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Archivio per la categoria ‘pagine e parole’

Nelle mani di nessuno: sbirritaggine e il patema del ripetersi

11 Febbraio 2009 Commenti chiusi

 

Un anno fa ho scritto una breve recensione di un libro molto interessante, pubblicato da Piemme Editore, a firma Gianni Palagonia, pseudonimo di un poliziotto che raccontava le proprie esperienze in polizia in un romanzo. E’ uscito un suo secondo volume, intitolato Nelle Mani di Nessuno. Fare un buon libro può succedere, ripetersi è molto difficile. E Palagonia non sfugge a questo paradosso.

Il primo libro era molto interessante e onesto, nonostante una certa tendenza a giustificare le forze dell’ordine senza se e senza ma. Il secondo libro di Palagonia è molto meno lucido, forse anche a causa di una fase difficile nella vita privata dell’autore – infilata nel libro con un gusto del patetico (senza offesa, eh!) un po’ ostentato. Molte delle cose che racconta rimangono interessanti, ma questa volta il senso di "orgoglio sbirresco" è molto più stucchevole, il libro è scritto in maniera meno scorrevole, e risente decisamente di più della visione unilaterale di chi l’ha firmato.

Rimane molto interessante non tanto per capire il metodo di indagine della polizia italiana, o le difficoltà che i "poveri poliziotti" incontrano, quanto per la sua presentazione senza veli e senza ipocrisie – questo bisogna riconoscerglielo – della forma mentis dello sbirro, della "sbirritaggine" come la definisce lui stesso. Il libro si può leggere in vari modi, il modo in cui lo leggo io è questo: a fianco di una denuncia chiara dello stato di prostrazione in cui versa la democrazia del Paese (su questo io e Palagonia siamo addirittura d’accordo), affiora chiara una visione del mondo in cui le forze dell’ordine dovrebbero poter avere accesso alla vita privata di tutti, incondizionatamente e senza alcun freno. Ogni legame, per quanto tenue o privo di implicazioni realmente pericolose per la società, deve poter essere sondato, scandagliato, rubato alla vita delle persone civili, sacrificato sull’altare della necessità di indagine, della volontà di potenza contro il crimine. Alcune parti dello scritto di Palagonia potrebbero ben svegliare molti benpensanti che non capiscono esattamente cosa vorrebbe dire affidare ogni aspetto della "sicurezza" del paese alle forze dell’ordine. 

Per sua natura – come dice Palagonia – lo sbirro è portato a sospettare, a cercare il losco anche dove non c’è, a insidiare la vita di chi lo circonda per "sventare il crimine". Lo sbirro che vuole fare lo sbirro è un invasato – anche giustamente se vogliamo – ma pensare che possa agire senza alcun controllo è un pensiero tanto terrorizzante quanto quello che di fronte alla criminalità vera, a quella che concretamente dobbiamo affrontare per le strade, siamo spesso soli o male accompagnati 🙂 E’ evidente che la soluzione di una plenipotenziaria polizia che mi faccia vivere in un mondo pulito pulito non mi convince, e che continuo a pensare che senza una revisione radicale del modo di vita delle persone non cambierà molto e saremo sempre qui a fregarci l’un l’altro o a guardarci le spalle per non essere fregati. 

Palagonia sintetizza in maniera molto cruda sia lo spirito sbirresco che il suo doppio, la vita delle persone nella società moderna. Ma entrambi non sono la cura di nulla, ma solo i sintomi della medesima malattia. Grave per giunta. Palagonia scrive nei primi capitoli del libro quello che ogni poliziotto cerca di mandare a memoria come massima per sopravvivere, traendolo da una bacheca sindacale interna: "L’amore e l’amicizia vanno e vengono. L’odio no. Se hai un nemico, non sei mai solo". E alla fine la vita di Palagonia raccontata nel romanzo segue questo fil rouge, mentre i suoi amori e le sue amicizie vengono ingoiate dal gorgo, lui continua imperterrito ad inseguire un nemico via l’altro.

Tutto vero. La modernità è soprattutto questo. Ma allora non si stupisca Palagonia se per molti il fanatismo di uno sbirro non è molto diverso da quello dei loro nemici. E spesso la realtà è molto più complicata di un banale feticcio come quello di un nemico liquidato il quale tutto sarà come avremmo voluto che fosse. Il contrario sarebbe più comodo e facile per tutti. Anche per me. 

