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Archivio per la categoria ‘pagine e parole’

Settanta

15 Settembre 2009 Commenti chiusi

 

Secondo volume della "Trilogia sporca dell’Italia", dopo Confine di Stato. Sarasso fa parte di quella generazione che ha mangiato e digerito i cosiddetti nuovi media e che rielabora il modus narrativo di questi ultimi in vecchi media (come i libri, che per fortuna ancora non tramontano). Scrive un libro con lo stile di un fumetto: scene rapide, lunghi intervalli e poi scorci, improvvisi, collegamenti da tracciare con la fantasia prima ancora che con la consequenzialità delle parole sulla pagina. E’ un metodo interessante, secondo me adattissimo alla letteratura di cui Sarasso si sente parte, di quella riflessione sulla New Italian Epic che anche lui ammette influenza la direzione che sta prendendo il suo lavoro. Io mi sono goduto il libro, anche se sorvola un periodo ampissimo, forse risultando un po’ affrettato nello stilizzare quanto è successo all’Italia in quegli anni: d’altronde scrivere con maggiore dettaglio avrebbe significato scrivere un libro di 8000 pagine e forse non era il caso. Assieme al divertimento per la lettura, un’altra sensazione: le persone con cui è in contatto sono le stesse con cui siamo in contatto noi come Blackswift, la logica con cui vogliamo raccontare il mondo è la stessa, gli obiettivi e le influenze assimilabili. Eppure noi non troviamo la strada giusta, la motivazione o forse il modo giusto per convincere non solo noi stessi e i lettori, ma anche gli editori che valga la pena pubblicare quello che facciamo. Il mondo intorno continua a diventare più gretto dei nostri peggiori immaginari e lentamente la sensazione che quanto scriviamo si rivolga a un contesto che ci ha già superato è sempre più forte. Forse siamo noi a essere insufficienti: ci manca volontà, o forse anche qualità, per arrivare fino in fondo. Forse non sappiamo imparare abbastanza, o forse ormai ci siamo intimamente convinti che intorno a noi non ci sia la disponibilità di ascoltare a sufficienza. Non saprei: sono felice per Sarasso e per tutti coloro che riescono a trovare le motivazioni per raccontare e le strade per pubblicare, ma mi rimane la sensazione di essere un disadattato anche in questo contesto. Come se non mi bastasse esserlo nel mondo reale. Tornando al libro alla fine dello sproloquio: bel libro, divertente, da mangiare rapidamente come fumetti e film, per poi ragionarci con calma. Confermo il voto 🙂

Voto: 6/7

PS: non ho ancora capito se Sarasso lo conosco o no, probabilmente ci siamo incontrati mille volte. Ma trovare il mio cognome addosso a un carabiniere mi ha fatto veramente schiattare dal ridere. 

 

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I frutti dell’ira (furore)

8 Settembre 2009 5 commenti

 

In uno dei tanto angoli di bookcrossing degli ostelli che ho girato in Turchia ho finito per scegliere, come compagno di viaggio, The Grapes of  Wrath di John Steinbeck. Devo dire che è un autore che mi sono cagato poco nel passato e che ho approcciato il libro completamente scevro da influenze di critica e di altro tipo. Il libro racconta una fase della storia americana (e non solo) in cui le piccole famiglie contadine vengono cacciate dalla propria terra, spinte al nomadismo e nella povertà più assoluta cercano di sopravvivere a fronte di una società e una classe media tronfia della propria ricchezza e della propria superiorità. In questo momento in Italia sarebbe una lettura molto educativa (sempre che i poveri studenti italiani siano in grado di capire i lievissimi parallelismi con il presente del romanzo): in italiano è stato tradotto con il titolo di Furore, premio Pulitzer nel 1940 e film con Henry Fonda notevole. Leggerlo in inglese è stato veramente intenso e devo dire che le critiche di eccessivo schieramento a sinistra che ha ricevuto l’autore in seguito a questo libro (nonostante fosse un democratico abbastanza moderato e figlio di buona famiglia) sono pienamente condivisibili. Alcuni brani sono di un lirismo incredibile e alcuni passaggi delle discussioni soprattutto dei personaggi di Tom Joad, del predicatore Casy e della madre di Tom sono delle staffilate durissime alla società americana, al modello capitalista e alle sue implicazioni in termini di eguaglianza e di compatibilità con il "sogno americano". In uno dei capitoli finali c’è anche la descrizione più bella che io abbia trovato recentemente di che cosa voglia dire essere "di sinistra".


