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Archivio per la categoria ‘pagine e parole’

Senza vergogna… e senza parole

22 Dicembre 2009 11 commenti

 

Stamattina sento la rassegna stampa a radio pop, un po’ distrattamente come al solito. Poi arriva nella mazzetta Il Giornale e sento leggere il suo editoriale. Mi fermo. Ci penso. Se volete un esempio di quello che si può perfettamente definire manipolazione intellettuale e disinformazione, se volete capire perché l’Italia è conciata come è conciata, provate a leggere questo manifesto pubblicato proprio oggi sulle pagine del giornale di Berlusconi. La quantità di ignoranza, di malafede e di stupidità concentrate in queste righe dovrebbero essere incluse in un manuale di storia che spieghi come Silvio e i suoi discepoli siano riusciti a far credere alle peggiori assurdità milioni di persone, anzi peggio, a far loro interiorizzare qualsiasi stronzata servisse i loro fini. Allucinante.

Fonte: Il Giornale online

PS: spero che nessuno che legge questo blog abbia bisogno che gli spieghi che il surriscaldamento del pianeta non c’entra nulla con l’eventuale verificarsi di ordinari o meno fenomeni metereologici. E’ come dire – tanto per citare sempre gli stessi – che "se uno ha la pelle nera è sicuramente un delinquente". Due fatti accostati a caso, per provare una tesi senza alcun fondamento. Si chiama mass consensus. Che schifo. I grassetti nell’articolo sono miei, ma solo quelli.

E lo chiamano surriscaldamento del pianeta

Il
pianeta è sotto zero eppure i professionisti del catastrofismo
continuano a invocare l’effetto serra
. Non sono capaci di arrendersi
all’evidenza: la natura fa quello che vuole, non quello che decidiamo
noi

Conservate i giornali di oggi. Teneteli lì, per la prossima volta.
Teneteli per il primo che parla di surriscaldamento della terra. Meno
13, meno 24, meno 7. La neve, visto quanta? Il gelo, visto che roba?
Qui si muore di freddo. Global cold, global cooling, global chilling:
lo chiamino come vogliono, resta che qui di anormale c’è la temperatura
al ribasso. Sappiamo che a Copenaghen, nei giorni scorsi, hanno perso
tempo: l’accordo sulle emissioni da limitare e fermare, i bisticci sul
nulla, le passerelle, le bocche riempite di grandi parole sul buco
dell’ozono.


Magari qui adesso avessimo un termosifone per crearcelo da soli un
bell’effetto serra.
La realtà fa a pugni con l’idealismo. Ci raccontano un sacco di cose
sui danni che stiamo facendo, però poi ogni anno ci ritroviamo
congelati come sempre, più di sempre.
Al freddo e al gelo, e va bene
che è in linea col Natale, però ne avrebbero fatto tutti a meno in
questi giorni. Qui sul pianeta ghiacciato andrebbe bene una stufa a
petrolio o a carbone, o a qualunque combustibile inquinante. Altro che
energia da sole, vento e acqua: serve qualcosa subito, qualunque sia.
Congelare è innaturale quanto soffrire per il caldo. Fa male lo stesso,
fa morire di più. Ottanta morti in Europa in queste ultime ore. Sono
pochi? È una cosa da civiltà evoluta? È una invenzione delle
multinazionali che vogliono far bollire il globo?
La verità banale e angosciosamente semplice è che la natura fa quello
che vuole: ti dà la neve e poi il giorno dopo la fa sciogliere con il
sole o con la pioggia. È successo in ogni era, succederà ancora. Solo
che si sono fissati con questa storia del riscaldamento globale e
adesso ci vogliono convincere che pure il gelo sia colpa del caldo.
In
Valtellina ci sono meno trenta: colpa del surriscaldamento che poi fa
raffreddare.


A Rimini fa meno undici? Non è possibile, dev’essere colpa del
surriscaldamento, no? Global warming: due parole inglesi che vanno di
moda perché sono diventate una specie di mantra del politicamente
corretto. «Facciamo qualcosa per il global warming», e tutti
annuiscono. Perché è giusto anche se è sbagliato, è certo anche se non
c’è alcuna prova. Al Gore e i suoi fratelli sono i nuovi paladini del
pianeta, depositari di una verità incontestabile a prescindere.
Chiunque contesti è un buffone, oppure un mentecatto, o magari un
cialtrone, o ancora uno scellerato. Così abbiamo visto finire nel
cestino dossier e documenti firmati da centinaia di scienziati
dissidenti. Scandalo tenuto sottotraccia perché sbugiarda le teorie di
intellettuali e altri scienziati considerati buoni, giusti e amici del
pianeta.

Vogliono riempirci la testa.


Vogliono convincerci senza lasciare spazio anche a una sola teoria
alternativa. Organizzano vertici mondiali come quello di Copenaghen
dove spacciano per successo un fallimento costato milioni e milioni e
che paradossalmente produce più danni al pianeta dello zero virgola
zero zero zero e qualcosa di aumento della temperatura globale. Vedrete
oggi. Vedrete che questa ondata di gelo sarà venduta come la
dimostrazione delle loro teorie sulla cattiveria dell’uomo che
distrugge la terra. Non s’arrendono all’evidenza: tutto il mondo è al
gelo. Noi vediamo le nostre città: Milano, Torino, Venezia, Bologna.
Bianco e solo bianco. Freddo e solo freddo. Ghiaccio e solo ghiaccio.
Poi gli altri. L’America dell’Est sepolta nel peggior inverno degli
ultimi anni: il governatore della Virginia ha dichiarato lo stato di
emergenza, Washington ha chiuso tutto, compresa la Casa Bianca, che se
nessuno la conoscesse, oggi sembrerebbe chiamata così per la neve.
Aeroporti chiusi, treni fermi, strade deserte.


