Rigiro dal mio socio, dato che è tutta farina del suo esimio sacco. A
volte è meglio romanzarci su. Un racconto Blackswift,
liberamente ispirato alla sentenza Diaz. Anche qui, sul sito noswift.org
La
cosa peggiore che può capitare ad un uomo che trascorre molto
tempo da solo, è quella di non avere immaginazione. La vita,
già di per sé noiosa e ripetitiva, diventa in mancanza
di fantasia uno spettacolo mortale.
X.Y.Blackswift,
L’Attesa (o anche Davide e Golia)
Per
descrivere certe passioni, bisogna muoversi nel confine incerto, se
mai esiste, tra personale e politico. Perché alla fine la
certezza è di ritrovarsi di fronte a una sentenza che chiude
molto più di un processo. Che apre nuove scatole, con dentro
altre scatole e altre scatole ancora. E in ognuna di esse c’è
una storia da scrivere. E ci sarà da cambiarle ancora, le
storie, immaginandone diverse. La realtà non è di questo mondo.
Alla
nostra verità di parte sulla Diaz e sul g8.
Un
anno e più non è uno scherzo, può renderti
diverso,
un anno è la fotografia, di te stesso che vai via.
Ha
i suoi motivi la paura, dovrei saperlo già da un po’.
Il
posto ha un nome che quei tre hanno provato a farsi spiegare. O forse
erano altri, in altre composizioni: altri volti, parole, passato.
Storie mai incrociate, parole sospese in un tempo freddo, con il
calore proveniente solo da una piccola stufa. Odore di legna e di
foglie morte. La loro compagnia è una novità della
serata: un incontro in un posto, uno spostamento, poco dopo, in un
altro. Si erano già ritrovati vicini, senza saperlo. Si erano
già ritrovati a osservarsi, senza capirsi. Ognuno dei tre
pensa, cataloga, mette in fila, tesse trame, cerca sensi. Ognuno,
bisogna precisarlo, riferisce solo a se stesso, perché pare
sia finita da tempo la fase del gioco di squadra.
Il
posto ha un nome. Il nome può voler dire: casino. O
anche: il posto giusto. Anche per aspettare, pensa il primo
uomo seduto. Sta comodo su un divano avvolto da una coperta
rossa: è duro e leggero, come i pensieri e un nome su una
lista, una riga da tirare, un piacere da togliersi. Lui, pensa, è
l’altro: quello fregato. Quello, a breve, braccato.
Il
secondo uomo non capisce niente delle canzoni: due tipi
cantano accompagnati da fisarmonica e chitarra. E’ un suono caldo e
scuro, rude e bugiardo. Il secondo uomo sta pensando alla
differenza che può esistere tra alcuni concetti espressi a
parole. In alcuni casi, per esempio, si dice confusione. In
altri, paura. In alti ancora, percorsi molto più
banali: una presa in giro, forse. La sua attesa, in ogni caso,
sta per finire.
Il
primo uomo ha ordinato un liquore composto da vari liquori.
Pare sia forte. L’ha scelto non perché debba abbandonarsi a
pensieri contraddittori. Ha voglia di dolcezza e gli piace il colore
rosso scuro che prende il bicchiere. Con acqua calda a creare un
torpore che svanisce in fretta. Fa freddo. Tira fuori il cellulare: è
l’ora. Magari la tipa può dargli una dritta. Succedono
cose strane, in Italia e quella ragazza sembra saperne alcune parti
fondamentali. Gli aveva parlato di percorsi, strade, riti.
Confusione.
Il
secondo uomo è meno preoccupato. In generale, non che
non abbia pensieri. E’ che improvvisamente le cose succedono.
E si perde il sonno a pensare a quando sono cominciate. E’
pur vero che a tornare indietro si capisce meglio il presente. Guarda
il primo uomo: lui si che è preoccupato. Eppure quella
frase l’ha sentita dire proprio da lui. E ha capito di essere nel
posto giusto. Quando il passato si può cambiare, la gloria è
vicina anche agli sprovvisti del fato.