Timothy scraped a litttle hille level in the bottom of the ditch. The sun made his white bristle beard shine. ‘They’s a lot of fellas wanta know what reds is.’ He laughed. ‘One of our boys foun’ out.’ He patted the piled earth gently with his shovel. ‘Fella named Hines – got ‘bout thirty thousand acres, peaches and grapes – got a cannery an’ a winery. Well he’s all a time talkin’ about "them goddamn reds." "Goddamn reds is drivin’ the country to ruin," he says, an’ "We got to drive these here red bastards out." Well they were a young fella jus’ come out west here, an’ he’s listenin’ one day. He kinda scratched his head an’ he says: "Mr Hines, I ain’t been here long. What is these goddamn reds?" Well, sir, Hines says: "A red is any son-of-a-bitch that wants thirty cents an hour when we’re payin’ twenty-five!" Well, this young fella he thinks about her, an’ he scratches his head, an’ he says: "Well, Jesus, Mr Hines. I ain’t no son-of-a-bitch, but if that’s what a red is – why, I want thirty cents an hour. Ever’body does. Hell, Mr Hines, we’re all reds."’

Voto: 9

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Suck!

8 Settembre 2009 2 commenti

 

Finalmente un po’ di tempo per leggere dopo la stressante vacanza turca 🙂

Per allietarmi ho preso il terzo volume di Christopher Moore tradotto dalla ottima Elliotedizioni (che mi sembra stia prendendo abbastanza quota, cosa di cui non posso che felicitarmi). Suck! è una ironica storia di amore ed avventura tra i vampiri:  contrariamente a Il Vangelo secondo Biff e Un lavoro sporco, mi pare un po’ scritto di fretta e con la mano sinistra. Divertenti alcuni sketch e alcune battute, lacunosa la trama e per nulla scorrevole la prosa. Se volete cominciare a conoscere il simpatico scrittore americano, non è sicuramente il libro da cui vi inviterei a cominciare. Vedremo la prossima scelta della casa editrice, intanto che fremo per il nuovo di Wu Ming (di prossima uscita) e per comprarmi l’ultimo di Erri De Luca (che un mio amico ha incensato parecchio mettendomi il tarlo nell’orecchio).

Voto: 6—

 

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Difetti di fabbrica di un’epoca

1 Settembre 2009 Commenti chiusi

 

Ho terminato da un paio di giorni l’ultimo libro di Thomas Pynchon, che come molti di voi sapranno è lievemente il mio autore preferito. Ormai TRP ci ha abituato a capolavori immensi intervallati da libri più leggeri e meno impegnativi. Questo ultimo Inherent Vice è decisamente in linea con il precedente Vineland (e anche alcune ambientazioni e personaggi riecheggiano lungo le pagine e le parole del maestro). E’ un bel libro, scorre via tra brani di poesia assoluta e battute da ribaltarsi sulla sedia, lungo la storia del Detective Doc Sportello e la storia personale di TRP, del sogno psichedelico degli anni Sessanta in America, e di tutto quello che ha finito per non funzionare in quel sogno. E’ una struggente ammissione dell’insufficienza di quell’utopia, una ironica presa di coscienza che non bastava pensare che l’amore vincesse su tutte le cose per cambiare il mondo. Io da buon cinico materialista non posso che essere d’accordo. 

Al contrario di Against the Day, non è un libro dai molti piani di lettura, è facile, e anche divertente, ma penso che per vederlo in italiano dovrete aspettare parecchio tempo. Pynchon ci consegna la sua visione a oltre 70 anni suonati di un pezzo della propria vita e della storia dei movimenti nel mondo. Le linee finali del libro, come sempre immense in ogni scritto pynchoniano, il mio socio le definirebbe come le mie: quelle di un inguaribile tanguero sotto mentite spoglie.