Un pianeta ammantato, sofficemente sotto zero: Francia senza aerei e
treni, con Sarkozy a fare da capo stazione per cercare di far partire
qualche Tgv per miracolo. L’Inghilterra peggio: chiusura degli scali di
Luton e Gatwick, disagi nel colossale Heathrow, centinaia di scuole
sono rimaste chiuse così come moltissimi uffici pubblici. Pure il
tunnel sotto la Manica bloccato. Un casino inenarrabile che vediamo
alla tv e fuori dalla finestra.
È inverno, sai che scoperta. E in inverno il tempo è brutto: se la
temperatura è decente piove, se è indecente nevica. Semplicemente
ovvio. E invece no, perché a complicarci la vita c’è il falso mito del
riscaldamento globale
che s’è meritato persino il Nobel per la pace del
2008. Avrebbero dovuto restituirlo quel premio i signori che l’hanno
vinto. Per decenza e per dignità. Perché non c’è certezza che quelle
teorie vendute come verità siano affidabili, perché sono professionisti
del catastrofismo, perché non accettano il confronto con quelli che
producono risultati scientifici diversi dai loro.


Gli intolleranti dell’ambientalismo, convinti che la natura faccia
quello che noi vogliamo. Così domani quando la neve sarà sciolta in
tutto il mondo diranno che la pioggia è arrivata per colpa del
riscaldamento: di botto così, dieci gradi di differenza tra un giorno e
l’altro. Un gioco delle tre carte o qualcosa del genere. Troppo
difficile pensare che la natura sia facile: fa quello che vuole. Segue
le stagioni, anche quelle che non ci sono più. Da una vita. Da sempre.

 

 

Crooked Little Vein – Ellis il nuovo Lansdale

22 Dicembre 2009 Commenti chiusi

 

Io non ho paura di dirla grossa: Warren Ellis è il nuovo Lansdale. Il suo primo libro, dopo anni di fumetti stupendi tra cui non posso non segnalare l’immenso Transmetropolitan e il suo protagonista Spider Jerusalem, è uno stupendo noir americano (anche se il suo autore è britannico), che sicuramente segna un passaggio importante per il genere in terra anglofona. Crooked Little Vein, tradotto ottimamente in italiano per la Elliot Edizioni da Luca Fusaro (eccezion fatta per il titolo che proprio non va!), trasporta a ritmo di sarcasmo e ironia il lettore attraverso l’America che tutti immaginiamo o conosciamo, ma che rifiutiamo di accettare per quello che è. Come nei suoi fumetti Ellis eccelle nel tratteggio dei suoi personaggi e nei dialoghi, lasciando che il panorama in cui si muovono si delinei dai dettagli e dalle sfumature più accese, senza bisogno di meticolose descrizioni e puntiformi pedanti resoconti. Se avete occasione di prenderlo non fatevelo sfuggire! Voto: 9

PS: seguite pure il suo blog perché è una fonte costante di informazioni e di ispirazione

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Microtelling: la Politica

18 Dicembre 2009 1 commento

 

Il cielo di milano oggi è una minaccia più che un elemento del paesaggio. Incombe grigio e piatto come un enorme palmo pronto a soggiogare chi abita sotto il suo dominio. Immoto, infinito, ineluttabile, reale.
Dopo il microblogging, a voi il microtelling.

La Politica
[quella con la p maiuscola che ha allontanato quasi tutti dalla gestione del comune e che nonostante questo ha così larga parte nel determinare le condizioni in cui viviamo]

Camminavo serenamente in mezzo alla strada, circondato da uomini e donne che si affannavano a rincorrere l’ultimo regalo di Natale. Faceva freddo ma non troppo, e i volti e i corpi erano celati da strati e strati di tessuto, lana, cotone, feltro, cashmire. All’improvviso vidi un movimento repentino e venni colpito: un sapore metallico mi riempì la bocca e uno strano calore si diffuse su tutto il mio viso. Caddi a terra, ma mi rialzai tamponandomi il volto con la manica e cominciai a correre. Corsi senza fermarmi gridando aiuto a squarciagola, sperando che questo facesse desistere il mio aggressore. Mi fermai solo dopo qualche centinaio di metri, quando mi resi conto che non mi inseguiva nessuno. Mi accasciai con la schiena appoggiata alla parete e composi il numero del 118 sul telefono. L’ambulanza arrivò in una mezzoretta e mi portò all’ospedale, lasciandomi dolorante in sala d’attesa. Dopo alcune ore un medico mi disse che non era nulla di grave, mi fece fare due lastre e mi ricucì alla bell’e meglio il labbro. Mi resi conto che avevo perso due denti. Quando uscii dall’ospedale era ormai notte fonda e tornai a casa, chiedendomi chi ce l’avesse con me così tanto da aggredirmi a quel modo. Non trovai risposta e non ne trovai neanche nei giorni e nei mesi successivi, ma mi ritrovai a dover vincere il disagio di camminare spensierato in mezzo alla folla. Ancora oggi non sono riuscito a ritrovare la sensazione splendida che mi dava passeggiare tra la gente osservandola.

