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Archivio per la categoria ‘oscuro scrutare’

I buoni e i cattivi

9 Ottobre 2009 11 commenti

 

E’ il discrimine totale e definitivo, quello che ci offre ogni evento, ogni storia, ogni narrazione, ogni situazione. Il più facile e immediato, quello che non manca mai, il crinale lungo il quale scegliere da che parte stare. Neanche la voga del postmodernismo è riuscita a scalfire il mito di una divisione perfetta tra gli uni e gli altri, alimentata da secoli e secoli di semplificazione. Io, da sempre, fin da quando ero piccino, ho sempre preferito i cattivi. Non ci sono cazzi. Mi sono sempre piaciuti Dillinger, Bonnot, Vallanzasca, gli Indiani e financo Cattivik. Perché? Perché i buoni sono ipocriti e parteggiare per loro è una forma di ipocrisia ancora più viscida, fatta di menzogne taciute anche a sé stessi e di facili schieramenti, perché i buoni vincono sempre anche quando non lo meritano, perché i buoni incarnano ciò che è giusto e naturale che sia giusto, sono l’autoassoluzione dalla propria stronzaggine e della propria intima miseria egoistica. Sono un insopportabile assioma, una tautologia vivente (almeno nelle narrazioni), uno schiaffo alla realtà. Invece stare con i cattivi significa cercare di capire la verità, di capire che cosa succede, di non fermarsi alla facile apparenza e al conformismo di ciò che è giusto o di ciò che è sbagliato secondo "chiunque". Stare con i cattivi significa cercare, pensare, decidere.
Anche Genova è una storia con i buoni e i cattivi, anzi con tanti buoni e tanti cattivi, a seconda del punto di vista di chi vi racconta cosa è successo. Così ci sono i buoni per antonomasia, i poliziotti, le forze dell’ordine, quelli che ci proteggono, e i cattivi per definizione (almeno in questi decenni di bulimia dei consumi e di anoressia dei cervelli), i manifestanti, quelli che fanno casino. Ma anche spostando un po’ più in là l’asticella della nostra narrazione, ci sono sempre i buoni, i manifestanti pacifici, e i cattivi, i manifestanti cosiddetti violenti. Quindi, anche spostandosi più in là possibile con il punto di vista, rimane sempre bello limpido il discrimine: da un lato i buoni e dall’altro i cattivi, i violenti.
Ora: tralascerò una disanima sul termine violenza, una parola che non digerisco più. Intendiamoci: capisco perfettamente la sua denotazione, ma non riesco più ad accettarla come parte del mio lessico da quando è diventata un connotato di giustizia, da quando ciò che è violento è necessariamente sbagliato, come se avesse intrinsecamente un valore morale, come se violento fosse un aggettivo etico e non qualificativo di una situazione. Feroce è morale, forte è morale, prepotente è morale, ma violento in sé non è né buono né cattivo. Almeno fino a quando non hanno deciso di sciacquarci il cervello in un Arno fatto di equidistanze e privazione della capacità di prendere posizione, di decidere in base a ciò che viviamo e che vediamo intorno a noi.
La sentenza di appello per i fatti avvenuti nelle strade di Genova durante il G8 del 2001, nell’arco del famoso processo ai 25 – e se non sapete di che parlo fate una bella ricerchina in rete che non ne posso più di riassumere gli eventi – ha sancito una volta di più che quel discrimine non si può valicare se non a costo di gran parte della propria vita. I buoni, via via nei mesi, sono stati tutti assolti: chi pienamente perché santo subito (De Gennaro, l’ex capo della polizia, e compagnia), chi parzialmente con sentenze che assomigliano più a strigliate che non a condanne (Diaz e Bolzaneto), chi di straforo per culo o per inciso (mancanza di prove o risarcimento per aver subito una carica studiata a tavolino per scatenare il delirio a Genova come nel caso delle Tute Bianche in via Tolemaide, anche se su questo evento e sulla gestione giudiziaria della cosa si dovrebbe parlare a lungo per mille motivi, fatto salvo che sono contento per coloro che sono stati assolti). I cattivi pagano pegno: 10-15 anni a testa, zitti e muti. Con buona pace della storia e della ricerca della verità. Tra dieci e quindici anni. Pensiamoci ogni tanto alle cose che leggiamo o quelle che sentiamo al telegiornale.
I moralisti diranno: bene, se lo meritano. I loro compagni diranno: male, Stato bastardo e assassino. Io – pur condividendo questa seconda posizione diciamo in termini formali e ideologici – voglio ragionare con chi mi legge. La decina di persone che è stata condannata è il capro espiatorio di un evento storico che nessuno vuole guardare in faccia. Anche a distanza di anni, i libri scritti su Genova – sia da ex poliziotti che da (ex) compagni – non vengono comprati, non vengono letti, non vengono discussi. Tutti sono lì a nascondersi quello che è avvenuto, quello che hanno provato, la voglia di violenza che si è scatenata (o che qualcuno ha voluto scatenare, su questo non saremo mai d’accordo e forse non è possibile esserlo) in noi e intorno a noi. Così una decina di persone che ha causato qualche migliaio di euro di danni a un’altra decina di persone viene condannata a più anni che non qualcuno che ha ucciso (ucciso = ammazzato = morto) una persona, o di qualcuno che a truffato decine di migliaia di euro a tutti i cittadini italiani, o che ha aggredito e violato la dignità e l’incolumità fisica di una persona (uno stupratore ad esempio). 15 anni. Sono molti da passare in carcere per aver rotto dieci vetrine. Ma una pena più lieve non sarebbe stata abbastanza per i cattivi. E se i cattivi non sono più cattivi, i buoni non possono essere i buoni, e chi ci capisce più nulla? Non si può fare, converrete con me. Ci toccherebbe cercare di capire quello che è successo, la complessità del mondo in cui viviamo. Ma non è cosa per poveri esseri umani italiani del terzo millennio.
Rimane la rabbia. Rimane la frustrazione per non essere in grado di spiegare quanto sia semplice e brutale la situazione, quanto sia inevitabile e quanto nessuno voglia né conoscere quello che è avvenuto in quei giorni, né porsi il problema di che cosa significhi la parola giustizia o la parola violenza. Rimane l’istinto alla violenza. Rimane ciò che ci circonda. Rimane il disgusto. Rimane il discrimine e la possibilità di scegliere se stare da un lato o dall’altro del crinale. Io non ho cambiato idea.
Rimane la consapevolezza che è giunto il momento di leggere la realtà, di rendersi conto che lo spazio per la rappresentazione, per l’opinione, per la manifestazione è morto da tempo, annullato, vituperato, strumentalizzato. Che se volete dare libero sfogo alla vostra idea, se volete essere partigiani, non potete lasciare spazio ai dubbi. E’ il tempo di fare, di agire: che sia come riformisti (candidarsi, eleggersi, schierarsi, infilarsi in istituzioni di merda varie), che come radicali (tralascio gli esempi, ma penso che Bonnot o il subcomandante Marcos li conosciamo tutti). Non si può più aspettare che succeda qualcosa indipendentemente dalla nostra pochezza. Io sono un codardo, un vigliacco, o forse non sono abbastanza bravo o capace per fare passi così tetri, duri e cinici. Ma ammettendo il mio limite saggio anche il margine con cui mi accosto al crinale. Lo spazio per le speranze è finito da tempo e la storia sarà sempre e comunque di chi saprà scegliere, schierarsi e lottare. E di chi pagherà per questo. Intendiamoci: non servono martiri, ma servono persone che non abbiano paura di fare la cosa giusta. Io sabato 21 luglio avrei bruciato tutta la città. Mi fermai di fronte a decine di miei amici e compagni con cui avrei dovuto venire alle mani per fare quello che ritenevo giusto. Sbagliai. Altri non sbagliarono. Perché di fronte all’assalto alla nostra libertà di quei giorni e dei giorni che sono seguiti da allora, quello che fecero è ancora troppo poco, ma ne possono certamente andare orgoliosi (magari in nicaragua, eh? 🙂
Ho usato esempi estremi, ma ci sono milioni di situazioni quotidiane in cui chiunque di noi può essere un militante della propria statura etica. Non si può più aspettare e osservare il crinale. Bisogna calpestarlo, attraversarlo, cavalcarlo, viverlo. Il versante dei cattivi. Il versante dei giusti.