PS: ci sarebbe molto da dire sul libro e se qualcuno ha voglia di ragionarne nei commenti è il benvenuto. Oggi mi sembra di aver scritto solo una parte delle cose su cui avrei voglia di ragionare, e di averlo fatto in maniera imprecisa e incompleta. Prendete il tutto con beneficio di inventario 🙂

ACAB

3 Febbraio 2009 6 commenti

 

ACAB è un libro crudo. ACAB è un libro utile. Sfrondato di qualche parapiglia autogiustificatorio è una finestra aperta senza timore sul mondo degli sbirri. E non aperta da qualcuno che crede di sapere come stanno le cose tra tutori dell’ordine, ma dai poliziotti stessi. I protagonisti sono noti: Michelangelo Fournier, vice comandante del VII nucleo antisommossa a Genova (quelli della Diaz per capirsi) e due comandanti di squadra dello stesso nucleo che non rivelano il loro nome ma usano i loro nomignoli: lo Sciatto e Drago. Più una serie di comprimari tra poliziotti e protagonisti della Roma più nera, nel senso politico del termine. La domanda da cui parte il libro, o forse da cui partono i protagonisti, è la stessa che molti di noi si stanno ponendo da tempo: la ferocia del presente, del mondo in cui viviamo, del Paese che ci circonda, da dove arriva? E soprattutto dove finisce? Cosa succede?
Ovviamente i protagonisti del libro danno una risposta tutta loro, plausibile per la loro formazione e che conferma quello che molti di noi sanno e pensano delle forze dell’ordine, ma che le persone che non setacciano al di là del loro naso spesso scelgono di ignorare: è colpa dell’assenza di una borghesia all’altezza in Italia, è colpa della scarsa formazione liberale, è colpa della ferocia stessa e dell’incapacità di superarla, è colpa di una sinistra che non sa fare altro che giocare di rimessa e piagnuccolare (senza alcun progetto alternativo di società, aggiungerei io).
Altrettanto banalmente la risposta che danno i poliziotti evidenzia anche la nostalgia per l’autorità, per una diseguaglianza che però mette ognuno al posto loro, e manifesta un disagio che se non fossero poliziotti non esiteremmo a definire esistenziale e sociopatologico. ACAB ci fa scoprire che i poliziotti sono dei disadattati, nella maggior parte dei casi, come noi attivisti, peraltro. La grossa differenza è che noi lo sappiamo – nei casi in cui l’intelligenza non ci ha abbandonato – e sappiamo che però il nostro disadattamento è indice dell’immaginazione di qualcosa di diverso da quello che ci circonda. Mentre per gli "sbirri" è un tratto che non viene rilevato, per il quale non c’è posto nella percezione di se stessi, e che quindi snobbato e negletto si trasforma in frustrazione, in origine del mito della banda, della Famiglia.
ACAB ci mostra un lato della ferocia che spesso le persone si rifiutano di vedere, anche quando è sotto il loro naso. Ci mostra un lato della devianza che spesso rimane nascosto dalle infinite giustificazioni di cui gode chi indossa una divisa solo per il fatto di indossarla. Ma è un libro onesto, lucido, che non si nasconde. E’ un libro che merita di essere pubblicato e letto, e per il quale ringrazio non solo Carlo Bonini, ma anche i poliziotti che hanno deciso di parteciparvi, anche se sono certo l’abbiano fatto per motivi molto diversi da quelli per cui io lo apprezzo. Per loro è stata una specie di sessione di analisi, per me l’occasione di dare in mano a qualcuno un oggetto che gli/le faccia attraversare un specchio. Quello della semplificazione con cui si osserva il mondo che ci circonda e i suoi "paladini". Voto: 8

 

Il Vangelo secondo Biff

31 Gennaio 2009 2 commenti

 

La Elliot Edizioni – una piccola casa editrice che ha aperto i battenti nel 2007 ma che sto apprezzando moltissimo sia per le scelte editoriali che per la qualità del loro prodotto – pubblica un altro libro di Christopher Moore, dopo Un Lavoro Sporco. L’autore si conferma una penna molto arguta, di un sarcasmo leggero ma precisissimo, e leggere i suoi libri è un’esperienza rinfrescante. Non mi vengono altri termini. La casa editrice romana potrebbe aver trovato in lui e nelle serie di Nemi e di Lenore due ottimi viatici per la sopravvivenza, e nel caso del simpatico autore statunitense anche un bel colpo editoriale, un po’ come Fforde per la Marcos y Marcos. Moore infatti non è un autore alle prime armi, ma in Italia nessuno ha pensato prima di tradurlo, un errore che la Elliot potrà sfruttare a dovere.
Il libro è piacevole, e nonostante la lunghezza (quasi 600 pagine) scorre via velocissimo, mentre la nostra mente occidentale scruta negli eventi per ritrovare quanto ricorda dei vangeli e del catechismo. Inutile sforzarsi perché le corrispondenze sono poche – per fortuna – e solo accennate. Il punto del libro è ritrovare un po’ di umorismo anche in ciò che di questi tempi  pare fin troppo importante: la religione e i dogmi. Il Gesù di Moore è umano, antidogmatico e concentrato in una sola direzione: rendere l’umanità migliore. Se anche i fedeli delle tante religioni nel mondo si orientassero in questa direzione e avessero lo stesso humour di Moore, forse una buona parte delle guerre e dei disastri che vediamo in giro non esisterebbero. O almeno non avrebbero la scua della religione come paravento per l’avidità e la cupidigia che di solito ne sono il motore principale. Voto: 7,5.