Then again, he might run out of gas before that happened, and have to leave the caravan, and pull over on the shoulder and wait. For whatever would happen. […] For the fog to burn away, and for something else this time, somehow, to be there instead.

Poche righe, per bruciare la speranza che una volta sollevato il pavé sotto vi sia davvero una spiaggia e non il laconico dipinto di sabbia che è stata portata via dal tempo.

 

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Ricorda per sempre il 4 agosto…

22 Agosto 2009 Commenti chiusi

 

Il 4 agosto è uscito il nuovo romanzo di Pynchon, Inherent Vice

Di primo acchitto sembra più vicino a Vineland che non a Against the Day o Gravity’s Rainbow, ma sarà sempre un piacere leggerlo e parlarvene. Qui il wiki dedicato e sotto potete vedere un trailer la cui voce narrante è la cosa più vicina a una apparizione pubblica di Thomas Pynchon da 50 anni a questa parte 🙂

 

 

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Contro il giorno

23 Giugno 2009 5 commenti

 

Finalmente (dopo 3 anni) è uscita la traduzione italiana dell’ultimo libro di Pynchon, Against the Day. Ultimo ancora per poco dato che a breve uscirà Inherent Vice, un noir del mio autore preferito 🙂 Ovviamente ho comprato anche la traduzione, ma alla seconda riga già mi sono incazzato. Passi metterci tre anni a tradurlo, ma se poi si fanno errori grossolani e scelte senza senso nella traduzione (non rendendo il tono e lo stile pynchoniano), tanto valeva non farla neanche la traduzione: intendiamoci, so bene che è un lavoro difficile ma sarebbe bello potersi confrontare con Massimo Bocchiola su una serie di scelte. Se avrò tempo condividerò qua le mie perplessità.

Ne approfitto per ripubblicare una versione unificata delle mie sintesi del libro fatte mentre leggevo la versione originale (sono piene di errori e imprecisioni, ma erano scritte come memo personale e al volo durante la lettura, e quindi mancano delle interpretazioni a libro completo) che mi è stato inviato da un lettore del blog che le ha trovate molto utili. Grazie mille a.b. 

Ricordo inoltre a tutti che la fonte più interessante di approfondimenti sul libro e sugli altri libri è il progetto di una specie di wikipedia pynchoniana avviato proprio quando fu pubblicato Against the Day. 

 

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Lansdale è un pappamolla :)

6 Maggio 2009 5 commenti

 

Appena ho saputo che era uscito l’ennesimo e ultimo – si mormora – capitolo della serie di Hap e Leo, mi sono fiondato a prenderlo in libreria. Beh, a dire il vero ci ho messo quasi 15 giorni, ma alla fine quello che conta è lo spirito morale con cui ho affrontato la cosa, no? Il titolo – Sotto un cielo cremisi – e l’annuncio del libro mi hanno fatto  pensare che alcuni dei nostri eroi, includendo in essi Jim Bob Luke e Brett, ci rimettessero le penne. Ma sono stato colpito dalla sindrome da traduzione: infatti il titolo originale è Vanilla Ride e nulla fa presagire nefasti eventi nella vita dei personaggi principali della serie. Ovviamente escludendo la sequela di botte e proiettili che si beccano nelle 312 pagine di puro Lansdale. La conclusione è semplice: Lansdale si è rammollito, non è più quello di una volta, e si è affezionato ai suoi eroi di carta. E meno male, perché io non avrei retto alla morte di Leo o Hap, e peggio ancora di Jim Bob Luke. 

Il libro è tradotto così così, soprattutto nelle prime pagine, ma poi anche il bravo ragazzo che ci si è cimentato prende il ritmo e si lascia trascinare dagli eventi. L’ironia e l’umorismo di Lansdale ne escono intatti, anche se la trama non è esattamente avvincente. Del resto questo è Lansdale, prendere o lasciare. Un po’ come è scritto anche nel libro. Per chi vuole godersi qualche ora e spendere qualche ghigno, è semplicemente imperdibile: l’unico lato del Texas che apprezzi 🙂 Voto: 8

 

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La minima distanza tra Ohio, Italia e Port Royal

28 Aprile 2009 1 commento

 

Sono rimasto un po’ indietro sulle recensioni.  Me ne scuso, ma sono settimane un po’ dense, tra lavori e impegni di altra natura. La prossima sarà pure peggio stretta intorno alla Mayday Parade, di cui avete già avuto un assaggio con il video del precedente post.