-*-*-*


Si destreggiava alla meglio tra la folla, attorniato da guardiaspalle enormi e da mani festanti che lo cercavano come un messia. In sottofondo qualche urlo di contestazione e qualche fischio. Nelle orecchie ancora le parole efficaci della sua ultima arringa contro "la violenza". Sorrise tra sé e sé. Stringeva mani, firmava autografi, sorrideva. Improvvisamente il colpo: un sapore metallico gli riempì la bocca e uno strano calore si diffuse su tutto il suo viso. Cadde nelle braccia dei suoi sostenitori, che lo spinsero istintivamente all’interno dell’auto blindata. Fu un istante. Tolse il cencio con cui gli stavano coprendo il volto e salì sul predellino dell’auto, mostrandosi alla folla: ferito, sanguinante, lo sguardo furente e fiero. Poi rientrò nell’auto e diede ordine di portarlo al San Raffaele, preavvisando chi di dovere. All’ospedale venne portato immediatamente a fare ogni tipo di accertamento e gli venne messa a disposizione un’intera ala della struttura per riposare almeno qualche giorno. Mentre veniva medicato e ricucito così da lasciare un segno appena percettibile tra la guancia e il labbro, pensò al da farsi. Nei successivi tre giorni, lontano dai riflettori, fece solo poche cose, ma necessarie, per ottenere il massimo risultato con il minimo sforzo: prese appuntamento dal dentista, dato che aveva perso due denti, ma non dal chirurgo estetico; lasciò che i suoi amici puntassero tutte le armi che avevano sui suoi nemici, si dia fuoco alle polveri; diede mandato ai suoi consulenti di aprire una azienda di import-export di souvenir del duomo, il mercato ne avrebbe avuto bisogno. Quando dopo tre giorni uscì dall’ospedale, mostrandosi ai suoi fedeli e fedelissimi, disse solo una frase: "l’amore vincerà". E anche io, pensò sorridendo sotto la medicazione. Poi ordinò all’autista di portarlo a casa, dove sarebbe rimasto a riposto fino al giorno dopo la tradizionale conferenza stampa con i giornalisti che diversamente sarebbe stato obbligato a fare. Due piccioni, e anche di più, con una fava.
 

Il crepuscolo degli eroi sarà il crepuscolo dell’epica?

1 Dicembre 2009 5 commenti

 

Il nuovo libro dei Wu Ming – Altai – è il sequel (volevo scrivere postquel, ma poi ho pensato di fare la persona seria) di Q. Sequel in termini di contesto storico, di personaggi e anche di tematiche: la rivolta, il ruolo degli eroi e degli antieroi, la guerra e la libertà, e quanto costano. Avviso i naviganti che la mia recensione se ne sbatte di spoiler e anticipazioni, per cui leggetela DOPO aver letto il libro, se non vi piace sapere come finiscono le storie.

Altai si presta a una duplice lettura (non ho ancora deciso quale mi convince di più) e anche a una duplice interpretazione della conclusione. Le letture si dipartono dai due personaggi fondamentali del romanzo (non gli unici, ma quelli che per me sono la chiave della trama, senza per questo togliere valore simbolico ad altre figure): Ismail alias Gert dal Pozzo e Manuel Cardoso De Zante alias Altai.

Da un lato l’anziano rivoluzionario, l’"errante per scelta, che per tutta la vita i potenti ha cercato di abbatterli", il "fiume che evapora e diventa nuvola, per scavalcare il deserto e piovere sui monti." Rappresenta ciò che è stato, la saggezza dell’esperienza, di chi il prezzo l’ha già pagato e ne ha conosciuto l’amarezza, in grado di riassumere in una frase apodittica ciò che è stato, è e sarà: "Volevamo giustizia. E una ragione per vivere e morire." L’epitaffio che chiunque abbia un animo desideroso di cambiare il mondo vorrebbe sulla propria tomba è la storia della vita di Gert. Ed è la storia di Q. Riassunta dagli autori stessi.

Dall’altro il giovane idealista, rinato a una nuova vita dopo aver negato se stesso, i propri ideali e la propria personale epica, il ribelle che trova una causa e un maestro (forse più di uno considerato Ismail): "Nessuno di loro credeva in lui. [in Yossef Nasi, nda] Eppure migliaia di ebrei gli dovevano la vita. Eppure io ero lì a dimostrare che era possibile cambiare tutto. Bastava volerlo e con l’aiuto del Signore le cose potevano essere capovolte, il caos cancellato, l’equilibrio ripristinato. Tikkun olam. Così lo aveva definito Nasi. Aggiustare il mondo, sanare la ferita che il nostro popolo si portava dietro da millecinquecento anni, così come aveva rimarginato la mia piaga, nascosta per metà della vita." L’idealismo un po’ naif, un po’ ingenuo e per questo vagamente massimalista, privato in un certo senso di profondità di fronte all’entusiasmo, e che si scontra con il cinismo un po’ saturo e un po’ saggio di Gert.
Manuel Cardoso è Altai: "Altai […] è il nome di questa stirpe meticcia. […] E’ un falco molto robusto, fedele, facile da addestrare. Non occorre fare nulla con un altai, e un buon falconiere fa il meno possibile. E’ la natura del falco che lo spinge in volo e gli fa conficcare gli artigli sulla preda. Se vuoi che lo faccia per te, devi solo mostrargli qual è il suo vantaggio." Una creatura fedele all’idea che si fabbrica per lui, in grado di seguire il suo istinto eroico e martire, fino alla sua ultima conseguenza: la morte, la violenza cieca, la barbarie. Di fronte alla quale il velo si strappa per rivelare la realtà della storia. Un perfetto strumento del potere.

Allora Altai (il romanzo) si presta a una prima lettura spinoziana: ogni volta che muore un eroe, che un’idea vince o perde o si trasforma, che muore un’occasione di rivolta, ciò che ne rimane rinasce in un nuovo movimento, in un nuovo afflato di speranza. La storia è un continuo divenire ciclico di eventi, di epica, di eroi. Ed è per questo che non dobbiamo mai pensare che sia finita, che ogni istante è un nuovo inizio da giocarsi fino in fondo.
Anche se il ciclo è "d-evolutivo", se ogni generazione di battaglieri sembra sempre meno densa di quella precedente, sempre più bassa nelle proprie aspettative e possibilità, come se la volontà fosse un bene consumabile, che si assottiglia insurrezione dopo insurrezione. E non è detto che sia così. E’ il ciclo che ricomincia con il ritorno finale di Ismail/Gert a Mockha per un nuovo terreno di battaglie da coltivare, per nuovi popoli da aizzare, per cercare un nuovo territorio da colonizzare con l’idea di libertà.