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Y e Q

27 Gennaio 2009 Commenti chiusi

 

 Dopo anni di corteggiamento finalmente ho trovato il tempo e la voglia di prendere in mano un libro di un autore che i miei amici Wu Ming raccomandano a ogni pié sospinto: Serge Quadruppani, grande traduttore di noir dall’italiano al francese, non ricambiato dal Bel Paese nell’impegno per diffondere la propria letteratura da questo lato delle Alpi. Devo dire che mi aspettavo di più: la trama non mi ha avvinto manco un secondo e gli stratagemmi per far tornare i conti mi sono sembrati molto al di sotto dell’interessante (anche ammettendo la volontà di non sforare dai classici del noir). Quello che mi ha stupito è il lirismo di molte descrizioni, di molti paragrafi che forse la letteratura di genere non sopporta benissimo. La sensazione che mi rimane è che Quadruppani debba cimentarsi con una letteratura con un tratto più profondo e al tempo stesso sottile di quella che gli piace: è uno sforzo, ma sono convinto, per quello che ho letto in questo Y, che ne caverebbe maggiori risultati. In ogni caso una lettura la vale, senza troppe lodi, però. Per una volta io e R.B. siamo in disaccordo. Sopravviveremo entrambi penso. Voto: 6-

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Borromeo Underground

15 Dicembre 2008 Commenti chiusi

 

In una settimana secondo libro della Eclissi Editrice, piccola casa editrice milanese che si sta conquistando un certo spazio sugli scaffali grazie alla sua caparbietà e semplice simpatia. Devo ammettere che la qualità del "prodotto libro" potrebbe essere migliore, ma c’è spazio e fiducia per migliorare (le stampe sono un po’ così, l’impaginazione lascia a desiderare e le copertine sono molto lineari e poco accattivanti; e ho beccato un paio di errori di ortografia che qualunque correttore di bozze dovrebbe sgamare prima di me!!). Borromeo Underground è sicuramente un bel giallo submetropolitano, con un ottimo ritmo e una trama avvincente: ricorda un poco il nostro Monocromatica nella scelta di esplorare i misteri e la storia di una città (Pavia) per costruirci sopra una narrazione. Diversamente da noi il paesaggio urbano o suburbano pavese non è protagonista, mentre la fa da padrone la trama. Ernesto Lunati sceglie con chiarezza su cosa puntare e porta a casa il risultato, mentre per noi mi è rimasta l’impressione che avendo cercato di salvare capra e cavoli siamo rimasti a metà del guado con entrambi. In ogni caso il libro scorre alla grande e mi sono molto divertito a leggerlo: spero in futuro di avere occasione di conoscere l’autore perché mi sembra un personaggio affine alle nostre strade. L’unica critica vera che mi sento di muovere è che il libro non aggredisce abbastanza istanze sociali ma si confina alle dinamiche relazionali tra esseri umani di giovane età, e dal punto di vista stilistico ho trovato i dialoghi un po’ freddi e troppo composti: si vede che sono stati scritti per un libro e non sono abbastanza vivi. Anche qui sono l’ultimo che può criticare senza mettersi in mezzo, dato che i miei dialoghi di solito sono realistici come un fiore sulla luna. Però anche se non sono capace di farne di buoni io, non significa che non mi accorga quando non funzionano quelli degli altri. In conclusione consiglio a tutti una lettura per un paio di sere di piacevole rincorsa ai misteri borromaici nei dintorni di Pavia. Al prossimo libro.

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Bravo Brandelli

13 Dicembre 2008 Commenti chiusi

 