Ne approfitto e faccio in un colpo solo le recensioni dei tre libri che sono riuscito a leggere in questo mesetto. Ho battuto un po’ la fiacca, ma per metà del tempo mi sono rifiutato di leggere per non incasinare la traduzione che stavo facendo. Chiedo venia. Stranamente, ma forse neanche troppo, i tre libri che ho letto sono uniti da un fil rouge che trasporta il lettore attraverso la cruda realtà del mondo moderno e delle sue origini.  Infatti il libro migliore tra i tre che ho spiluccato è certamente l’ultima fatica di Valerio Evangelisti, Tortuga. E’ stato un libro molto criticato, perché differisce da tante altre opere di autori del medesimo giro di Valerio nella lettura del fenomeno della pirateria. Il grafomane bolognese – lo dico con ammirazione non con vituperio sia chiaro – indaga con piglio storico feroce il periodo finale delle libere repubbliche piratesche, quando alla spontaneità delle prime esperienza si è già iniziato a sostituire il cinismo della ragione di stato. Quale stato è tutto da decifrare. Io come molti altri rimango fortemente affascinato dalla storia e dalla cultura dei pirati, ma devo ammettere di apprezzare anche il realismo della ricostruzione di Evangelisti: la società dei pirati come l’estremizzazione della società capitalista, un anarchismo stirneriano nella sua accezione peggiore, la grettezza eletta a unica ragione di vita, il profitto e la sopravvivenza nonostante tutto come principio imperante. Truce, vero, senza sconti per nessuno. La cosa più terribile e al tempo stesso splendida è che Tortuga non parla solo dei pirati, ma parla di noi, del mondo che ci circonda e di come è finito: in questo senso – direbbe Wu MingNew Italian Epic a go-go, anche se un etica un po’ distopica. Dal punto di vista di noi blackswiftiani, una reality fiction storica di grandissima classe. Ogni tanto mi trovo a desiderare che Valerio non scriva altro che romanzi storici et simila. Il suo Noi saremo tutto rimane ancora uno dei migliori romanzi italiani degli ultimi 20 anni. Per me almeno. Voto: 7

A questo scorcio cinico sulla storia e sulle origini della cultura dominante nel mondo che ci circonda fa da contraltare l’attualità tremebonda di Knockemstiff di Donald Ray Pollock: il libro edito in Italia da Elliot Edizioni – di cui sapete che apprezzo molto le scelte editoriali – è veramente feroce. Mentre lo leggevo era difficile conservare un tono diverso dal nero sulle mie emozioni e le vicende che vi sono narrate difficilmente vi eviteranno una pessima settimana. E’ come entrare in un lunedì e non uscirne più. Quando l’ho finito non volevo consigliarlo molto, anche perché lo stile di scrittura – forse complice una traduzione non impeccabile – non è entusiasmante, e soprattutto lo spazio per scorgere un fiore in mezzo al mare di merda che il libro ti lancia addosso (e che circonda ognuno di noi) è veramente minimo. Quando però ho capito che i racconti non erano inventati, ma erano la più classica delle reality fiction ho rivalutato molto l’operazione del libro. Se esiste un luogo come Knockemstiff, il mondo è un luogo orribile e la fine della razza umana è segnata. Ogni cosa, ogni più piccolo atto che ci allontana da essere i discendenti legittimi di Tortuga e i coetanei non da meno degli abitanti della cittadina dell’Ohio è una piccola speranza. Voto: 6,5