 

Police partout justice null part

9 Maggio 2009 2 commenti

 

Ci ho messo qualche giorno a metabolizzare la cosa, a digerire la rabbia che mi risale nella gola più degli antibiotici. Giovedì 7 maggio la Corte di Cassazione si è pronunciata sul processo per i fatti del San Paolo, confermando la sentenza di appello. Se non sapete di cosa sto parlando adesso faccio un piccolo riassunto senza pretese di esaustività. E’ una storia di merda, senza se e senza ma, e si conclude dimostrando una cosa sola: che la giustizia è al servizio del potere e del più forte, che per i deboli e per chi si oppone a un sistema non c’è altro che repressione e violenza. E che non si capisce perché si dovrebbero ripagare braccia e menti del potere con altro che questa stessa moneta.

Immaginate una sera di primavera. Dipingetevi in riva a un canale di acque placide, circondati da molta gente ma non troppa. Raffiguratevi l’aria leggera dei primi mesi caldi, la luce che scompare sempre più tardi oltre l’orizzonte, il pensiero che si ricomincia a vivere per strada con meno fatica. Prendete un martello e frantumate lo specchio in cui avete rappresentato questa scena: quel colpo sono le coltellate che un vostro amico, un vostro compagno si prende in una vietta laterale, insieme ad altre due persone, a pochi passi da un commissariato di polizia e da un noto centro sociale. Gli aggressori sono un nazista e i suoi due figli, con un cane chiamato Rommel, tanto per capirci. La vittima è Davide Cesare, detto Dax, che muore praticamente sul colpo. Delle altre due persone una rimane gravemente ferita. 

Ora immaginatevi a correre a perdifiato verso l’ospedale dove hanno portato il corpo del vostro amico e gli altri. Immaginate di non sapere nulla di come sta, impazziti alla ricerca di una buona notizia qualsiasi. Arrivate davanti al pronto soccorso del San Paolo e ci trovate la polizia, entrate, chiedete, nessuno sa nulla, nessuno vi risponde. Poi esce un carabiniere in borghese e ironizza sul fatto che il vostro amico è morto. Altri agenti intanto stanno interrogando in malo modo le altre persone ferite come se fosse colpa loro aver preso una coltellata. Percepite la rabbia che monta? Percepite la sensazione di impotenza?

Ecco, ora immaginate che le forze dell’ordine anziché defilarsi per evitare che gli animi si scaldino continuino a sfottere e che parta qualche spintone. Immaginate che arrivi un reparto della celere e che scenda dal furgone già in assetto antisommossa e cominci a caricare, fino dentro le corsie del pronto soccorso. Immaginate gente messa a terra, ammanettata e picchiata a manganellate, e carabinieri girare intorno all’edificio con mazze da baseball tirate fuori dai cofani delle auto di servizio. Siete ancora lì? Guardate una ragazza con un braccio rotto chiusa in auto e minacciata, poi lasciata a duecento metri di distanza con la minaccia di non farsi più vedere, inseguimenti, grida, insulti, pestaggi. E immaginate che qualcuno abbia filmato tutto.

Poi arriva il processo. Contro quei poliziotti e quei carabinieri che si sono comportati da animali sanguinari? Che hanno deriso la morte di un vostro amico? Contro i tre nazisti che hanno ammazzato una persona? No. I tre nazisti fanno un processo a parte e il maggiorenne prende poco più di dieci anni di carcere, mentre il padre che lo accompagnava praticamente nulla. Se c’eravate voi di fianco a un’omicida a incitarlo vi davano sicuro 20 anni per concorso morale. Ma a loro no. Ma non è questo il processo: il processo San Paolo vede come imputati quattro dei ragazzi davanti all’ospedale tra cui uno dei feriti e il ragazzo ammanettato a terra e pestato a manganellate da un carabiniere e un poliziotto coraggiosi. Loro sono accusati di resistenza, perché ovviamente da terra avranno cercato di evitare i colpi per esempio. A processo ci sono anche due carabinieri e due poliziotti, per lesioni e abuso d’ufficio. 

Il processo è a senso unico: giudice e pm vogliono dimostrare la famosa tesi del tutti colpevoli della violenza, nessuno responsabile. Gli avvocati delle forze dell’ordine che sono bravi ragazzi che onorano la divisa e che magari hanno sbagliato ma senza malafede, a massacrare di botte gente che voleva solo sapere cosa era successo a un loro amico accoltellato. Secondo voi com’è finita? E’ finita che le forze dell’ordine nonostante i video, nonostante tutti sappiano cosa è successo, sono state praticamente tutte assolte. Due dei compagni presenti (tra cui quello colpevole di aver tentato di schivare i colpi mentre era ammanettato e pestato a terra come immortalato in un video) sono stati condannati a un anno e sei mesi e a pagare i danni al pronto soccorso (fatti dalle forze dell’ordine) per 120 mila euro. 

Poi chiedetevi perché quando vi ritrovate coinvolti in una situazione di tensione con di mezzo la polizia non dovreste cercare di spaccare quanto più cose e persone possibili. Tanto pagherete comunque. Essere ragionevoli non conviene in un mondo in cui ha ragione solo il più feroce e il più figlio di puttana. 

I dati che riporto potrebbero non essere tutti esatti. I server di autistici sono incasinati e la mia memoria vacilla, ma la sostanza c’è tutta: non sarà un mese in più o in meno di condanna a cambiare l’aberrazione che rappresenta. E quanto dimostra il sistema in cui viviamo e come ognuno dovrebbe regolarsi. 

Il giorno dopo questa sentenza ho portato i pischelli della mia prima media al Museo di Storia Naturale. Arrivato ai Giardini di Porta Venezia ho incrociato le macchine della Digos che solerti sorvegliavano innocui rifugiati sdraiati sull’erba. Mi hanno salutato come una vecchia conoscenza, mentre li guardavo in cagnesco e bestemmiavo sottovoce. Sono tornato a scuola verso le 13.30 e ho incrociato i bambini delle elementari che tornavano da una bellissima gita alla caserma del reparto mobile (di via Cagni penso) di milano, gente meritoria, che ha partecipato anche se un po’ defilata alle cariche su via Tolemaide e ai fatti di piazza Alimonda (se qualcuno non lo sapesse la piazza dove è morto Carlo Giuliani). Ho visto i bambini scendere, con i poliziotti in divisa antisommossa che gli davano il cinque e facevano grandi sorrisi, ognuno con il suo cappellino della Polizia Italiana. E’ un quartiere difficile quello della mia scuola, e qualcuno pensa che questa sia "educazione alla legalità", che serva a far diventare persone migliore i ragazzi destinati a una vita sospesa tra violenza e criminalità. Io penso di no. E non per ideologia, ma perché penso che uno non debba diventare una persona capace di distinguere il bene dal male solo perché ha come modello coloro che esistono solo per punire. Penso che un ragazzino dovrebbe capire come si fa a vivere insieme agli altri e non idealizzare il ruolo dei cani da guardia. 

Mi sono fermato e mi sono chiesto. Quei sorridenti e affabili celerini avranno avuto il coraggio di raccontare a quei bambini in gita del processo San Paolo, dei loro errori della violenza in cui si tuffano come un pesce nell’acqua? Non penso. Perché anche gli sbirri se ne vergognano ed avere il coraggio non è una dote di cui abbondano nella media: intendiamoci, non è un problema delle forze dell’ordine. La pavidità è un problema dell’uomo. Ma per insegnare ai ragazzi a diventare degli uomini e delle donne adulti forse dovremmo essere capaci di trasmettere cose diverse che non l’autorità e la necessità di vivere sorvegliati e imprigionati, repressi e controllati: coraggio, onestà, responsabilità. Basterebbe questo. Nessuna delle qualità che quei celerini potrà mai dire a cuor leggero di avere a meno di non dimenticare troppe vicende della storia recente del nostro paese. 