Questa lettura mi sembrava molto precisa in una prima fase del romanzo, ma sul finire del romanzo mi si è presentata una seconda chiave, più tradizionale forse, e sicuramente parziale (ma d’altronde ogni lettura è parziale): Altai come dialettica dell’epica, con Q come tesi, il presente romanzo come antitesi e noi, sì proprio noi, quello che viviamo e che facciamo, come sintesi. Schematico forse, ma interessante. Ismail come la tesi di rivoluzioni con grandi aspirazioni e capaci di giocarsi la partita fino in fondo, fino a pagare il dazio greve di chi ci prova senza risparmiarsi neanche un grammo di coraggio e di volontà, nonostante la fine tragica.
Ismail risponde proprio a Manuel:
"- Mi avete parlato di quel che avete perso. Cosa vi resta?
– Soltanto loro".

E ancora:
"- Machiavelli ha scritto che bisogna guardare il fine, non i mezzi.
– Sì, anche Yossef me lo ha ripetuto spesso. Con gli anni, ho invece imparato che i mezzi cambiano il fine."

Le risposte amare di chi ha scommesso tutto sulla libertà e ha perso, ma sapendo di fare quello che riteneva giusto e che poteva cambiare il senso della propria vita e di quella di coloro che lo circondano. Risposte che sembrano un po’ quelle che molti di noi che hanno vissuto gli ultimi dieci anni di movimenti stanno elaborando, incapaci di trovare una strada per cui valga la pena ancora mettersi in gioco. Strada che forse Gert trova (e sicuramente i Wu Ming individuano, considerato i loro commenti a questa mia recensione 🙂 A cui fanno da controcanto le parole dell’antitesi Manuel Cardoso, un fedele servitore di un ideale altrui.
"- […] Solcare il mare è come attraversare il deserto. Sono spazi liberi, aperti a mille possibilità.
– Eppure senza un approdo non si farebbe che andare alla deriva."

La storia è una deriva? Oppure ha un fine? E se ce l’ha chi lo decide? L’epica è la definizione della finalità di (una) storia? O è il canto di come si attraversa una storia alla deriva? Gli eroi sono coloro che cercano di costruire una strada laddove nessuno sa dove andare, di sostituire alla deriva una rotta. Allora la tesi Ismail/Gert e l’antitesi Manuel/Altai si scontrano di fronte alla morte dell’ideale altrui che Manuel ha inseguito e che Ismail ha accettato di correggere: di nuovo sangue, violenza, il tradimento di ogni rotta e di ogni desiderio di giustizia di fronte alla realtà degli esseri umani. E la reazione è differente: Gert torna a se stesso, a ciò che gli è rimasto, a ciò che spera, lasciandosi alle spalle la propria storia e sperando che essa possa insegnare ad altri dove ha sbagliato; Manuel affronta prima il proprio mentore e poi il proprio destino, tragico e mesto, senza onore e senza gloria, come di tutti coloro che hanno vissuto l’ideale di qualcun altro, la sua libertà, la sua giustizia. Quella del potere.
"- Sono queste le fondamenta della nuova Sion? Strage, tortura, infamia? Un giorno dicesti che volevi riparare il mondo, e non mi aspettavo certo che fosse una sutura indolore. Ma ora la piaga è più vasta di prima, e infetta, e non vedo quale cura la potrebbe sanare.
– […] Non vi è regno che non nasca dal sangue dei vinti […]
– […] Almeno i nostri padri presero la terra da soli. Sapevano quello che facevano, e ressero il peso delle morti sulle proprie spalle. Noi abbiamo massacrato per tramite dei giannizzeri, incuranti del male che ne sarebbe venuto."

Gli eroi dei Wu Ming sono morti, sconfitti, vituperati, vinti. Ismail/Gert come molti di noi si rintana in quello che gli è rimasto, convinto che le sue carte siano state giocate e non siano bastate, avvolto dai brandelli della propria volontà, struggente e romantico, ma al termine della sua storia. O forse ripiega su se stesso cercando un altro luogo, un altro tempo, un altro modo di continuare a combattere. Manuel fino in fondo al servizio di una battaglia altrui, intriso di una volontà fotocopiata fino a quando la realtà non lo risveglia con la sua truculenza, abdica la propria esistenza convinto di dover pagare questa sua unica colpa, quella di non aver saputo scegliere, gettando via i dadi per lungo tempo tenuti nelle tasche della giacca come simbolo del caso che menava le sue membra a destra e a manca.

Quello che rimane siamo noi. O forse voi (io mi sento più Gert), altri, ancora convinti che ci sia spazio per combattere e per crederci, sapendo che ogni battaglia ha i suoi prezzi, ma che spesso valgono la pena di essere pagati se il risultato è un epica e una storia che possa essere raccontata. Quello che rimane è piantare dei semi e cercare un nuovo terreno dove costruire la battaglia per una realtà migliore. Nuove possibilità di fronte a un gioco – quello del potere – che è sempre lo stesso e che finisce sempre allo stesso modo. Sapendo che la battaglia sarà ancora una volta e sempre più dura.
Solo così il crepuscolo degli eroi non sarà anche il crepuscolo dell’epica, un preludio alla fine di ogni speranza. Ma solo un nuovo inizio.

"La libertà, invece, non rimane mai la stessa, cambia a seconda della caccia. E se addestrate dei cani a catturarla per voi, è facile che vi riportino una libertà da cani."