Bravo Brandelli è il secondo libro del buon Andrea Ferrari con il quale nelle volte in cui ci siamo incrociati penso di aver sviluppato un rapporto piuttosto amichevole. So quindi che non se la prenderà per le critiche perché sono fatte senza cattiveria. Come al solito comincio da queste per poi arrivare agli aspetti interessanti del libro: il testo è scritto peggio del primo, più confuso, meno limpido e un po’ arrotolato su sé stesso. Non so se è demerito di scarso editing o testardaggine di Andrea nel ritenere alcune forme di costruzione della frase una sua licenza poetica (io in Monocromatica mi sono infittito su alcune frasi senza veramente avere ragione nel merito 🙂 La storia inoltre è abbastanza priva di ritmo, anche rispetto allo stile Brandelliano che vede trame semplici per lasciare il tempo al personaggio di sragionare. D’altronde – e qui veniamo agli aspetti che mi sono piaciuti del libro – la storia, come in Monocromatica – conta relativamente poco, dato che la protagonista è Milano, molto più che nel primo libro. Anzi, per la precisione il  protagonista vero del libro è il cambiamento che Milano sta subendo, l’accelerazione in direzione della ferocia che lo spazio urbano in cui sia io che Ferrari abbiamo vissuto sta vivendo. Milano non è mai stata nota per la sua accoglienza o la sua calorosità, ma da buoni milanesi sia io che Andrea nutriamo una sincera fascinazione per la metropoli, e io non sono mai riuscito a immaginarmi a vivere altrove. Milano ha sempre avuto una sua dimensione romantica e tanghera – direbbe il mio socio – anche se alquanto nascosta e difficoltosa da reperire. Per goderti Milano devi prima capirla, cosa tutt’altro che facile. Il punto è che questo è stato vero fino a qualche anno fa. Da qualche annetto Milano si è inferocita, imbarbarita, e le sue genti l’hanno seguita di buon grado rendendosi più indifferenti alla crudeltà che li ha investiti, indurendo i propri corpi e le proprie anime alle grida di dolore e alle sensazioni di inadeguatezza. Milano si è raffreddatta, si è fatta silenziosa e immota, più lurida, più cupa. E’ stato un processo molto più rapido di quanto si pensi, e il libro di Ferrari racconta della nostra difficoltà nel comprendere che cosa sia successo alla città che amiamo – o forse abbiamo amato – e che cosa succeda a noi che continuiamo a viverci cercando di ritrovarvi quello che probabilmente non c’è più. Per questo il libro tutto sommato mi è piaciuto: perché anche se con uno stile che segna un passo indietro rispetto alla sua opera prima, il cuore del romanzo siamo noi, milanesi innamorati di una città che non c’è più, di gente che non attraversa più le nostre strade, persa per sempre nel delirio securitario, nella paura e nell’abiura di sé (cit. Caparezza). Anche il libro che ho scritto e stracciato, il continuo di Monocromatica parlava di questo, ma io non ho avuto ancora il coraggio di fregarmene della forma per colpire al cuore la sostanza di un problema. Il passetto successivo è quello di immaginarsi una soluzione, ma sono certo che neanche Brandelli sa da che parte cominciare. Tantomeno io. Almeno per ora.

PS: adesso sono alle prese con un altro libro della editrice Eclissi, piccola e milanese, ma che finora si è ritagliata un buono spazio sugli scaffali delle librerie, nonostante la qualità altalenante dei libri (alcuni divertenti e ben scritti, altri interessanti e altri ancora un po’ buttati lì, ovviamente secondo la mia immodestissima opinione). In ogni caso vi farò sapere anche com’è Borromeo Underground

PPS: non è che in sti mesi non ho letto un cazzo, eh! Solo non ho mai tempo di scrivere delle recensioni, ma ad Andrea almeno questo era un atto dovuto. Se ho tempo la prossima recensione è Anathema, l’ultimo romanzo di Neal Stephenson – che i suoi capolavori li ha già scritti, ma rimane un grande autore 🙂

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Breaking News: Inherent Vice in agosto 2009

12 Dicembre 2008 2 commenti

 

Una breve notizia esplosiva che ho scoperto solo ora (sono proprio un fan da strapazzo dato che si è saputo nell’ottobre 2008). Il 4 agosto 2009 uscirà il nuovo romanzo di Thomas Pynchon, Inherent Vice, un noir pynchoniano di 400 e rotte pagine. Godo come un riccio e adesso entro in trance in attesa del grande evento. Olé!

PS: questa news è solo per smentire i maligni che mi scassano le palle perché ho tempo solo di scrivere i miei post esorcizza-adrenalina dopo le partite dell’Inter. 

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L’attesa

20 Novembre 2008 3 commenti

 

Rigiro dal mio socio, dato che è tutta farina del suo esimio sacco. A
volte è meglio romanzarci su. Un racconto Blackswift,
liberamente ispirato alla sentenza Diaz. Anche qui, sul sito noswift.org

La
cosa peggiore che può capitare ad un uomo che trascorre molto
tempo da solo, è quella di non avere immaginazione. La vita,
già di per sé noiosa e ripetitiva, diventa in mancanza
di fantasia uno spettacolo mortale.

X.Y.Blackswift,
L’Attesa (o anche Davide e Golia)

Per
descrivere certe passioni, bisogna muoversi nel confine incerto, se
mai esiste, tra personale e politico. Perché alla fine la
certezza è di ritrovarsi di fronte a una sentenza che chiude
molto più di un processo. Che apre nuove scatole, con dentro
altre scatole e altre scatole ancora. E in ognuna di esse c’è
una storia da scrivere. E ci sarà da cambiarle ancora, le
storie, immaginandone diverse. La realtà non è di questo mondo.

Alla
nostra verità di parte sulla Diaz e sul g8.

Un
anno e più non è uno scherzo, può renderti
diverso,
un anno è la fotografia, di te stesso che vai via.

Ha
i suoi motivi la paura, dovrei saperlo già da un po’.