Mai come oggi mi echeggia in testa un famoso slogan del maggio 68 francese: Police par tout, Justice null part. La giustizia quella vera, non quella dei tribunali ma la virtù a cui si appellano quando emettono le loro sentenze, è antitetica alla violenza e al sopruso che la polizia e le forze dell’ordine rappresentano nel loro agire quotidiano. E non vedo all’orizzonte un evento che cambi questo stato di cose e che mitighi il mio odio e la mia rabbia.

 

Genova: dall’altra parte della barricata

29 Marzo 2009 6 commenti

 

Pre Scriptum: quella merda del mio socio approfittando della mia temporanea carenza di connessione mi ha bruciato sul filo di lana e ha pubblicato la recensione di questo libro prima di me, nonostante il testo glielo abbia prestato io. 

Genova sembrava d’oro e d’argento è il secondo romanzo di Giacomo Gensini, ex celerino. Scritto senza particolare bravura e senza particolare infamia, ha però un grande pregio. E’ la storia di uno stronzo. E’ la storia vista e raccontata da qualcuno che sta dall’altra parte della barricata, anche se definire la barricata è l’impegno più interessante. Ha i suoi limiti e i suoi pregi, e devo dire che mi aspettavo di peggio.
Ormai di Genova hanno parlato tutti, e non c’è motivo per cui non ne parli anche la voce di uno sbirro del VII Nucleo Antisommossa – i famosi Canterini boys – e proprio per questo per me, che ho vissuto quei giorni, i giorni successivi e gli anni che hanno trascinato con loro le ricostruzioni, gli atti dei tribunali e i racconti di chi è stato e di chi stato non è, è un libro interessante.
Se dovessi darne una descrizione direi che è la dichiarazione di ineluttabilità di quanto è avvenuto e di quanto avviene, direi che alla fine dei conti per chi sta da quella parte della barricata archiviata la constatazione di un sistema marcio di cui essere ingranaggio, l’unica giustificazione è quella dell’inevitabilità del tutto, della dimensione intrinseca alla natura umana e alla società di quanto Genova è stato e ha rappresentato per tutti. E io penso che sia un po’ troppo comodo.

"Il consumismo, l’ipercompetitività, il mito del successo, l’individualismo patologico esasperavano le frustrazioni e acuivano la violenza. Un sistema fuori controllo e sempre più squilibrato provocava squilibri. Per questo la finzione dei diritti non poteva durare a lungo. Prima o poi, se l’apparato (del quale chi più chi meno facevamo parte) voleva sopravvivere, la repressione doveva diventare metodica e libera dagli  ideali delle rivoluzioni del diciottesimo secolo."
"I potenti e le lobby che li sostenevano si vedevano nella città dei Doria per decidere le loro quote di mondo. Niente di più. Noi e i manifestanti non avevamo alcun ruolo in tutto questo, non eravamo influenti, se non a un livello infinitesimale. Ma avremmo fatto un sacco di colore."


Il libro è onesto, secondo me, e molto istruttivo di come si percepisce lo sbirro medio del reparto mobile, delle contraddizioni che vive, delle ragioni che si da, al di fuori della retorica e dell’ipocrisia. Anche quando dipinge i poliziotti come uomini e non come robot o come fanatici: mette a nudo le contraddizioni e perpara il terreno per la vittima sacrificale delle spiegazioni che Gensini si è dato di Genova: la necessità antropologica e storica.
"Fatto sta che le veline ottenevano un unico scopo: renderci ogni giorno più nervosi. Caricarci come molle. […] Era il peggior modo possibile di reagire, ma anche l’unico. E non parlo della solita storia di rischiare la pelle per milletrecento euro al mese, con tutta la retorica annessa. Queste alla fine erano cazzate: l’avevamo scelto. Parlo del fatto che noi comunque eravamo e restavamo uomini. Credevano davvero che indossare un caso e una tuta ci rendesse immuni alla fatica e alla paura? Immuni alle emozioni… alla tensione, alla rabbia? No… nessuno di loro lo credeva davvero, […] ma fingevano che non fosse né possibile né accettabile, difendendo l’ipocrita mondo immaginario raccontato in tv."
"Perché quello che condividiamo non è la divisa, ma un segreto. Un segreto sull’umanità e sulla sua miseria. Sullo squallore della sua cieca violenza, sui suoi egoismi, sulle ipocrisie. Noi sappiamo cosa c’è dietro la facciata. Ed è questo che ci rende fratelli."
"Ma gli scioperi, gli sfratti, le rivendicazioni sociali di qualunque tipo sono un’altra cosa. Ogni volta dobbiamo trasformarci in automi, ogni volta. Quello che ci salva è che i nostri antagonisti scatenano regolarmente su di noi la loro rabbia, come fossimo stati noi a decidere. E noi non possiamo fare altro che difenderci."
"Lo spettacolo è incredibile, Genova sembra bruciare di mille incendi, un fumo nero e denso sale al cielo. Sirene lontane, grida lontane e un sole che sorride cattivo, soddisfatto dello spettacolo. Genova avvolta dal fumo e dalla rabbia… bellissima e nuda. Non so perché alzo le braccia al cielo e grido un grido di trionfo, grido la mia rabbia e la mia gioia. Grido per liberare la tensione. Grido perché era cos che l’avevo immaginata e desiderata. Grido perché so che questo è solo l’inizio."


Dopo questa sbrodolata di tuttosommato apprezzamenti veniamo al dunque. L’accusa più grande che si trova nel libro sostanzialmente è che laddove i poliziotti sono meccanismi inconsapevoli ma schietti del conflitto di potere, i manifestanti sono invece parte di quel conflitto di potere stesso. L’autore assume nei confronti della nostra parte della barricata un atteggiamento solo un filo meno stereotipato del solito, cercando di condirlo con l’esperienza diretta: la Rete Lilliput dei poveri deficienti che hanno difeso i violenti, i disobbedienti un branco di politicanti ipocriti e pagliacceschi, i black bloc quelli che volevano scontrarsi sul serio, gli antagonisti, i violenti.
"Una società individualista non può essere non violenta. L’individuo ha una grande considerazione di sé stesso. Alla fine sopporta la violenza solo in astratto, e solo se riguarda gli altri, ma ci mette poco a peedere la testa se riguarda lui. Non ti tiro un sasso per la fame nel mondo e le politiche neoliberista, te lo tiro se mi dai una manganellata. [….] Via Tolemaide è una conseguenza naturale. Noi, se non altro, ci risparmiamo l’ipocrisia di un sorriso falso. Noi non siamo non violenti. Noi siamo quello che siamo."


Devo dire che è una lettura interessante, e in alcuni tratti simile a quella che do io delle vicende genovesi, e che forse un giorno riusciremo ad approfondire, quando le ferite si saranno rimarginate e la ragione prenderà il posto dell’emozione. Gensini individua perfettamente alcuni meccanismi, quelli del potere, e anche mi strappa un sorriso quando mi rendo conto di quanto siano simili le sue posizioni rispetto alle decisioni delle tute bianche o dei vertici della polizia e dei giornalisti. Questo dimostra quanto è sottile il crinale che si può percorrere per interpretare i fatti, e quanto sia semplice sciogliere la propria responsabilità in un fatalismo ipocrita, salvo poi accusarne gli altri.
E’ su questo crinale che alcune crepe si aprono nell’onestà intellettuale di Gensini. L’esempio più eclatante sono: l’omissione della carica sul lungo mare a cui partecipa anche il VII nucleo e che nel libro viene liquidata con il commovente episodio di François (i dirigente del reparto che secondo me è identificabile in Michelangelo Fournier) che rifiuta di caricare la gente senza una via di fuga (ci ricordiamo tutti come è andata, no?); la trasformazione di uno degli arrestati più celebri del g8, il ragazzo brancato in piazza Tommaseo che canta la Marsigliese mentre lo portano via in un gigante ciclopico per forza e coraggio (il tizio è alto 175 cm e non particolarmente nerboruto). Mi si risponderà che gli eventi sono frutto di fantasia e non DEVONO corrispondere al vero. Reality Fiction. Ci mancherebbe, io sono d’accordo, quando servono ad alimentare la narrazione, ma non quando sembrano solo una patina giustificatoria su qualcosa per cui si ha la coscienza un po’ sporca. La mattanza.
E’ su questo livello che il libro non mi è piaciuto molto, sul poco coraggio nel prendere posizione su alcune vicende, per scioglierle tutte nell’ineluttabilità di eventi che era deciso andassero a finire così, come se la morte di Carlo, o la perquisizione alla Diaz, o anche gli scontri potessero finire in un solo modo, predestinato da qualche Demiurgo non troppo sveglio.
"Ma intuisco che non è tutta la verità. Che in tanti hanno congiurato per quella morte di cui non conosco ancora niente. Non solo l’impreparazione dei giovani carabinieri, la follia dell’essere umano e il cinismo dei media. NOn solo la demagogia di chi ha portato in piazza centinaia di migliaia di persone in piazza senza servizio d’ordine. Non solo il destino."