PS: non l’ho scritto perché ho una lievissima tendenza a vedere il politico che c’è in ogni cosa, ma l’aspetto testuale dell’opera dei Wu Ming è veramente arrivata ad un livello elevatissimo: scelta delle parole, elaborazione sul linguaggio (il lavoro sul giudesmo è fantastico),  la contestualizzazione e l’affresco storico, la caratterizzazione dei personaggi, tutto verametne di altissimo spessore letterario. In conclusione spero che le note "critiche" nella mia recensione non vengano confuse con una diminuzione della stima che provo per l’opera dei soci bolognesi (e non) che rimane elevatissima. Consigliato vivamente a tutti 🙂

 

Neve

14 Ottobre 2009 1 commento

 

Quando ho iniziato a pensare alla recensione per Neve di Orhan Pamuk avrei voluto scrivere che era un romanzo a cavallo di molti altri romanzi, che partiva da Kafka e arrivava a Beckett, o meglio che li attraversava e se ne lasciava attraversare. Poi ho pensato alla frase si Fazil che Pamuk lascia a chiosa del romanzo nelle pagine finali: "Se mi mette in un romanzo ambientato a Kars, vorrei dire ai lettori di non credere assolutamente a ciò che dice di me, di noi. Nessuno può capirci da lontano. […] Ci crederebbero, per considerare se stessi intelligenti, superiori e umani, vorranno credere che noi siamo ridicoli e simpatici, e che loro ci possono capire così come siamo, arrivando addirittura a provare affetto nei nostri confronti. Ma se mette questa mia frase, nelle loro menti si insinuerebbe un dubbio." E ho pensato che partire con la mia recensione con un paragone sarebbe stato esattamente il tipico comportamento paternalista – anche non voluto, anche ingenuo – stigmatizzato così spesso nel libro e centrale nella psicologia dei personaggi (e forse non solo dei personaggi, ma anche dei luoghi e della società che vogliono raccontare).
Così comincerò dicendo che il libro di Pamuk è un grande romanzo, ricco di ragionamenti sulla psicologia e la società turche, sull’antropologia della storia del paese dell’autore, e che fa ben capire perché in tempi meno aperti alla critica e al confronto lo scrittore sia stato messo all’indice dall’estabilishment turco. Già prima di andare quest’estate in Turchia, sono sempre stato positivamente colpito dalle produzioni culturale di quel Paese – soprattutto cinematografiche e recenti – ma dopo esserci stato devo ammettere di apprezzare ancora di più il libro di Pamuk.

[Saltate questo paragrafo se non amate veder rivelata la trama di un libro, io di solito me ne sbatto]
Il libro racconta del poeta in esilio Ka, del suo ritorno alla città della sua giovinezza, Kars, nel remoto Oriente della Turchia, al confine con l’Armenia. Questo suo ritorno è raccontato postumo da Orhan Pamuk, amico del poeta alla ricerca della storia degli ultimi anni della vita del suo amico. Ka ritorna a Kars per ritrovare la felicità, per ritrovare la poesia e l’amore. Troverà e perderà entrambe, in una città le cui vie di comunicazione con il resto del mondo saranno bloccate per la neve per tre giorni. Tre giorni in cui si consumerà la tragedia di Ka e delle persone che entreranno a far parte della sua vita, nonché di tutta Kars, scossa da un colpo di stato organizzato un po’ per l’arte e un po’ per la politica da un Carmelo Bene turco (Sunay Zaim).
[Fine trama]

Per me il libro da subito è stato un viaggio dell’autore attraverso se stesso. Se avessi ceduto alla voglia di fare il paragone con Kafka sarei partito con K, il personaggio più celebre dell’autore di lingua tedesca. E avrei speculato che Pamuk avesse attraversato le spoglie di K per creare Ka, un personaggio introverso, contraddittorio, umano e poetico nel senso più assoluto del termine. Ka infatti è il bambino, l’innocenza, l’assenza di cattiveria anche quando è meschino. E’ la poesia nella sua forma più alta, è ciò che ci rende esseri umani, è la felicità di fronte all’amore e l’incapacità di goderne appieno. Ognuno di noi è Ka, se si guarda in fondo all’anima, senza paura di ammettere la propria umanità, la propria cattiveria e la propria dolcezza, la propria meschinità e la propria grandezza al tempo stesso. Umano troppo umano.

Ka è Kar, la neve, com il nome del libro di poesie che scrive e che l’autore del libro cerca di ricostruire, come l’organizzazione che da a quel libro lungo le direttrici della Memoria, della Logica e dell’Immaginazione, ovvero dell’uomo che ricorda quello che è e quello che vive, dell’uomo che lo analizza, dell’uomo che ama ciò che vive. Kar, la neve in turco, è la rappresentazione dell’innocenza, è la versione di Ka dello spettacolo di Sunay che trascinerà nella tragedia la città di Kars e le vite di Ka e dei suoi cari. Così allora Kar, Neve, è la tragedia di Ka.

E Kar è Kars. Un’altra lettera, un altro passo nel viaggio. E’ la realtà descritta nel romanzo, nella finzione, innocente e primitiva, in balia degli uomini e del confronto tra gli uomini e il mondo. Kars è il mondo, in quei tre giorni, secluso al resto del mondo, è tutto ciò che esiste al di fuori dell’umano. E’ tutto ciò che esiste al di fuori della poesia: è ciò che ci opprime, che ci libera, che ci aggredisce e che ci blandisce, sono gli ostacoli e sono anche i covi che vi troviamo, i nascondigli, le possibilità. Per tornare a Nietsche è una volonta che ci sfida e che noi siamo costretti a sfidare, in quanto esseri umani.