Piccola speranza che il buon Giuseppe Genna non condivide. La sua ultima fatica, Italia De Profundis, conclude un trittico ideale sospeso tra Dies Irae  e Medium – con l’intervallo poco distante di Hitler. Devo dire che ho amato molto il Genna di genere – come scrittore dico – almeno tanto quanto non riesco ad apprezzare la convoluzione dei suoi ultimi lavori: mi pare che si sia ritorto su sé stesso, nella ricerca di uno specchio per l’Italia orribile in cui viviamo. Forse è successo anche a me. Forse la mia scelta di smettere di scrivere per un po’ è più clemente. Con me stesso e con gli altri. Non sono riuscito ad andare oltre i primi capitoli ed è un fenomeno che mi è successo solo con Houellebecq. Voto: 5,5 (spero non mi odierai per questo 🙁

Bene, ora mi sono sfogato. Ho preso in mano l’ultimo di Scurati – che dalle prime battute è molto più arioso come stile – e presto acquisterò l’ultimo di Hap e Leo, dell’immortale LansdaleSotto un cielo cremisi. Con Infinite Jest di David Foster Wallace che mi attende a casa, non mi mancano certo le letture. Come il solito sarà il tempo ad essere tiranno.

Aspettatevi un po’ di post sulla mayday e le azioni premayday nei prossimi giorni.

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Thy Kingdome Come: è morto Ballard

19 Aprile 2009 1 commento

 

E’ morto JG Ballard, il mondo è ancora più triste e desolato. Scompare un’altra delle poche voci degne di essere lette in circolazione. 

Per ricordarlo: http://www.ballardian.com/

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Genova: dall’altra parte della barricata

29 Marzo 2009 6 commenti

 

Pre Scriptum: quella merda del mio socio approfittando della mia temporanea carenza di connessione mi ha bruciato sul filo di lana e ha pubblicato la recensione di questo libro prima di me, nonostante il testo glielo abbia prestato io. 

Genova sembrava d’oro e d’argento è il secondo romanzo di Giacomo Gensini, ex celerino. Scritto senza particolare bravura e senza particolare infamia, ha però un grande pregio. E’ la storia di uno stronzo. E’ la storia vista e raccontata da qualcuno che sta dall’altra parte della barricata, anche se definire la barricata è l’impegno più interessante. Ha i suoi limiti e i suoi pregi, e devo dire che mi aspettavo di peggio.
Ormai di Genova hanno parlato tutti, e non c’è motivo per cui non ne parli anche la voce di uno sbirro del VII Nucleo Antisommossa – i famosi Canterini boys – e proprio per questo per me, che ho vissuto quei giorni, i giorni successivi e gli anni che hanno trascinato con loro le ricostruzioni, gli atti dei tribunali e i racconti di chi è stato e di chi stato non è, è un libro interessante.
Se dovessi darne una descrizione direi che è la dichiarazione di ineluttabilità di quanto è avvenuto e di quanto avviene, direi che alla fine dei conti per chi sta da quella parte della barricata archiviata la constatazione di un sistema marcio di cui essere ingranaggio, l’unica giustificazione è quella dell’inevitabilità del tutto, della dimensione intrinseca alla natura umana e alla società di quanto Genova è stato e ha rappresentato per tutti. E io penso che sia un po’ troppo comodo.

"Il consumismo, l’ipercompetitività, il mito del successo, l’individualismo patologico esasperavano le frustrazioni e acuivano la violenza. Un sistema fuori controllo e sempre più squilibrato provocava squilibri. Per questo la finzione dei diritti non poteva durare a lungo. Prima o poi, se l’apparato (del quale chi più chi meno facevamo parte) voleva sopravvivere, la repressione doveva diventare metodica e libera dagli  ideali delle rivoluzioni del diciottesimo secolo."
"I potenti e le lobby che li sostenevano si vedevano nella città dei Doria per decidere le loro quote di mondo. Niente di più. Noi e i manifestanti non avevamo alcun ruolo in tutto questo, non eravamo influenti, se non a un livello infinitesimale. Ma avremmo fatto un sacco di colore."