Il problema che il libro solleva è che Genova non è solo una singola barricata. Chi c’è stato e chi non c’è stato non può fare finta di nulla. Deve capire che cosa significano le mille barricate che ha rapprentato, chi c’era da un lato e chi era dall’altro, e soprattutto come sono passate le persone da un lato all’altro. Ognuno sa che non è così semplice liquidare la questione con la retorica dello "scontro con gli sbirri maledetti" o con quella del "potere occulto che ha deciso che dovevamo essere uno strumento di violenza". Genova è complicata, ha vissuto di 300.000 anime e oltre, di violenza, di spettacolo, di potere, di parole, di azioni, di simboli.
"Alla fine ho capito una cosa: era in quello che eravamo, lì era nascosta l’essenza della nostra tragedia. Il settimo nucleo aveva un destino e quel destino era nel suo carattere, nel carattere degli uomini che lo componevano e lo comandavano. Era solo andata come doveva andare e in fondo lo sapevano tutti, anche noi."
Io invece non ho capito questo. Io a Genova non ero quello che ero, né quello che sono. E’ troppo comodo nascondersi dietro al fato, agitare un cinismo un po’ ostentato e confortevole, decidendo di non affrontare quello che si è fatto e come lo si è fatto. Io sono contento di aver letto questo libro, mi ha fatto pensare e ripensare a quello che ho vissuto e a come lo ho vissuto, e mi ha esposto un altro punto di vista. Ma non è il mio.
Su quelle barricate, ognuno di noi deve salirci e ci è salito. E ha scelto. Come ho già scritto in molti altri interventi, vivere significa essere partigiani, significa scegliere, significa sbagliare. Io so che quello che abbiamo fatto è stato qualcosa di grande, e non cerco giustificazioni per quanto di sciocco o sbagliato possa esservi stato. Il giorno che racconteremo noi la storia di Genova, spero di poter dire che in essa non ci sarà nessuna concessione all’ipocrisia, e che avremo cercato di affrontare la verità di quello che abbiamo conosciuto senza nasconderci dietro un dito. Avremo cercato di spiegare perché per alcuni è stata solo politica, per altri è stata vita, per altri un incidente, per altri ancora un’occasione. Avremo cercato di raccontare un punto di vista totalmente opposto a quello del celerino Gensini: che i sistemi non cadono da soli, ma cadono quando le persone decidono che è il momento di dire basta e di inventarsi qualcosa di nuovo e terribile. Anche a costo di fare molte cose sbagliate.


We have been nought, we shall be all.

 

Bergamo: i fasci armati sfilano, i compagni disarmati vengono caricati

2 Marzo 2009 13 commenti

 

Sabato 28 marzo, mentre per le vie di Milano qualche migliaio di persone sfilavano per dimostrare che Cox18 non deve essere risgomberato da nessuno e che l’amministrazione milanese ha fatto di tutto per trasformare in peggio la città, a Bergamo Forza Nuova inaugurava la sua prima sede orobica, con tanto di presenza onoraria del Camerata Roberto Fiore (per chi non se lo ricordasse uno dei protagonisti del terrorismo nero degli anni settanta, un po’ come se a inaugurare un centro sociale di andasse Moretti, chissà come la prenderebbero i giornalai).

La giornata è andata come al solito: i fasci sono liberi di girare per una città inquadrati e armati, mentre i compagni per essere presenti dietro uno striscione vengono caricati e inseguiti per tutta la città. Niente di nuovo, ma finalmente un video che hanno pubblicato i compagni del Paci Paciana, sfronda la vicenda delle questioni spettacolari della carica, e sottolinea come da parte di alcuni settori di chi gestisce l’ordine pubblico in italia ci sia un occhio fin troppo benevolo a chi ammira squadrismi e semina odio. Complimenti, come al solito.

 

Nelle mani di nessuno: sbirritaggine e il patema del ripetersi

11 Febbraio 2009 Commenti chiusi

 

Un anno fa ho scritto una breve recensione di un libro molto interessante, pubblicato da Piemme Editore, a firma Gianni Palagonia, pseudonimo di un poliziotto che raccontava le proprie esperienze in polizia in un romanzo. E’ uscito un suo secondo volume, intitolato Nelle Mani di Nessuno. Fare un buon libro può succedere, ripetersi è molto difficile. E Palagonia non sfugge a questo paradosso.

Il primo libro era molto interessante e onesto, nonostante una certa tendenza a giustificare le forze dell’ordine senza se e senza ma. Il secondo libro di Palagonia è molto meno lucido, forse anche a causa di una fase difficile nella vita privata dell’autore – infilata nel libro con un gusto del patetico (senza offesa, eh!) un po’ ostentato. Molte delle cose che racconta rimangono interessanti, ma questa volta il senso di "orgoglio sbirresco" è molto più stucchevole, il libro è scritto in maniera meno scorrevole, e risente decisamente di più della visione unilaterale di chi l’ha firmato.

Rimane molto interessante non tanto per capire il metodo di indagine della polizia italiana, o le difficoltà che i "poveri poliziotti" incontrano, quanto per la sua presentazione senza veli e senza ipocrisie – questo bisogna riconoscerglielo – della forma mentis dello sbirro, della "sbirritaggine" come la definisce lui stesso. Il libro si può leggere in vari modi, il modo in cui lo leggo io è questo: a fianco di una denuncia chiara dello stato di prostrazione in cui versa la democrazia del Paese (su questo io e Palagonia siamo addirittura d’accordo), affiora chiara una visione del mondo in cui le forze dell’ordine dovrebbero poter avere accesso alla vita privata di tutti, incondizionatamente e senza alcun freno. Ogni legame, per quanto tenue o privo di implicazioni realmente pericolose per la società, deve poter essere sondato, scandagliato, rubato alla vita delle persone civili, sacrificato sull’altare della necessità di indagine, della volontà di potenza contro il crimine. Alcune parti dello scritto di Palagonia potrebbero ben svegliare molti benpensanti che non capiscono esattamente cosa vorrebbe dire affidare ogni aspetto della "sicurezza" del paese alle forze dell’ordine. 

Per sua natura – come dice Palagonia – lo sbirro è portato a sospettare, a cercare il losco anche dove non c’è, a insidiare la vita di chi lo circonda per "sventare il crimine". Lo sbirro che vuole fare lo sbirro è un invasato – anche giustamente se vogliamo – ma pensare che possa agire senza alcun controllo è un pensiero tanto terrorizzante quanto quello che di fronte alla criminalità vera, a quella che concretamente dobbiamo affrontare per le strade, siamo spesso soli o male accompagnati 🙂 E’ evidente che la soluzione di una plenipotenziaria polizia che mi faccia vivere in un mondo pulito pulito non mi convince, e che continuo a pensare che senza una revisione radicale del modo di vita delle persone non cambierà molto e saremo sempre qui a fregarci l’un l’altro o a guardarci le spalle per non essere fregati. 