Il
posto ha un nome che quei tre hanno provato a farsi spiegare. O forse
erano altri, in altre composizioni: altri volti, parole, passato.
Storie mai incrociate, parole sospese in un tempo freddo, con il
calore proveniente solo da una piccola stufa. Odore di legna e di
foglie morte. La loro compagnia è una novità della
serata: un incontro in un posto, uno spostamento, poco dopo, in un
altro. Si erano già ritrovati vicini, senza saperlo. Si erano
già ritrovati a osservarsi, senza capirsi. Ognuno dei tre
pensa, cataloga, mette in fila, tesse trame, cerca sensi. Ognuno,
bisogna precisarlo, riferisce solo a se stesso, perché pare
sia finita da tempo la fase del gioco di squadra.

Il
posto ha un nome. Il nome può voler dire: casino. O
anche: il posto giusto. Anche per aspettare, pensa il primo
uomo
seduto. Sta comodo su un divano avvolto da una coperta
rossa: è duro e leggero, come i pensieri e un nome su una
lista, una riga da tirare, un piacere da togliersi. Lui, pensa, è
l’altro: quello fregato. Quello, a breve, braccato.

Il
secondo uomo non capisce niente delle canzoni: due tipi
cantano accompagnati da fisarmonica e chitarra. E’ un suono caldo e
scuro, rude e bugiardo. Il secondo uomo sta pensando alla
differenza che può esistere tra alcuni concetti espressi a
parole. In alcuni casi, per esempio, si dice confusione. In
altri, paura. In alti ancora, percorsi molto più
banali: una presa in giro, forse. La sua attesa, in ogni caso,
sta per finire.

Il
primo uomo ha ordinato un liquore composto da vari liquori.
Pare sia forte. L’ha scelto non perché debba abbandonarsi a
pensieri contraddittori. Ha voglia di dolcezza e gli piace il colore
rosso scuro che prende il bicchiere. Con acqua calda a creare un
torpore che svanisce in fretta. Fa freddo. Tira fuori il cellulare: è
l’ora. Magari la tipa può dargli una dritta. Succedono
cose strane, in Italia e quella ragazza sembra saperne alcune parti
fondamentali. Gli aveva parlato di percorsi, strade, riti.
Confusione.

Il
secondo uomo è meno preoccupato. In generale, non che
non abbia pensieri. E’ che improvvisamente le cose succedono.
E si perde il sonno a pensare a quando sono cominciate. E’
pur vero che a tornare indietro si capisce meglio il presente. Guarda
il primo uomo: lui si che è preoccupato. Eppure quella
frase l’ha sentita dire proprio da lui. E ha capito di essere nel
posto giusto. Quando il passato si può cambiare, la gloria è
vicina anche agli sprovvisti del fato.

La
donna
beve e canta. Capisce alcune parole della canzone, non
tutte. Ha un bel grattacapo cui pensare. Vive nel riflesso
dell’attesa del primo uomo. Vorrebbe raccontargli altre
attese, vorrebbe spiegarsi. Non lo ha mai fatto. Lo scarto d’età,
d’altronde, con il tempo si complica. Ora lo ha visto: ha commesso il
primo errore. Quella ragazza, lei sa, non potrà chiarirgli
nulla. E’ già tutto piuttosto evidente invece, pensa. Proprio
per quel pensiero, come avesse capito che tutto è abbastanza,
lei ha deciso che lascerà perdere. Quella ragazza, dall’altra
parte, farà di tutto: per non aiutarlo. Lei, la donna, invece:
avrebbe potuto fare qualcosa. Quando gli uomini commettono certi
errori, perdono in un istante tutto. Sono sempre errori fatali.

Il
secondo uomo non sta capendo. Si era fermato a pensare a
quello stato in cui hai la percezione della sofferenza. Non ci poteva
mica fare niente. Il primo uomo gli avrebbe detto una cosa
chiara e tonda, se avesse potuto leggergli nel pensiero: pensi
solo a te
, gli avrebbe detto. Da che pulpito, avrebbe immaginato
il secondo uomo. Quelli come il primo uomo, lui, li
conosceva bene. Ne aveva visto un sacco nella sua vita. Delusi,
frustrati e pronti a giudicare. Scacciò il pensiero e guardò
lei, che guardava lui. Questa cosa, pensa, non deve
succedere. Non stasera.

Il
primo uomo sospira. Si era accorto di avere tenuto per lunghi
istanti lo sguardo fisso. Gli capitava spesso ultimamente. E non
ricordava cosa pensava in quegli attimi. Forse quella donna avrebbe
potuto aiutarlo, o dargli qualche indizio da seguire. Parole, parole,
da buttare.
Si chiedeva questo, in fondo: c’è un’altra
soluzione oltre a quella soluzione? Allora si è messo
a guardarla. E lei guarda lui.

La
donna sa già come andrà a finire: quello che
stasera è un pensiero, domani sarà una pulsione. La
delusione non ammorbidisce, ne è sempre stata certa. Era
uscita scorticata viva e si era riguadagnata la pelle abbandonando la
ragione. Non c’è ragione né mai ci sarà. C’è
la necessità di ricostruirsi la pelle. Per questo gli ha
portato il secondo uomo. Gli ha voluto regalare una cosa. Un
tempo era stata nella sua stessa situazione. Ma un tempo la storia si
raccontava. Ora neanche si sa di viverla. Uomini.