Il libro è onesto, secondo me, e molto istruttivo di come si percepisce lo sbirro medio del reparto mobile, delle contraddizioni che vive, delle ragioni che si da, al di fuori della retorica e dell’ipocrisia. Anche quando dipinge i poliziotti come uomini e non come robot o come fanatici: mette a nudo le contraddizioni e perpara il terreno per la vittima sacrificale delle spiegazioni che Gensini si è dato di Genova: la necessità antropologica e storica.
"Fatto sta che le veline ottenevano un unico scopo: renderci ogni giorno più nervosi. Caricarci come molle. […] Era il peggior modo possibile di reagire, ma anche l’unico. E non parlo della solita storia di rischiare la pelle per milletrecento euro al mese, con tutta la retorica annessa. Queste alla fine erano cazzate: l’avevamo scelto. Parlo del fatto che noi comunque eravamo e restavamo uomini. Credevano davvero che indossare un caso e una tuta ci rendesse immuni alla fatica e alla paura? Immuni alle emozioni… alla tensione, alla rabbia? No… nessuno di loro lo credeva davvero, […] ma fingevano che non fosse né possibile né accettabile, difendendo l’ipocrita mondo immaginario raccontato in tv."
"Perché quello che condividiamo non è la divisa, ma un segreto. Un segreto sull’umanità e sulla sua miseria. Sullo squallore della sua cieca violenza, sui suoi egoismi, sulle ipocrisie. Noi sappiamo cosa c’è dietro la facciata. Ed è questo che ci rende fratelli."
"Ma gli scioperi, gli sfratti, le rivendicazioni sociali di qualunque tipo sono un’altra cosa. Ogni volta dobbiamo trasformarci in automi, ogni volta. Quello che ci salva è che i nostri antagonisti scatenano regolarmente su di noi la loro rabbia, come fossimo stati noi a decidere. E noi non possiamo fare altro che difenderci."
"Lo spettacolo è incredibile, Genova sembra bruciare di mille incendi, un fumo nero e denso sale al cielo. Sirene lontane, grida lontane e un sole che sorride cattivo, soddisfatto dello spettacolo. Genova avvolta dal fumo e dalla rabbia… bellissima e nuda. Non so perché alzo le braccia al cielo e grido un grido di trionfo, grido la mia rabbia e la mia gioia. Grido per liberare la tensione. Grido perché era cos che l’avevo immaginata e desiderata. Grido perché so che questo è solo l’inizio."


Dopo questa sbrodolata di tuttosommato apprezzamenti veniamo al dunque. L’accusa più grande che si trova nel libro sostanzialmente è che laddove i poliziotti sono meccanismi inconsapevoli ma schietti del conflitto di potere, i manifestanti sono invece parte di quel conflitto di potere stesso. L’autore assume nei confronti della nostra parte della barricata un atteggiamento solo un filo meno stereotipato del solito, cercando di condirlo con l’esperienza diretta: la Rete Lilliput dei poveri deficienti che hanno difeso i violenti, i disobbedienti un branco di politicanti ipocriti e pagliacceschi, i black bloc quelli che volevano scontrarsi sul serio, gli antagonisti, i violenti.
"Una società individualista non può essere non violenta. L’individuo ha una grande considerazione di sé stesso. Alla fine sopporta la violenza solo in astratto, e solo se riguarda gli altri, ma ci mette poco a peedere la testa se riguarda lui. Non ti tiro un sasso per la fame nel mondo e le politiche neoliberista, te lo tiro se mi dai una manganellata. [….] Via Tolemaide è una conseguenza naturale. Noi, se non altro, ci risparmiamo l’ipocrisia di un sorriso falso. Noi non siamo non violenti. Noi siamo quello che siamo."