E alla fine a Kars arriva anche Orhan, l’alter ego dell’autore identico all’autore. Insegue il fantasma di un suo amico, vi si confonde, ne calca le orme fino a trasformarsi in Ka stesso. Pamuk arriva a capire Ka, e con esso la Turchia, la porta tra Oriente e Occidente, e la disperata situazione della sua società (e della nostra): "Chi si accontenta di essere felice, non può essere felice"; "In tutte le persone che parlarono c’era l’attesa di un uomo eroico e leale che avrebbe salvato tutti […], ma non facevano niente di concreto".
Orhan diventa Ka, forse è sempre stato Ka, e il suo pianto finale è il pianto per l’innocenza perduta, per la realtà ritrovata, per la speranza a cui è difficile credere, per la tragedia eterna dell’uomo (Nietsche).

PS: ovviamente ci sono altre mille storie e altre mille interpretazioni, tanto da poterne riempire altri dieci libri, personaggi fantastici come Kadife o come Necip/Fazil, ma recensire un libro è offrire un punto di vista parziale e personale alla mercé di tutti coloro che si prendono la briga di leggere e di discuterne. 

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I buoni e i cattivi

9 Ottobre 2009 11 commenti

 

E’ il discrimine totale e definitivo, quello che ci offre ogni evento, ogni storia, ogni narrazione, ogni situazione. Il più facile e immediato, quello che non manca mai, il crinale lungo il quale scegliere da che parte stare. Neanche la voga del postmodernismo è riuscita a scalfire il mito di una divisione perfetta tra gli uni e gli altri, alimentata da secoli e secoli di semplificazione. Io, da sempre, fin da quando ero piccino, ho sempre preferito i cattivi. Non ci sono cazzi. Mi sono sempre piaciuti Dillinger, Bonnot, Vallanzasca, gli Indiani e financo Cattivik. Perché? Perché i buoni sono ipocriti e parteggiare per loro è una forma di ipocrisia ancora più viscida, fatta di menzogne taciute anche a sé stessi e di facili schieramenti, perché i buoni vincono sempre anche quando non lo meritano, perché i buoni incarnano ciò che è giusto e naturale che sia giusto, sono l’autoassoluzione dalla propria stronzaggine e della propria intima miseria egoistica. Sono un insopportabile assioma, una tautologia vivente (almeno nelle narrazioni), uno schiaffo alla realtà. Invece stare con i cattivi significa cercare di capire la verità, di capire che cosa succede, di non fermarsi alla facile apparenza e al conformismo di ciò che è giusto o di ciò che è sbagliato secondo "chiunque". Stare con i cattivi significa cercare, pensare, decidere.
Anche Genova è una storia con i buoni e i cattivi, anzi con tanti buoni e tanti cattivi, a seconda del punto di vista di chi vi racconta cosa è successo. Così ci sono i buoni per antonomasia, i poliziotti, le forze dell’ordine, quelli che ci proteggono, e i cattivi per definizione (almeno in questi decenni di bulimia dei consumi e di anoressia dei cervelli), i manifestanti, quelli che fanno casino. Ma anche spostando un po’ più in là l’asticella della nostra narrazione, ci sono sempre i buoni, i manifestanti pacifici, e i cattivi, i manifestanti cosiddetti violenti. Quindi, anche spostandosi più in là possibile con il punto di vista, rimane sempre bello limpido il discrimine: da un lato i buoni e dall’altro i cattivi, i violenti.
Ora: tralascerò una disanima sul termine violenza, una parola che non digerisco più. Intendiamoci: capisco perfettamente la sua denotazione, ma non riesco più ad accettarla come parte del mio lessico da quando è diventata un connotato di giustizia, da quando ciò che è violento è necessariamente sbagliato, come se avesse intrinsecamente un valore morale, come se violento fosse un aggettivo etico e non qualificativo di una situazione. Feroce è morale, forte è morale, prepotente è morale, ma violento in sé non è né buono né cattivo. Almeno fino a quando non hanno deciso di sciacquarci il cervello in un Arno fatto di equidistanze e privazione della capacità di prendere posizione, di decidere in base a ciò che viviamo e che vediamo intorno a noi.
La sentenza di appello per i fatti avvenuti nelle strade di Genova durante il G8 del 2001, nell’arco del famoso processo ai 25 – e se non sapete di che parlo fate una bella ricerchina in rete che non ne posso più di riassumere gli eventi – ha sancito una volta di più che quel discrimine non si può valicare se non a costo di gran parte della propria vita. I buoni, via via nei mesi, sono stati tutti assolti: chi pienamente perché santo subito (De Gennaro, l’ex capo della polizia, e compagnia), chi parzialmente con sentenze che assomigliano più a strigliate che non a condanne (Diaz e Bolzaneto), chi di straforo per culo o per inciso (mancanza di prove o risarcimento per aver subito una carica studiata a tavolino per scatenare il delirio a Genova come nel caso delle Tute Bianche in via Tolemaide, anche se su questo evento e sulla gestione giudiziaria della cosa si dovrebbe parlare a lungo per mille motivi, fatto salvo che sono contento per coloro che sono stati assolti). I cattivi pagano pegno: 10-15 anni a testa, zitti e muti. Con buona pace della storia e della ricerca della verità. Tra dieci e quindici anni. Pensiamoci ogni tanto alle cose che leggiamo o quelle che sentiamo al telegiornale.
I moralisti diranno: bene, se lo meritano. I loro compagni diranno: male, Stato bastardo e assassino. Io – pur condividendo questa seconda posizione diciamo in termini formali e ideologici – voglio ragionare con chi mi legge. La decina di persone che è stata condannata è il capro espiatorio di un evento storico che nessuno vuole guardare in faccia. Anche a distanza di anni, i libri scritti su Genova – sia da ex poliziotti che da (ex) compagni – non vengono comprati, non vengono letti, non vengono discussi. Tutti sono lì a nascondersi quello che è avvenuto, quello che hanno provato, la voglia di violenza che si è scatenata (o che qualcuno ha voluto scatenare, su questo non saremo mai d’accordo e forse non è possibile esserlo) in noi e intorno a noi. Così una decina di persone che ha causato qualche migliaio di euro di danni a un’altra decina di persone viene condannata a più anni che non qualcuno che ha ucciso (ucciso = ammazzato = morto) una persona, o di qualcuno che a truffato decine di migliaia di euro a tutti i cittadini italiani, o che ha aggredito e violato la dignità e l’incolumità fisica di una persona (uno stupratore ad esempio). 15 anni. Sono molti da passare in carcere per aver rotto dieci vetrine. Ma una pena più lieve non sarebbe stata abbastanza per i cattivi. E se i cattivi non sono più cattivi, i buoni non possono essere i buoni, e chi ci capisce più nulla? Non si può fare, converrete con me. Ci toccherebbe cercare di capire quello che è successo, la complessità del mondo in cui viviamo. Ma non è cosa per poveri esseri umani italiani del terzo millennio.
Rimane la rabbia. Rimane la frustrazione per non essere in grado di spiegare quanto sia semplice e brutale la situazione, quanto sia inevitabile e quanto nessuno voglia né conoscere quello che è avvenuto in quei giorni, né porsi il problema di che cosa significhi la parola giustizia o la parola violenza. Rimane l’istinto alla violenza. Rimane ciò che ci circonda. Rimane il disgusto. Rimane il discrimine e la possibilità di scegliere se stare da un lato o dall’altro del crinale. Io non ho cambiato idea.
Rimane la consapevolezza che è giunto il momento di leggere la realtà, di rendersi conto che lo spazio per la rappresentazione, per l’opinione, per la manifestazione è morto da tempo, annullato, vituperato, strumentalizzato. Che se volete dare libero sfogo alla vostra idea, se volete essere partigiani, non potete lasciare spazio ai dubbi. E’ il tempo di fare, di agire: che sia come riformisti (candidarsi, eleggersi, schierarsi, infilarsi in istituzioni di merda varie), che come radicali (tralascio gli esempi, ma penso che Bonnot o il subcomandante Marcos li conosciamo tutti). Non si può più aspettare che succeda qualcosa indipendentemente dalla nostra pochezza. Io sono un codardo, un vigliacco, o forse non sono abbastanza bravo o capace per fare passi così tetri, duri e cinici. Ma ammettendo il mio limite saggio anche il margine con cui mi accosto al crinale. Lo spazio per le speranze è finito da tempo e la storia sarà sempre e comunque di chi saprà scegliere, schierarsi e lottare. E di chi pagherà per questo. Intendiamoci: non servono martiri, ma servono persone che non abbiano paura di fare la cosa giusta. Io sabato 21 luglio avrei bruciato tutta la città. Mi fermai di fronte a decine di miei amici e compagni con cui avrei dovuto venire alle mani per fare quello che ritenevo giusto. Sbagliai. Altri non sbagliarono. Perché di fronte all’assalto alla nostra libertà di quei giorni e dei giorni che sono seguiti da allora, quello che fecero è ancora troppo poco, ma ne possono certamente andare orgoliosi (magari in nicaragua, eh? 🙂
Ho usato esempi estremi, ma ci sono milioni di situazioni quotidiane in cui chiunque di noi può essere un militante della propria statura etica. Non si può più aspettare e osservare il crinale. Bisogna calpestarlo, attraversarlo, cavalcarlo, viverlo. Il versante dei cattivi. Il versante dei giusti.