Palagonia sintetizza in maniera molto cruda sia lo spirito sbirresco che il suo doppio, la vita delle persone nella società moderna. Ma entrambi non sono la cura di nulla, ma solo i sintomi della medesima malattia. Grave per giunta. Palagonia scrive nei primi capitoli del libro quello che ogni poliziotto cerca di mandare a memoria come massima per sopravvivere, traendolo da una bacheca sindacale interna: "L’amore e l’amicizia vanno e vengono. L’odio no. Se hai un nemico, non sei mai solo". E alla fine la vita di Palagonia raccontata nel romanzo segue questo fil rouge, mentre i suoi amori e le sue amicizie vengono ingoiate dal gorgo, lui continua imperterrito ad inseguire un nemico via l’altro.

Tutto vero. La modernità è soprattutto questo. Ma allora non si stupisca Palagonia se per molti il fanatismo di uno sbirro non è molto diverso da quello dei loro nemici. E spesso la realtà è molto più complicata di un banale feticcio come quello di un nemico liquidato il quale tutto sarà come avremmo voluto che fosse. Il contrario sarebbe più comodo e facile per tutti. Anche per me. 

PS: ci sarebbe molto da dire sul libro e se qualcuno ha voglia di ragionarne nei commenti è il benvenuto. Oggi mi sembra di aver scritto solo una parte delle cose su cui avrei voglia di ragionare, e di averlo fatto in maniera imprecisa e incompleta. Prendete il tutto con beneficio di inventario 🙂

ACAB

3 Febbraio 2009 6 commenti

 

ACAB è un libro crudo. ACAB è un libro utile. Sfrondato di qualche parapiglia autogiustificatorio è una finestra aperta senza timore sul mondo degli sbirri. E non aperta da qualcuno che crede di sapere come stanno le cose tra tutori dell’ordine, ma dai poliziotti stessi. I protagonisti sono noti: Michelangelo Fournier, vice comandante del VII nucleo antisommossa a Genova (quelli della Diaz per capirsi) e due comandanti di squadra dello stesso nucleo che non rivelano il loro nome ma usano i loro nomignoli: lo Sciatto e Drago. Più una serie di comprimari tra poliziotti e protagonisti della Roma più nera, nel senso politico del termine. La domanda da cui parte il libro, o forse da cui partono i protagonisti, è la stessa che molti di noi si stanno ponendo da tempo: la ferocia del presente, del mondo in cui viviamo, del Paese che ci circonda, da dove arriva? E soprattutto dove finisce? Cosa succede?
Ovviamente i protagonisti del libro danno una risposta tutta loro, plausibile per la loro formazione e che conferma quello che molti di noi sanno e pensano delle forze dell’ordine, ma che le persone che non setacciano al di là del loro naso spesso scelgono di ignorare: è colpa dell’assenza di una borghesia all’altezza in Italia, è colpa della scarsa formazione liberale, è colpa della ferocia stessa e dell’incapacità di superarla, è colpa di una sinistra che non sa fare altro che giocare di rimessa e piagnuccolare (senza alcun progetto alternativo di società, aggiungerei io).
Altrettanto banalmente la risposta che danno i poliziotti evidenzia anche la nostalgia per l’autorità, per una diseguaglianza che però mette ognuno al posto loro, e manifesta un disagio che se non fossero poliziotti non esiteremmo a definire esistenziale e sociopatologico. ACAB ci fa scoprire che i poliziotti sono dei disadattati, nella maggior parte dei casi, come noi attivisti, peraltro. La grossa differenza è che noi lo sappiamo – nei casi in cui l’intelligenza non ci ha abbandonato – e sappiamo che però il nostro disadattamento è indice dell’immaginazione di qualcosa di diverso da quello che ci circonda. Mentre per gli "sbirri" è un tratto che non viene rilevato, per il quale non c’è posto nella percezione di se stessi, e che quindi snobbato e negletto si trasforma in frustrazione, in origine del mito della banda, della Famiglia.
ACAB ci mostra un lato della ferocia che spesso le persone si rifiutano di vedere, anche quando è sotto il loro naso. Ci mostra un lato della devianza che spesso rimane nascosto dalle infinite giustificazioni di cui gode chi indossa una divisa solo per il fatto di indossarla. Ma è un libro onesto, lucido, che non si nasconde. E’ un libro che merita di essere pubblicato e letto, e per il quale ringrazio non solo Carlo Bonini, ma anche i poliziotti che hanno deciso di parteciparvi, anche se sono certo l’abbiano fatto per motivi molto diversi da quelli per cui io lo apprezzo. Per loro è stata una specie di sessione di analisi, per me l’occasione di dare in mano a qualcuno un oggetto che gli/le faccia attraversare un specchio. Quello della semplificazione con cui si osserva il mondo che ci circonda e i suoi "paladini". Voto: 8

 

L’attesa

20 Novembre 2008 3 commenti

 

Rigiro dal mio socio, dato che è tutta farina del suo esimio sacco. A
volte è meglio romanzarci su. Un racconto Blackswift,
liberamente ispirato alla sentenza Diaz. Anche qui, sul sito noswift.org

La
cosa peggiore che può capitare ad un uomo che trascorre molto
tempo da solo, è quella di non avere immaginazione. La vita,
già di per sé noiosa e ripetitiva, diventa in mancanza
di fantasia uno spettacolo mortale.

X.Y.Blackswift,
L’Attesa (o anche Davide e Golia)

Per
descrivere certe passioni, bisogna muoversi nel confine incerto, se
mai esiste, tra personale e politico. Perché alla fine la
certezza è di ritrovarsi di fronte a una sentenza che chiude
molto più di un processo. Che apre nuove scatole, con dentro
altre scatole e altre scatole ancora. E in ognuna di esse c’è
una storia da scrivere. E ci sarà da cambiarle ancora, le
storie, immaginandone diverse. La realtà non è di questo mondo.

Alla
nostra verità di parte sulla Diaz e sul g8.

Un
anno e più non è uno scherzo, può renderti
diverso,
un anno è la fotografia, di te stesso che vai via.

Ha
i suoi motivi la paura, dovrei saperlo già da un po’.

Il
posto ha un nome che quei tre hanno provato a farsi spiegare. O forse
erano altri, in altre composizioni: altri volti, parole, passato.
Storie mai incrociate, parole sospese in un tempo freddo, con il
calore proveniente solo da una piccola stufa. Odore di legna e di
foglie morte. La loro compagnia è una novità della
serata: un incontro in un posto, uno spostamento, poco dopo, in un
altro. Si erano già ritrovati vicini, senza saperlo. Si erano
già ritrovati a osservarsi, senza capirsi. Ognuno dei tre
pensa, cataloga, mette in fila, tesse trame, cerca sensi. Ognuno,
bisogna precisarlo, riferisce solo a se stesso, perché pare
sia finita da tempo la fase del gioco di squadra.

Il
posto ha un nome. Il nome può voler dire: casino. O
anche: il posto giusto. Anche per aspettare, pensa il primo
uomo
seduto. Sta comodo su un divano avvolto da una coperta
rossa: è duro e leggero, come i pensieri e un nome su una
lista, una riga da tirare, un piacere da togliersi. Lui, pensa, è
l’altro: quello fregato. Quello, a breve, braccato.

Il
secondo uomo non capisce niente delle canzoni: due tipi
cantano accompagnati da fisarmonica e chitarra. E’ un suono caldo e
scuro, rude e bugiardo. Il secondo uomo sta pensando alla
differenza che può esistere tra alcuni concetti espressi a
parole. In alcuni casi, per esempio, si dice confusione. In
altri, paura. In alti ancora, percorsi molto più
banali: una presa in giro, forse. La sua attesa, in ogni caso,
sta per finire.

Il
primo uomo ha ordinato un liquore composto da vari liquori.
Pare sia forte. L’ha scelto non perché debba abbandonarsi a
pensieri contraddittori. Ha voglia di dolcezza e gli piace il colore
rosso scuro che prende il bicchiere. Con acqua calda a creare un
torpore che svanisce in fretta. Fa freddo. Tira fuori il cellulare: è
l’ora. Magari la tipa può dargli una dritta. Succedono
cose strane, in Italia e quella ragazza sembra saperne alcune parti
fondamentali. Gli aveva parlato di percorsi, strade, riti.
Confusione.