La
donna beve e canta. Capisce alcune parole della canzone, non
tutte. Ha un bel grattacapo cui pensare. Vive nel riflesso
dell’attesa del primo uomo. Vorrebbe raccontargli altre
attese, vorrebbe spiegarsi. Non lo ha mai fatto. Lo scarto d’età,
d’altronde, con il tempo si complica. Ora lo ha visto: ha commesso il
primo errore. Quella ragazza, lei sa, non potrà chiarirgli
nulla. E’ già tutto piuttosto evidente invece, pensa. Proprio
per quel pensiero, come avesse capito che tutto è abbastanza,
lei ha deciso che lascerà perdere. Quella ragazza, dall’altra
parte, farà di tutto: per non aiutarlo. Lei, la donna, invece:
avrebbe potuto fare qualcosa. Quando gli uomini commettono certi
errori, perdono in un istante tutto. Sono sempre errori fatali.
Il
secondo uomo non sta capendo. Si era fermato a pensare a
quello stato in cui hai la percezione della sofferenza. Non ci poteva
mica fare niente. Il primo uomo gli avrebbe detto una cosa
chiara e tonda, se avesse potuto leggergli nel pensiero: pensi
solo a te, gli avrebbe detto. Da che pulpito, avrebbe immaginato
il secondo uomo. Quelli come il primo uomo, lui, li
conosceva bene. Ne aveva visto un sacco nella sua vita. Delusi,
frustrati e pronti a giudicare. Scacciò il pensiero e guardò
lei, che guardava lui. Questa cosa, pensa, non deve
succedere. Non stasera.
Il
primo uomo sospira. Si era accorto di avere tenuto per lunghi
istanti lo sguardo fisso. Gli capitava spesso ultimamente. E non
ricordava cosa pensava in quegli attimi. Forse quella donna avrebbe
potuto aiutarlo, o dargli qualche indizio da seguire. Parole, parole,
da buttare. Si chiedeva questo, in fondo: c’è un’altra
soluzione oltre a quella soluzione? Allora si è messo
a guardarla. E lei guarda lui.
La
donna sa già come andrà a finire: quello che
stasera è un pensiero, domani sarà una pulsione. La
delusione non ammorbidisce, ne è sempre stata certa. Era
uscita scorticata viva e si era riguadagnata la pelle abbandonando la
ragione. Non c’è ragione né mai ci sarà. C’è
la necessità di ricostruirsi la pelle. Per questo gli ha
portato il secondo uomo. Gli ha voluto regalare una cosa. Un
tempo era stata nella sua stessa situazione. Ma un tempo la storia si
raccontava. Ora neanche si sa di viverla. Uomini.
Il
primo uomo guarda davanti a sé e osserva la donna.
Accenna un sorriso. Poi guarda il secondo uomo. Cerca di
ricordare quando lo ha conosciuto, senza sapere neanche il perché.
Il secondo uomo ai suoi occhi sembra irrequieto, ma
determinato, come si stesse concludendo qualcosa. Un lavoro, un
problema, una missione.
Il
secondo uomo si chiede che cazzo ha da guardare il primo
uomo. E ripensa alla sua storia: ricercatore della prima
università che gli era venuta in mente. Venezia: mai stato.
Aveva anche studiato tre mesi per arrivare preparato. In fondo
l’idea non era stata male. Gli piacevano i diversivi. In
alcuni casi si dice: colpi di fortuna.
Il
primo uomo pensa di essere pronto. Sa già come finirà.
Dal cellulare nessun segnale e non è una novità.
Disadattato. Confondere le cose non è da lui, ma c’è
rimasto in mezzo, come si suol dire. Incastrato, senza sapere
bene perché. Sente l’atmosfera delle grandi decisioni: se sarà
come immagina, dovrà fermare la sua rincorsa. Per un po’ di
tempo, almeno. Avrebbe bisogno di: qualcuno che gli spiegasse le
cose, in un altro modo.
Il
secondo uomo comincia a battere il tempo col piede, a terra.
La chitarra si è fatta rapida e spinge verso accordi
tambureggianti. La fisarmonica si muove scattante, a cercare suoni
improvvisi, da adattare alla nuova velocità del ritmo. Lui
guarda il primo uomo e pensa che è il momento di uscire
a fare una pisciata. E una telefonata.