Il
primo uomo guarda davanti a sé e osserva la donna.
Accenna un sorriso. Poi guarda il secondo uomo. Cerca di
ricordare quando lo ha conosciuto, senza sapere neanche il perché.
Il secondo uomo ai suoi occhi sembra irrequieto, ma
determinato, come si stesse concludendo qualcosa. Un lavoro, un
problema, una missione.

Il
secondo uomo si chiede che cazzo ha da guardare il primo
uomo
. E ripensa alla sua storia: ricercatore della prima
università che gli era venuta in mente. Venezia: mai stato.
Aveva anche studiato tre mesi per arrivare preparato. In fondo
l’idea non era stata male. Gli piacevano i diversivi. In
alcuni casi si dice: colpi di fortuna.

Il
primo uomo pensa di essere pronto. Sa già come finirà.
Dal cellulare nessun segnale e non è una novità.
Disadattato. Confondere le cose non è da lui, ma c’è
rimasto in mezzo, come si suol dire. Incastrato, senza sapere
bene perché. Sente l’atmosfera delle grandi decisioni: se sarà
come immagina, dovrà fermare la sua rincorsa. Per un po’ di
tempo, almeno. Avrebbe bisogno di: qualcuno che gli spiegasse le
cose, in un altro modo.

Il
secondo uomo comincia a battere il tempo col piede, a terra.
La chitarra si è fatta rapida e spinge verso accordi
tambureggianti. La fisarmonica si muove scattante, a cercare suoni
improvvisi, da adattare alla nuova velocità del ritmo. Lui
guarda il primo uomo e pensa che è il momento di uscire
a fare una pisciata. E una telefonata.

La
donna
vede il movimento del secondo uomo e si scosta, per
farlo passare, senza neanche guardarlo in faccia. Quello che ci
voleva, pensa. Rimanere soli, un attimo. Qualche istante per
accorciare le distanze e provare a ricacciare indietro il pensiero.
Da quanto non ci pensa, si ripete. Da quanto non ne parlo, sussurra.
Il secondo uomo è ormai verso la porta, la donna si
avvicina al tavolo e guarda il primo uomo davanti a sé.
E come ogni volta che una persona ha voglia di spiegarsi, comincia il
discorso con una domanda. Ascoltare, per parlare: non tutti lo
capiscono.

Il
primo uomo inizia, senza sosta: è che la gente non sa,
dietro quale dolore si nasconde una notte, esordisce. E non si
possono sapere i peripli che una vita prende, cercando di mantenere
intatto un modo di essere. Finché ti accorgi di essere
cambiato, perché hanno voluto cambiarti, forse. E sai che
andrai incontro solo a oblio e delusioni, incomprensioni, solitudini,
mestizia, rabbia, pazzia. Ma in fondo, mi chiedo, aggiunge: è
una via di fuga, o un’ulteriore accettazione delle cose? Si ferma e
riprende a parlare: leggo di giudizi: e ora qualcuno si rimetterà
a fare questo e quello, a seguire strategie suicide, quando invece è
meglio lasciare perdere. E’ questo che non so fare, aggiunge l’uomo,
lasciare perdere. La vita, ribadisce, forse è solo
questo: verificare i propri limiti, scegliendo. E più
scegli e più sei insofferente. E più sei
insofferente, più ti accorgi di esserlo. E guai se avessi
un coltello
, termina, per tagliare.

La
donna
osserva le mani, le braccia, i movimenti del primo uomo.
La vita è un calcolo razionale dei limiti, quando li
consideriamo irrazionali. E lei lo ha messo di fronte alla
possibilità di capirne uno, tutto suo. Tra qualche ora, pensa,
il primo uomo saprà di diventare un braccato. Può
eliminare fin da subito un nemico: il secondo uomo. La donna
si chiede se ne avrà la forza, la disperazione. E si augura di
no. Ma sa bene che in quella notte, per lei, non ci sarà
dolcezza. Non darà niente a un corpo alla ricerca di una meta
irrealizzabile. Ha già dato ascoltando. Ora tocca solo a lui.

Il
secondo uomo ora ha un problema: la telefonata è stata
chiara: cancellare. Eliminare. Togliere di mezzo. Levare dal cazzo,
annientare, spaccare tutto. La ragazza con cui ha parlato era stata
chiara: il primo uomo mi ha cercata. Ha capito. Vuole sapere.
Quindi, aveva risposto il secondo uomo? Quindi, aveva risposto quella
ragazza, cancellare, please. Il problema a quel punto era la
donna
. Tra quei due qualcosa doveva essere successo. Forse
proprio la notte in cui lui si era addormentato e non aveva seguito
quei due per le viuzze. Ogni tanto li vedeva prendersi la mano, nelle
notti passate. E quella notte, ne era certo, la dolcezza doveva
vincere per quei due. Due idee, mica due persone. La notizia
che stava per arrivare avrebbe sviluppato traiettorie strane, rapide
e desiderose di calore. Si toccò sotto la spalla destra. Era
lì, calda, pulsante, attiva, pronta. Il secondo uomo
entra nel bar e li vede. Stanno parlando. Se è come pensa, ha
un fottuto problema.