Il
secondo uomo è meno preoccupato. In generale, non che
non abbia pensieri. E’ che improvvisamente le cose succedono.
E si perde il sonno a pensare a quando sono cominciate. E’
pur vero che a tornare indietro si capisce meglio il presente. Guarda
il primo uomo: lui si che è preoccupato. Eppure quella
frase l’ha sentita dire proprio da lui. E ha capito di essere nel
posto giusto. Quando il passato si può cambiare, la gloria è
vicina anche agli sprovvisti del fato.

La
donna
beve e canta. Capisce alcune parole della canzone, non
tutte. Ha un bel grattacapo cui pensare. Vive nel riflesso
dell’attesa del primo uomo. Vorrebbe raccontargli altre
attese, vorrebbe spiegarsi. Non lo ha mai fatto. Lo scarto d’età,
d’altronde, con il tempo si complica. Ora lo ha visto: ha commesso il
primo errore. Quella ragazza, lei sa, non potrà chiarirgli
nulla. E’ già tutto piuttosto evidente invece, pensa. Proprio
per quel pensiero, come avesse capito che tutto è abbastanza,
lei ha deciso che lascerà perdere. Quella ragazza, dall’altra
parte, farà di tutto: per non aiutarlo. Lei, la donna, invece:
avrebbe potuto fare qualcosa. Quando gli uomini commettono certi
errori, perdono in un istante tutto. Sono sempre errori fatali.

Il
secondo uomo non sta capendo. Si era fermato a pensare a
quello stato in cui hai la percezione della sofferenza. Non ci poteva
mica fare niente. Il primo uomo gli avrebbe detto una cosa
chiara e tonda, se avesse potuto leggergli nel pensiero: pensi
solo a te
, gli avrebbe detto. Da che pulpito, avrebbe immaginato
il secondo uomo. Quelli come il primo uomo, lui, li
conosceva bene. Ne aveva visto un sacco nella sua vita. Delusi,
frustrati e pronti a giudicare. Scacciò il pensiero e guardò
lei, che guardava lui. Questa cosa, pensa, non deve
succedere. Non stasera.

Il
primo uomo sospira. Si era accorto di avere tenuto per lunghi
istanti lo sguardo fisso. Gli capitava spesso ultimamente. E non
ricordava cosa pensava in quegli attimi. Forse quella donna avrebbe
potuto aiutarlo, o dargli qualche indizio da seguire. Parole, parole,
da buttare.
Si chiedeva questo, in fondo: c’è un’altra
soluzione oltre a quella soluzione? Allora si è messo
a guardarla. E lei guarda lui.

La
donna sa già come andrà a finire: quello che
stasera è un pensiero, domani sarà una pulsione. La
delusione non ammorbidisce, ne è sempre stata certa. Era
uscita scorticata viva e si era riguadagnata la pelle abbandonando la
ragione. Non c’è ragione né mai ci sarà. C’è
la necessità di ricostruirsi la pelle. Per questo gli ha
portato il secondo uomo. Gli ha voluto regalare una cosa. Un
tempo era stata nella sua stessa situazione. Ma un tempo la storia si
raccontava. Ora neanche si sa di viverla. Uomini.

Il
primo uomo guarda davanti a sé e osserva la donna.
Accenna un sorriso. Poi guarda il secondo uomo. Cerca di
ricordare quando lo ha conosciuto, senza sapere neanche il perché.
Il secondo uomo ai suoi occhi sembra irrequieto, ma
determinato, come si stesse concludendo qualcosa. Un lavoro, un
problema, una missione.

Il
secondo uomo si chiede che cazzo ha da guardare il primo
uomo
. E ripensa alla sua storia: ricercatore della prima
università che gli era venuta in mente. Venezia: mai stato.
Aveva anche studiato tre mesi per arrivare preparato. In fondo
l’idea non era stata male. Gli piacevano i diversivi. In
alcuni casi si dice: colpi di fortuna.

Il
primo uomo pensa di essere pronto. Sa già come finirà.
Dal cellulare nessun segnale e non è una novità.
Disadattato. Confondere le cose non è da lui, ma c’è
rimasto in mezzo, come si suol dire. Incastrato, senza sapere
bene perché. Sente l’atmosfera delle grandi decisioni: se sarà
come immagina, dovrà fermare la sua rincorsa. Per un po’ di
tempo, almeno. Avrebbe bisogno di: qualcuno che gli spiegasse le
cose, in un altro modo.

Il
secondo uomo comincia a battere il tempo col piede, a terra.
La chitarra si è fatta rapida e spinge verso accordi
tambureggianti. La fisarmonica si muove scattante, a cercare suoni
improvvisi, da adattare alla nuova velocità del ritmo. Lui
guarda il primo uomo e pensa che è il momento di uscire
a fare una pisciata. E una telefonata.

La
donna
vede il movimento del secondo uomo e si scosta, per
farlo passare, senza neanche guardarlo in faccia. Quello che ci
voleva, pensa. Rimanere soli, un attimo. Qualche istante per
accorciare le distanze e provare a ricacciare indietro il pensiero.
Da quanto non ci pensa, si ripete. Da quanto non ne parlo, sussurra.
Il secondo uomo è ormai verso la porta, la donna si
avvicina al tavolo e guarda il primo uomo davanti a sé.
E come ogni volta che una persona ha voglia di spiegarsi, comincia il
discorso con una domanda. Ascoltare, per parlare: non tutti lo
capiscono.

Il
primo uomo inizia, senza sosta: è che la gente non sa,
dietro quale dolore si nasconde una notte, esordisce. E non si
possono sapere i peripli che una vita prende, cercando di mantenere
intatto un modo di essere. Finché ti accorgi di essere
cambiato, perché hanno voluto cambiarti, forse. E sai che
andrai incontro solo a oblio e delusioni, incomprensioni, solitudini,
mestizia, rabbia, pazzia. Ma in fondo, mi chiedo, aggiunge: è
una via di fuga, o un’ulteriore accettazione delle cose? Si ferma e
riprende a parlare: leggo di giudizi: e ora qualcuno si rimetterà
a fare questo e quello, a seguire strategie suicide, quando invece è
meglio lasciare perdere. E’ questo che non so fare, aggiunge l’uomo,
lasciare perdere. La vita, ribadisce, forse è solo
questo: verificare i propri limiti, scegliendo. E più
scegli e più sei insofferente. E più sei
insofferente, più ti accorgi di esserlo. E guai se avessi
un coltello
, termina, per tagliare.

La
donna
osserva le mani, le braccia, i movimenti del primo uomo.
La vita è un calcolo razionale dei limiti, quando li
consideriamo irrazionali. E lei lo ha messo di fronte alla
possibilità di capirne uno, tutto suo. Tra qualche ora, pensa,
il primo uomo saprà di diventare un braccato. Può
eliminare fin da subito un nemico: il secondo uomo. La donna
si chiede se ne avrà la forza, la disperazione. E si augura di
no. Ma sa bene che in quella notte, per lei, non ci sarà
dolcezza. Non darà niente a un corpo alla ricerca di una meta
irrealizzabile. Ha già dato ascoltando. Ora tocca solo a lui.

Il
secondo uomo ora ha un problema: la telefonata è stata
chiara: cancellare. Eliminare. Togliere di mezzo. Levare dal cazzo,
annientare, spaccare tutto. La ragazza con cui ha parlato era stata
chiara: il primo uomo mi ha cercata. Ha capito. Vuole sapere.
Quindi, aveva risposto il secondo uomo? Quindi, aveva risposto quella
ragazza, cancellare, please. Il problema a quel punto era la
donna
. Tra quei due qualcosa doveva essere successo. Forse
proprio la notte in cui lui si era addormentato e non aveva seguito
quei due per le viuzze. Ogni tanto li vedeva prendersi la mano, nelle
notti passate. E quella notte, ne era certo, la dolcezza doveva
vincere per quei due. Due idee, mica due persone. La notizia
che stava per arrivare avrebbe sviluppato traiettorie strane, rapide
e desiderose di calore. Si toccò sotto la spalla destra. Era
lì, calda, pulsante, attiva, pronta. Il secondo uomo
entra nel bar e li vede. Stanno parlando. Se è come pensa, ha
un fottuto problema.