Devo dire che è una lettura interessante, e in alcuni tratti simile a quella che do io delle vicende genovesi, e che forse un giorno riusciremo ad approfondire, quando le ferite si saranno rimarginate e la ragione prenderà il posto dell’emozione. Gensini individua perfettamente alcuni meccanismi, quelli del potere, e anche mi strappa un sorriso quando mi rendo conto di quanto siano simili le sue posizioni rispetto alle decisioni delle tute bianche o dei vertici della polizia e dei giornalisti. Questo dimostra quanto è sottile il crinale che si può percorrere per interpretare i fatti, e quanto sia semplice sciogliere la propria responsabilità in un fatalismo ipocrita, salvo poi accusarne gli altri.
E’ su questo crinale che alcune crepe si aprono nell’onestà intellettuale di Gensini. L’esempio più eclatante sono: l’omissione della carica sul lungo mare a cui partecipa anche il VII nucleo e che nel libro viene liquidata con il commovente episodio di François (i dirigente del reparto che secondo me è identificabile in Michelangelo Fournier) che rifiuta di caricare la gente senza una via di fuga (ci ricordiamo tutti come è andata, no?); la trasformazione di uno degli arrestati più celebri del g8, il ragazzo brancato in piazza Tommaseo che canta la Marsigliese mentre lo portano via in un gigante ciclopico per forza e coraggio (il tizio è alto 175 cm e non particolarmente nerboruto). Mi si risponderà che gli eventi sono frutto di fantasia e non DEVONO corrispondere al vero. Reality Fiction. Ci mancherebbe, io sono d’accordo, quando servono ad alimentare la narrazione, ma non quando sembrano solo una patina giustificatoria su qualcosa per cui si ha la coscienza un po’ sporca. La mattanza.
E’ su questo livello che il libro non mi è piaciuto molto, sul poco coraggio nel prendere posizione su alcune vicende, per scioglierle tutte nell’ineluttabilità di eventi che era deciso andassero a finire così, come se la morte di Carlo, o la perquisizione alla Diaz, o anche gli scontri potessero finire in un solo modo, predestinato da qualche Demiurgo non troppo sveglio.
"Ma intuisco che non è tutta la verità. Che in tanti hanno congiurato per quella morte di cui non conosco ancora niente. Non solo l’impreparazione dei giovani carabinieri, la follia dell’essere umano e il cinismo dei media. NOn solo la demagogia di chi ha portato in piazza centinaia di migliaia di persone in piazza senza servizio d’ordine. Non solo il destino."

Il problema che il libro solleva è che Genova non è solo una singola barricata. Chi c’è stato e chi non c’è stato non può fare finta di nulla. Deve capire che cosa significano le mille barricate che ha rapprentato, chi c’era da un lato e chi era dall’altro, e soprattutto come sono passate le persone da un lato all’altro. Ognuno sa che non è così semplice liquidare la questione con la retorica dello "scontro con gli sbirri maledetti" o con quella del "potere occulto che ha deciso che dovevamo essere uno strumento di violenza". Genova è complicata, ha vissuto di 300.000 anime e oltre, di violenza, di spettacolo, di potere, di parole, di azioni, di simboli.
"Alla fine ho capito una cosa: era in quello che eravamo, lì era nascosta l’essenza della nostra tragedia. Il settimo nucleo aveva un destino e quel destino era nel suo carattere, nel carattere degli uomini che lo componevano e lo comandavano. Era solo andata come doveva andare e in fondo lo sapevano tutti, anche noi."
Io invece non ho capito questo. Io a Genova non ero quello che ero, né quello che sono. E’ troppo comodo nascondersi dietro al fato, agitare un cinismo un po’ ostentato e confortevole, decidendo di non affrontare quello che si è fatto e come lo si è fatto. Io sono contento di aver letto questo libro, mi ha fatto pensare e ripensare a quello che ho vissuto e a come lo ho vissuto, e mi ha esposto un altro punto di vista. Ma non è il mio.
Su quelle barricate, ognuno di noi deve salirci e ci è salito. E ha scelto. Come ho già scritto in molti altri interventi, vivere significa essere partigiani, significa scegliere, significa sbagliare. Io so che quello che abbiamo fatto è stato qualcosa di grande, e non cerco giustificazioni per quanto di sciocco o sbagliato possa esservi stato. Il giorno che racconteremo noi la storia di Genova, spero di poter dire che in essa non ci sarà nessuna concessione all’ipocrisia, e che avremo cercato di affrontare la verità di quello che abbiamo conosciuto senza nasconderci dietro un dito. Avremo cercato di spiegare perché per alcuni è stata solo politica, per altri è stata vita, per altri un incidente, per altri ancora un’occasione. Avremo cercato di raccontare un punto di vista totalmente opposto a quello del celerino Gensini: che i sistemi non cadono da soli, ma cadono quando le persone decidono che è il momento di dire basta e di inventarsi qualcosa di nuovo e terribile. Anche a costo di fare molte cose sbagliate.


We have been nought, we shall be all.