La
donna
osserva l’entrata: intravede il secondo uomo farsi
avanti. Guarda il primo uomo e gli dice, semplicemente: quello
è un tuo nemico. Il primo uomo la guarda. E’
bianco, spettrale, non ha più le parole pronte. Nessuna
citazione, frase, ricordo, frammento. Sorseggia la bevanda e capisce:
non si scherza mica più. Le chiede in che senso stia parlando.
E lei rapida, gli sussurra un nome. Un ricordo della memoria, lontano
per interi giorni e riaffiorato solo in quegli istanti che
precedevano la notizia tanto attesa e già sospettata. La
donna
decide che sarebbe andata via, subito.

Il
primo uomo osserva la donna e poi il secondo uomo. Sta per
entrare. Ha il passo deciso, si tocca sotto l’ascella e il primo
uomo
capisce. Attorno a loro ci sono tre persone, non di più.
Il primo uomo pensa, rapido: al tribunale, alle sue uscite,
agli strani incontri, ai personaggi che si muovono in silenzio, senza
riflettori. Uomini che agiscono, cambiano, motivano e determinano.
Uomini che fanno la storia. Uomini come il secondo uomo.

Il
secondo uomo entra e fa in tempo a vedere la donna che
si alza e se ne va, senza salutare nessuno. Guarda fissa davanti a
sé: ha gli occhi sbarrati. Il secondo uomo si mette di
fronte al tavolo. Il primo uomo lo guarda. Si osservano ed è
fin troppo chiaro: hanno capito tutto. Potrebbe fare un bel casino,
ma decide di sorridere, il secondo uomo. La situazione si
mette bene, pensa.

Il primo uomo ha già capito: non c’è
uscita. Loro sono dappertutto. E’ una guerra.

Non
l’hanno mica ancora capito, pensa il secondo uomo, mentre si
siede, sorridendo.

La
donna
cammina, appoggiando i piedi a terra con un ritmo tutto
suo. Ha visto, ha pensato, ha sognato: le catenelle, i sospiri, i
sorrisi, i pianti, le botte, la violenza, il male. E a breve
tutto diventerà storia: dimenticata, mai raccontata. Finirà
nel buco nero della vulgata comune. Diventerà un’altra cosa,
un’altra storia.

Cinacittà

23 Ottobre 2008 Commenti chiusi

 

Ci ho pensato un po’, prima di affrontare un minimo questa recensione. Tommaso Pincio è un ottimo autore italiano, in crescita libro dopo libro, ci sentiamo ogni tanto via mail e quando accade mi sembra di conoscerlo bene. Poi ha scelto un nome che me lo ha reso simpatico subito, come chi mi conosce in quanto a gusti letterari potrà ben immaginare. Mi è spiaciuto non sapere della presentazione del suo libro ieri, anche se non avrei potuto parteciparvi, dato che era una giornata infernale. 

Quando ho scoperto che era uscito Cinacittà sono rimasto colpito: un altro meme che si è diffuso non si sa bene come nell’aria. Proprio mentre io e il mio socio ragioniamo sulla stesura di un’ucronia a base di espansionismo cinese, qualcun altro usa il medesimo setting per sviluppare la sua storia. Anche lui, come noi, usa il contesto dell’ucronia per parlare di altro, della sua città e dello stato delle cose nel luogo in cui vive o a cui sente di appartenere. Anche lui, come noi, non è proprio ottimista 🙂

Cinacittà parla del tracollo culturale, umano e "morale" (non so se apprezzerebbe questo termine Tommaso e anche io non lo amo molto)  dell’Italia di oggi, della Roma di oggi, o delle città di oggi. Parla di nuovi barbari che vengono a spazzare via non un Impero imponente e ammirato, ma un Paese piccolo piccolo già di suo, ingombro di ipocrisie e di scarsa immaginazione. E forse per questo i nuovi barbari non sono possenti e brutali, ma crudeli e minuti, sottili e volgari. Alla fine ho deciso per questa chiave di interpretazione, perché stimo troppo Tommaso per pensare che il suo lungo vivere in Piazza Vittorio, china town romana ormai irreversibile, lo abbia reso un po’ razzista. La troppa vicinanza con qualsiasi gruppo omogeneo (etnico, culturale, religioso, politico) genera in ogni persona intelligente un po’ di insofferenza verso i limiti del gruppo stesso, i nei si vedono a una distanza troppo ravvicinata per poterli inquadrare in una qualsiasi prospettiva, ma penso che Pincio abbia sfruttato questa sensazione per dipingere le tinte fosche del crepaccio in cui gli italioti si sono infilati (compresi noi) e da cui difficilmente usciranno. I barbari sono qui, e ci faranno male, anche se in maniera diversa da quanto hanno fatto in passato, un po’ come se al posto di un’alabarda di ghisa usassero una lama monomolecolare di gibsoniana memoria. 

