie ad essa restituiremo la
dignità a una vicenda che ne ha avuta molto poca, perché molti oltre a
noi si accorgeranno di
qualcosa che è la base di quanto è successo a Genova in quei giorni.
Esiste una posizione per cui parteggiare: quella degli insofferenti,
quella dei subalterni, degli sfruttati, dei deboli, di coloro che
lottano per un mondo migliore e più equo.
Ed esiste un’altra posizione, quella di chi comanda ed esegue, di chi
tortura e vìola, dei forti con i deboli e dei deboli con i forti,
quella di chi esercita il potere e lo coltiva.

Nella vita bisogna scegliere. Noi lo abbiamo fatto, oliando
meccanismi di memoria che altrimenti avrebbero condannato all’oblìo una
pagina nera della storia italiana e internazionale. Noi lo facciamo
tutti i giorni. Non abbiamo rimorsi e non abbiamo rimpianti per quanto
è avvenuto.
Solo rabbia. E non siamo i soli.
Supportolegale