La
donna
osserva l’entrata: intravede il secondo uomo farsi
avanti. Guarda il primo uomo e gli dice, semplicemente: quello
è un tuo nemico. Il primo uomo la guarda. E’
bianco, spettrale, non ha più le parole pronte. Nessuna
citazione, frase, ricordo, frammento. Sorseggia la bevanda e capisce:
non si scherza mica più. Le chiede in che senso stia parlando.
E lei rapida, gli sussurra un nome. Un ricordo della memoria, lontano
per interi giorni e riaffiorato solo in quegli istanti che
precedevano la notizia tanto attesa e già sospettata. La
donna
decide che sarebbe andata via, subito.

Il
primo uomo osserva la donna e poi il secondo uomo. Sta per
entrare. Ha il passo deciso, si tocca sotto l’ascella e il primo
uomo
capisce. Attorno a loro ci sono tre persone, non di più.
Il primo uomo pensa, rapido: al tribunale, alle sue uscite,
agli strani incontri, ai personaggi che si muovono in silenzio, senza
riflettori. Uomini che agiscono, cambiano, motivano e determinano.
Uomini che fanno la storia. Uomini come il secondo uomo.

Il
secondo uomo entra e fa in tempo a vedere la donna che
si alza e se ne va, senza salutare nessuno. Guarda fissa davanti a
sé: ha gli occhi sbarrati. Il secondo uomo si mette di
fronte al tavolo. Il primo uomo lo guarda. Si osservano ed è
fin troppo chiaro: hanno capito tutto. Potrebbe fare un bel casino,
ma decide di sorridere, il secondo uomo. La situazione si
mette bene, pensa.

Il primo uomo ha già capito: non c’è
uscita. Loro sono dappertutto. E’ una guerra.

Non
l’hanno mica ancora capito, pensa il secondo uomo, mentre si
siede, sorridendo.

La
donna
cammina, appoggiando i piedi a terra con un ritmo tutto
suo. Ha visto, ha pensato, ha sognato: le catenelle, i sospiri, i
sorrisi, i pianti, le botte, la violenza, il male. E a breve
tutto diventerà storia: dimenticata, mai raccontata. Finirà
nel buco nero della vulgata comune. Diventerà un’altra cosa,
un’altra storia.

Vivere significa essere partigiani

19 Novembre 2008 4 commenti

 

Il testo che c’è sotto l’ho mandato a Carmillaonline il giorno della sentenza. Per vicissitudini personali di Valerio, Giuseppe e Roberto (i miei ganci da quelle parti) è stato pubblicato solo oggi. In ogni caso lo rigiro qui.

 

Vivere significa essere partigiani

Sabato 21 luglio 2001. E’ notte. I cortei e gli scontri che hanno
ribaltato la città di Genova sono finiti e la gente torna a casa stanca
e provata dalle botte, dalle corse, dai gas lacrimogeni, dalla violenza
della polizia, dalla paura, dalla sensazione che sarebbe potuto
accadere di tutto, che sia accaduto di tutto, ma che possa accadere
altro ancora. Sono in pochi a rimanere, principalmente nei grossi
centri di accoglienza: piazzale Kennedy, lo stadio Carlini, le scuole
Diaz e Pascoli, dove l’attività di comunicazione e assistenza legale
freme ancora. Per il resto migliaia di persone sono nelle stazioni e
sulle autostrade. La maggior parte delle persone pensa che ormai sia
finito tutto, che l’adrenalina di tutti stia lasciando il posto a una
spossatezza infinita. E proprio quando la penombra è al massimo della
sua intensità, quando gli occhi collettivi del mondo stanno per
chiudersi per passare al prossimo spettacolo, ecco che le luci si
riaccendono al massimo della loro intensità.

Squadracce di gente in divisa calano sulle due scuole dove si trova
la sede del GSF, indymedia, radio gap, molti media alternativi e
indipendenti, la sede del Genoa Legal Forum e un paio di centinaio di
persone che vogliono solo dormire prima di andarsene a casa. Nel giro
di un attimo sfondano cancelli e portoni e irrompono nelle due scuole:
al media center distruggono materiali e cercano di tappare occhi e
orecchie dei movimenti; alla scuola Diaz vogliono solo vendicarsi.
Vogliono avere compensazione, si direbbe in altri contesti, della
frustrazione che hanno provato in questi giorni in cui la rivolta ha
dimostrato loro quanto il potere che detengono e difendono non valga
nulla, quanto sia fragile ed etereo. La rivolta li ha fatti infuriare,
li ha stupiti e colti di sorpresa, li ha umiliati. E come un animale
ferito e armato hanno reagito nell’unico modo che sanno: hanno
preparato, organizzato e lanciato un’operazione semplice e violenta,
irrompere, picchiare, attribuire la colpa alle vittime. Deboli coi
forti, forti con i deboli. Come sempre. E poi una bella firmetta su un
verbale di arresto a sancire il fatto che l’operazione sia stata
legittima e necessaria, nonché giustificata.
Purtroppo per l’ennesima volta in quei giorni fanno male i calcoli:
l’irruzione si protrae più del previsto; arrivano media e parlamentari;
tutto il mondo si accorge dell’operazione e della sua grossolana
funzione. Nonostante questo per molti mesi pensano che lo Stato li
coprirà. Nonostante questo si arriva a un processo. Che dura anni. Il
processo è finito il 13 novembre 2008: tutti coloro i quali hanno
organizzato quella operazione infame sono stati assolti; tutti coloro
che hanno partecipato come ultime ruote del carro, coloro che hanno
picchiato perché gli è stata data mano libera, coloro che hanno portato
due bombe molotov in una scuola dove non ce n’erano per addossarle alle
vittime di una inumana violenza sono stati condannati; tutte le vittime
hanno ricevuto qualche spicciolo per non lamentarsi troppo.

Questa è la storia. Le vicende del G8 di Genova hanno molto da
insegnare a tutti coloro che vogliono prestare anche solo un attimo di
attenzione. I libri non la racconteranno così. I libri resteranno sul
vago quando andrà bene, oppure ignoreranno la più grande rivolta dopo
gli anni sessanta e settanta in Italia e forse non solo. Ma la gente
che era lì non la dimenticherà. E la rabbia che proviamo oggi di fronte
a questa sentenza non deve trarci in inganno, deve trasformarsi in
fatti, parole, ricordi, oggetti. Personalmente non ho mai creduto che
finisse diversamente da così: la giustizia è un meccanismo intrinseco
al potere, e non può permettersi di condannare coloro che la traducono
in fatti operativi tutti i giorni. I giudici, i poliziotti, i politici,
i governanti, gli imprenditori stanno da una parte. Noi, i poveracci, i
subalterni, gli sfruttati, i deboli stiamo dall’altra. Questa è la
grande verità di Genova, ed è anche la verità che più di tutte in
questa epoca cerca di essere nascosta. Non è tutto uguale, esistono
parti da prendere. Vivere significa essere partigiani. E alle volte
quando si prende una parte, si perde, anche se era la parte giusta.
Quando ho saputo della sentenza – già perché dopo quattro anni di
presenza in tribunale proprio negli ultimi tre mesi non sono potuto
essere presente – una delle prime cose che mi sono venute in mente è
stato Stella del Mattino,
di Wu Ming 4. Come ho già scritto altrove, quel libro parla proprio di
Genova e di quello che ci ha lasciato, di quello che ha significato per
tutti noi che siamo stati lì e l’abbiamo vissuta. Alla fine del libro,
come alla fine di tutto quanto è stato Genova, non ci resta che il
coraggio di credere che qualcosa possa ancora accadere, che la rivolta
continui ad esistere come possibilità se non come realtà. La sentenza
che chiude la vicenda Diaz, una vicenda talmente lapalissiana che è
difficile credere con quale faccia tosta verrà giustificata dai cavilli
legali dopo essere stata giustificata dall’inazione politica, deve
diventare la nostra stella del mattino: quella luce che tutti conoscono
e che nessuno può negare, eppure quella distanza che ci fa capire che
solo agire e lottare cambia ciò che ci circonda. Se saremo capaci di
imparare questo allora questi anni di lavoro e di parole non saranno
stati una donchisciottesca tenzone con mulini a vento parecchio più
grandi di noi.