Cinacittà è scritto molto bene, come mi ha detto lui stesso rappresenta un passetto nella direzione di quella scrittura dickiana che lui – come me – ama molto. Devo dire che all’epoca de "La Ragazza che non era lei" non mi era piaciuto molto il passaggio stilistico, mentre in questo libro lo apprezzo molto di più (e forse riesco a mettere in prospettiva anche il suo secondo libro). Non ho molto tempo e quindi mi fermerò qui, consigliando vivamente a tutti il libro, che necessita però di una lettura intelligente e attenta, per essere gustato appieno. A prima vista è un libro rischioso, ma di questi tempi se non proviamo a scuotere un pochino chi ci sta intorno difficilmente vedremo accadere qualcosa. 

 

Il resto della notte

27 Agosto 2008 5 commenti

Ieri io e blanca siamo andati a vedere uno dei film che non avevamo visto durante la rassegna milanese su Cannes, Il Resto della Notte, di Francesco Munzi. Il nostro amico Claudio l’ha molto apprezzato e viste le ultime inattese convergenze con i suoi gusti ci avevo quasi creduto anche io: purtroppo sono stato smentito. Il film è ben fatto, ma in sostanza lo trovo una reality fiction di destra, con appena appena una verve debole antirazzista almeno nella prima parte, un inno alla resa nei confronti della paura e della ferocia. 

Vedere il film, come leggere l’ultimo fumetto del maestro Miguel Angel Martin, mi ha fatto pensare alle nostre ultime fatiche blackswiftiane. Io e il mio socio abbiamo in canna pronti alla prima stesura due lavori: il suo Shanghai Karma, già ottimo e per quanto mi riguarda solo in attesa di un editore oppure della nostra decisione di pubblicarlo online e sticazzi, inquadrato su temi molto interessanti e su un setting che offre ampi spazi per discussioni e ragionamenti (ovviamente 中国); il mio Concrete, il seguito ideale di Monocromatica, il cui tema centrale è la ferocia (come nel film e nel fumetto), ma che alla stesura attuale è assolutamente inadeguato e monco, nonché poco convincente. Oltre a tutto questo abbiamo in mente almeno tre altri lavori che devono essere affrontati nei prossimi mesi, sempre che ce la facciamo. 

I problemi principali per ora sono di varia natura: da un lato c’è una scelta editoriale da fare, ovvero visto che la Colorado Noir che ci aveva offerto spazio è temporaneamente (ma mi sa mica tanto) ferma, se vogliamo cercare altri editori cartacei e quali? Fare una autoproduzione? Cercare spazio in una piccola casa? Tentare la strada della stampa digitale e basta? Ovviamente ci piacerebbe una soluzione mista che collegasse una pubblicazione e soprattutto una decente distribuzione con un percorso online di approfondimento: il modello Manituana non può essere ignorato come sforzo e come prospettiva, anche se Wu Ming prendono il loro lavoro di scrittori più seriamente di noi (e ne hanno ben donde! 🙂 

Sul tavolo poi ci sono altri temi: come autori dobbiamo crescere, dobbiamo capire se riusciamo a lavorare seriamente e razionalmente su un testo, diversamente dall’impulsività con cui abbiamo affrontato tutto il progetto finora, altrimenti destinato a rimanere in un forse colpevole ma comprensibile semidilettantismo. Non vuol dire prendersi sul serio, che quello è più un errore per noi che una risorsa, ma vuol dire metterci un serio impegno. Non so se la differenza è palpabile. 

Ma tornando al film quello che mi ha indotto a pensare è che se da un lato il tema che a più riprese affrontiamo è centrale – quello della crudeltà e della ferocia, della sua pervasività e delle vie d’uscita – dall’altro il suo sviluppo è rischioso, la reality fiction tocca il cuore dell’interpretazione della realtà che ci circonda ed è un attimo scivolare in direzioni che non mi interessano e che non mi rappresentano. Il fumetto del maestro per esempio pende troppo verso un forse un po’ speranzoso movimentismo che io non riesco più a valutare come una opzione credibile, mentre il film scivola quasi istantaneamente in un facile conformismo un po’ qualunquista, in cui la soluzione è arrendersi al gioco delle parti. Incitare la gente ad ammazzarsi non è veramente una cosa di cui c’è bisogno, ci pensa già da sola, mi pare. Poi forse ho male interpretato io, ma forse anche Munzi non è mica riuscito a scrollare questo scivolone dalla pellicola. 

Questi sono un po’ di pensieri in libertà, che spero potranno sollecitare anche un po’ di discussione anche qui sul blog, mentre aspetto che il socio rientri in Italia e che troviamo il tempo per vederci e pianificare seriamente un po’ di ragionamenti e un po’ di prospettive. Tanto per non lasciarvi in balia dei nerazzurri… 🙂

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