 

Le parole giuste

9 Ottobre 2009 Commenti chiusi

 

Alle volte è bello vedere che qualcuno trova le parole giuste per descrivere quello che si osserva e quello che si prova. Scrive Giovanni De Mauro sull’editoriale di questa settimana di Internazionale:

"Un sondaggio Ipsos di qualche settimana fa confermava tre dati interessanti. Il primo è che in Italia il 54 per cento delle persone si informa prevalentemente attraverso la televisione (il 25 per cento con i quotidiani, il 12 su internet e il 3 con la radio). Il secondo è che il 53 per cento degli italiani considera i mezzi d’informazione molto o abbastanza autorevoli, mentre il 41 pensa che non lo siano. Il terzo è che le persone convinte dell’autorevolezza dei mezzi d’informazione sono le stesse che guardano la tv, e appartengono ai ceti più popolari. L’aspetto preoccupante di tutto questo è che la spaccatura del paese sembra essere più profonda di una semplice divisione tra nord e sud, ricchi e poveri o destra e sinistra. È una frattura narrativa: gli italiani sono convinti di guardare tutti lo stesso film, ma i ilm sono due – uno raccontato dalla tv, l’altro dal resto dei mezzi d’informazione – e i personaggi e la storia sono molto diversi. Il rischio è che le due Italie non riescano più a parlare tra loro perché non condividono più la stessa realtà, e forse neanche le parole per deinirla. "

Le teste

28 Settembre 2009 1 commento

 

Devo fare una premessa, perché non voglio essere frainteso. Apprezzo molto Giuseppe Genna e quello che sta facendo insieme a tanti altri miei amici e non solo per ricucire e ripensare il panorama letterario italiano e il senso di una possibile operazione culturale profonda per rifondare i cervelli italiani. Apprezzo anche il fatto che non si sia mai tirato indietro quando c’era da discutere di molte cose e di mettere firme scomode, senza menarsela. Per questo quello che scriverò sul suo ultimo libro è da prendere come una critica fatta senza cattiveria, ma solo seguendo il mio personale gusto. Insomma: Giuseppe, se ti capita di leggermi, non ti offendere anche se non ho apprezzato molto un po’ tutta la tua ultima fase letteraria!