Con i compagni e le compagne che hanno seguito Genova giorno dopo
giorno con me abbiamo scritto che non abbiamo rimorsi per quanto
accaduto a Genova, che quanto è avvenuto in quei giorni ci ha dato
coraggio e ci ha trasmesso il senso delle parole dignità e libertà.
Oggi per molti sarà il giorno dei rimpianti in un senso o nell’altro,
ma non per me. Rimpianti significa non aver fatto quello che si
riteneva giusto e necessario. Noi non possiamo averne. Perché ci
aspettano ancora molte cose. Ancora molte cose possono accadere sotto
il cielo e sotto Venere, e molta rabbia è pronta ad esplodere da sotto
la cenere. Fino a quando non ci saranno più storie da raccontare, da
ricordare o da vivere.
Ognuno di noi può demolire un mattone del Palazzo di giustizia di
Genova. Ognuno di noi può ancora lottare ed essere un partigiano.

Processo Diaz: la legge è uguale per tutti…

14 Novembre 2008 5 commenti

 

Imputato,
il dito più lungo della tua mano
è il medio
quello della mia
è l’indice,
eppure anche tu hai giudicato.

Hai assolto e hai condannato
al di sopra di me,
ma al di sopra di me,
per quello che hai fatto,
per come lo hai rinnovato
il potere ti è grato.

Ascolta
una volta un giudice come me
giudicò chi gli aveva dettato la legge:
prima cambiarono il giudice
e subito dopo
la legge.

Oggi, un giudice come me,
lo chiede al potere se può giudicare.
Tu sei il potere.
Vuoi essere giudicato?
Vuoi essere assolto o condannato?

 

Se non sapete di cosa sto parlando, andate a dare un occhiata sul sito di supportolegale, che stasera di tempo per la didattica non ne ho molto. Oggi si è conclusa una fase della mia vita che è durata circa 8 anni. Si è conclusa con una sentenza che a fronte di una storia che ormai tutto il mondo conosce assolve gli organizzatori di una rappresaglia premeditata che è costata quasi la vita ad almeno una decina di persone e la salute a molte di più. Certo i Canterini-boys sono stati condannati e alle vittime hanno dato 1000-2500 euro di danni. Una vera fortuna, no? Chissà quante caramelle si potranno comprare. Il tribunale di Genova, come era ormai palese considerato la condotta in aula del suo presidente Gabriele Barone (sempre molto accondiscendente con le difese degli imputati e molto intransigente con pubblica accusa e parti civili), ha lanciato un segnale chiaro nei confronti di tutti coloro che si degnino di ascoltare, un segnale di impunità e di connivenza con quella rappresaglia. Questa impunità costerà cara a qualcuno, perché tutti coloro che in questi anni hanno combattuto contro questi criminali in divisa sanno bene che per costoro la rappresaglia adesso è solo all’inizio. La speranza è che la sentenza non insegni solo a questi signori che possono fare quello che vogliono tanto saranno protetti da Stato e Giustizia, ma che insegni anche a chi ancora pensa di lottare e partecipare alla vita politica del paese che c’è solo un modo per affrontare gli sbirri e non prevede una interazione democratica. Quello che dice la sentenza è questo. E forse era necessario che un atto che non c’entra con quello che accade quotidianamente inviasse un segnale chiaro di come si stanno mettendo le cose. La sentenza non è uno schiaffo al passato, ma una affermazione del presente e del futuro. Una lezione di storia che come tutte le lezioni utili non serve solo per quello che è già accaduto ma soprattutto per quello che accadrà. Il tempo per scegliere è ormai vicino e nessuno potrà pensare che basterà lasciarsi scorrere la merda che ci arriverà in faccia addosso perché tutto torni entro quella che ci piace chiamare normalità.

Comunicato di supportolegale sulla sentenza Diaz

 

AMNISTIA PER LA POLIZIA!

Giovedì 13 novembre 2008 si è concluso l’ultimo dei tre grandi
processi di primo grado per gli eventi legati alle proteste contro il
G8 del luglio 2001 a Genova.
Il processo a 29 funzionari di polizia per l’irruzione alla scuola Diaz
che terminò con 93 persone arrestate illegalmente e 61 di queste ferite
gravemente si è concluso con una sentenza esemplare: sedici assoluzioni
e tredici condanne.
Il tribunale ha deciso di condannare solo gli operativi e di assolvere
a pieno titolo chi ha pianificato un’operazione vendicativa e meschina.
Di assolvere le menti che per giustificare una carneficina hanno deciso
di piazzare due bombe molotov recuperate nel pomeriggio tra gli oggetti
rinvenuti, di mentire circa l’accoltellamento di un agente, di coprirsi
l’uno con l’altro raccontando incredibili resistenze da parte degli
occupanti della scuola e saccheggiando il media center che vi si
trovava di fronte. La ciliegina sulla torta del presidente Barone e
delle sue due giudici a latere Maggio e Deloprete: alle vittime di
quella notte va qualche spicciolo, tanto perché nessuno si lamenti di
essere stato tagliato fuori da una immaginaria torta.

Alla lettura della sentenza nessuno di noi si è meravigliato. Non
siamo delusi, non siamo tristi, né pensiamo alcuno dovrebbe esserlo.
Siamo solo furiosi.

Non abbiamo mai creduto che la giustizia fosse veramente "uguale per
tutti", non abbiamo mai creduto che chi esercita il potere avrebbe
ammesso di essere giudicato, di essere messo in discussione.
Ma il dileggio con cui è stata confezionata questa sentenza parla da
sé: l’amnistia per la polizia è la seconda parte di quell’operazione
vendicativa e meschina che ha portato alla Diaz.
E’ il secondo tempo della vendetta per la frustrazione e il terrore che
lo Stato e i suoi apparati hanno provato in quei giorni di rivolta. Non
ce l’hanno mai perdonata e non ce la perdoneranno.
La sentenza che chiude questo ciclo di processi di primo grado dovrebbe
essere una lezione di storia, e forse grazie ad essa restituiremo la
dignità a una vicenda che ne ha avuta molto poca, perché molti oltre a
noi si accorgeranno di
qualcosa che è la base di quanto è successo a Genova in quei giorni.
Esiste una posizione per cui parteggiare: quella degli insofferenti,
quella dei subalterni, degli sfruttati, dei deboli, di coloro che
lottano per un mondo migliore e più equo.
Ed esiste un’altra posizione, quella di chi comanda ed esegue, di chi
tortura e vìola, dei forti con i deboli e dei deboli con i forti,
quella di chi esercita il potere e lo coltiva.

Nella vita bisogna scegliere. Noi lo abbiamo fatto, oliando
meccanismi di memoria che altrimenti avrebbero condannato all’oblìo una
pagina nera della storia italiana e internazionale. Noi lo facciamo
tutti i giorni. Non abbiamo rimorsi e non abbiamo rimpianti per quanto
è avvenuto.
Solo rabbia. E non siamo i soli.
Supportolegale

I burattini del potere

11 Novembre 2008 Commenti chiusi

 

Visto? Basta avere un po’ di tempo e di cose da far girare se ne trovano parecchie. Questo video l’ho recuperato oggi e mi pare un ottimo lavoro, dedicato a tutti quelli che pensano che sia sempre tutto uguale, che non ci siano differenze, che ogni opinione vale un’altra. Non è così. E non lo sarà mai. Vivere significa essere partigiani.