Già perché Le Teste rappresenta decisamente il punto di incontro tra gli ultimi libri di Genna – la cui prosa involuta, imbevuta di psicosi e houellebecq, di lessico e sintassi troppo ricercati per colpire al cuore, così concentrati come sono sul lambiccare il cervello – e i magnifici romanzi del ciclo dell’Ispettore Guido Lopez. Per sua stessa ammissione Genna odia il suo personaggio, lo vuole distruggere, e devo dire che per questo omicidio non c’è modo migliore di quello che ha scelto: trasformare Lopez nel sè autobiografico e autopoietico dei suoi ultimi libri, fonderlo con la propria ricerca letteraria, snaturarlo e storpiarlo, fino a trucidarlo sia narrativamente che letterariamente. Io non ho apprezzato, onestamente. 

La sezione del libro dedicata alla storia di Lopez è decisamente atipica, ma si potrebbe anche goderne: le false soluzioni, il gioco di specchi e di rimandi, una trama caleidoscopica di buon livello. Ma metà del libro è occupato da un secondo libro, dal libro di Genna che incarna Lopez e viceversa, dall’ego di Genna che parla attraverso le sue parole, gli ossimori, la ricerca ossessiva ed estetica del Verbo.  Houellebecq in salsa italiana. Che può essere amato da chi ama anche H. Cioé non da me. E il coup finale in cui il secondo libro diventa più importante nell’economia del libro rispetto al primo è una coltellata nella schiena. La mia schiena 🙂 Soprattutto dato che del Digesto delle Teste ho smesso di leggere i brani ben prima della metà. Li ho riletti alla fine. E non sono riuscito ad apprezzarne il valore. 

Giuseppe: non era obbligatorio scrivere l’ultimo capitolo della saga di Lopez. Alcune cose sono splendide proprio perché sospese. Un po’ come il ponte di Mostar, che non saprei dire se mi piaceva di più prima delle bombe o dopo. Forse non è necessario bombardare la propria storia per costruirne una nuova. Con immutato affetto. Voto: 6.

 

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Il potere del cane

24 Settembre 2009 Commenti chiusi

 

Il libro di Don Winslow è possente. Non c’è un altro termine. Ho tentennato una decina di pagine e poi non mi sono più riuscito a scollare. Attraversa vent’anni di guerre fantomatiche della più prestigiosa democrazia del mondo viste con gli occhi di chi ci era dentro fino al collo. E’ un libro che punta tutto sul ritmo e sulla trama, su alcuni personaggi, anche a scapito dell’ambientazione. Nonostante questo la cura per i dettagli è veramente notevole e la sua forza di gravità impressionante. Mi chiedo come sia in lingua originale e non escludo di andare a recuperare i libri dell’autore ancora non tradotti, ma se state cercando un crime (adesso va di moda questa parola come l’anno scorso andava di moda noir che, per inciso, a me piace di più) che vi travolga e vi faccia trascorrere ore intere a domandarvi cosa ne sarà di questo o quel personaggio di una grande saga l’avete trovato. Da un lato historia marqueziana (senza l’afflato lirico, ovviamente, tarpato dalla natura yankee dello scrittore), dall’altro thriller mozzafiato (arricchito dalla voglia per nulla yankee di puntare il dito contro la democrazia più importante del mondo). Voto: 8.

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Voglio diventare siberiano

22 Settembre 2009 7 commenti

 

Quel rimbambito di un amico che mi ritrovo – ppn – alle volte ci piglia con i cosigli bibliofili. Questo è uno di quei rari casi, ma ciò non toglie che lo debba ringraziare per avermi suggerito Educazione Siberiana di Nicolai Lilim, pseudonimo di un tatuatore di origini siberiane in quel di Cuneo. 

Dopo aver letto il libro c’è solo una possibilità: desiderare ardentemente di diventare siberiani. Già leggere di un’infanzia nella landa sconosciuta ai più della Transdnistria (uno territorio a cavallo tra Moldavia e Russia non riconosciuto da nessuno eppure frequentatissimo da chiunque voglia trafficare e contrabbandare tra i due stati) mi aveva mandato in visibilio, ma avventurarmi nella formazione dell’etica criminale più pura ha aizzato il mio senso di appartenenza. In un periodo di scarse idee e di nulle ideologie, di utopie buttate nel cesso della storia, Educazione Siberiana racconta come sia ancora possibile credere in un sistema di valori diverso da quello dominante: onesto, crudo, integerrimo, solidale, sociale. Forse un tempo anche i banditi italiani avevano qualcosa di simile a quanto descritto nel libro, forse sono tutte cose per inguaribili romantici e anarchici incalliti, però è innegabile che sarebbe bello se un’opzione come quella descritta nel libro non fosse solo un sogno del passato, ma una concreta prospettiva. Ed è tutt’altro che da escludere, considerato come il Paese in cui viviamo si avvii verso l’emarginazione e l’isolamento delle comunità straniere in italia, anche quelle composte da persone nate e cresciute nelle nostre città: come in molte cose cerchiamo di copiare gli Stati Uniti con un ritardo cronico di qualche decennio che non fa che rendere grottesche le dinamiche sociali che scimmiottiamo senza affrontare. Fosse per me, un libro da far leggere a tutti i teppistelli delle nostre periferie, con tutti i rischi nel bene e nel male del caso.

A breve dovrebbe uscire il suo secondo libro, dove racconta la sua esperienza in Cecenia: se anche questo volume sarà diretto come Educazione Siberiana ci sarà da ridere (o meglio da piangere, ma si sa il cinismo trasforma anche la peggiore delle tragedie in una grassa ghignata).

 

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