La
donna vede il movimento del secondo uomo e si scosta, per
farlo passare, senza neanche guardarlo in faccia. Quello che ci
voleva, pensa. Rimanere soli, un attimo. Qualche istante per
accorciare le distanze e provare a ricacciare indietro il pensiero.
Da quanto non ci pensa, si ripete. Da quanto non ne parlo, sussurra.
Il secondo uomo è ormai verso la porta, la donna si
avvicina al tavolo e guarda il primo uomo davanti a sé.
E come ogni volta che una persona ha voglia di spiegarsi, comincia il
discorso con una domanda. Ascoltare, per parlare: non tutti lo
capiscono.
Il
primo uomo inizia, senza sosta: è che la gente non sa,
dietro quale dolore si nasconde una notte, esordisce. E non si
possono sapere i peripli che una vita prende, cercando di mantenere
intatto un modo di essere. Finché ti accorgi di essere
cambiato, perché hanno voluto cambiarti, forse. E sai che
andrai incontro solo a oblio e delusioni, incomprensioni, solitudini,
mestizia, rabbia, pazzia. Ma in fondo, mi chiedo, aggiunge: è
una via di fuga, o un’ulteriore accettazione delle cose? Si ferma e
riprende a parlare: leggo di giudizi: e ora qualcuno si rimetterà
a fare questo e quello, a seguire strategie suicide, quando invece è
meglio lasciare perdere. E’ questo che non so fare, aggiunge l’uomo,
lasciare perdere. La vita, ribadisce, forse è solo
questo: verificare i propri limiti, scegliendo. E più
scegli e più sei insofferente. E più sei
insofferente, più ti accorgi di esserlo. E guai se avessi
un coltello, termina, per tagliare.
La
donna osserva le mani, le braccia, i movimenti del primo uomo.
La vita è un calcolo razionale dei limiti, quando li
consideriamo irrazionali. E lei lo ha messo di fronte alla
possibilità di capirne uno, tutto suo. Tra qualche ora, pensa,
il primo uomo saprà di diventare un braccato. Può
eliminare fin da subito un nemico: il secondo uomo. La donna
si chiede se ne avrà la forza, la disperazione. E si augura di
no. Ma sa bene che in quella notte, per lei, non ci sarà
dolcezza. Non darà niente a un corpo alla ricerca di una meta
irrealizzabile. Ha già dato ascoltando. Ora tocca solo a lui.
Il
secondo uomo ora ha un problema: la telefonata è stata
chiara: cancellare. Eliminare. Togliere di mezzo. Levare dal cazzo,
annientare, spaccare tutto. La ragazza con cui ha parlato era stata
chiara: il primo uomo mi ha cercata. Ha capito. Vuole sapere.
Quindi, aveva risposto il secondo uomo? Quindi, aveva risposto quella
ragazza, cancellare, please. Il problema a quel punto era la
donna. Tra quei due qualcosa doveva essere successo. Forse
proprio la notte in cui lui si era addormentato e non aveva seguito
quei due per le viuzze. Ogni tanto li vedeva prendersi la mano, nelle
notti passate. E quella notte, ne era certo, la dolcezza doveva
vincere per quei due. Due idee, mica due persone. La notizia
che stava per arrivare avrebbe sviluppato traiettorie strane, rapide
e desiderose di calore. Si toccò sotto la spalla destra. Era
lì, calda, pulsante, attiva, pronta. Il secondo uomo
entra nel bar e li vede. Stanno parlando. Se è come pensa, ha
un fottuto problema.
La
donna osserva l’entrata: intravede il secondo uomo farsi
avanti. Guarda il primo uomo e gli dice, semplicemente: quello
è un tuo nemico. Il primo uomo la guarda. E’
bianco, spettrale, non ha più le parole pronte. Nessuna
citazione, frase, ricordo, frammento. Sorseggia la bevanda e capisce:
non si scherza mica più. Le chiede in che senso stia parlando.
E lei rapida, gli sussurra un nome. Un ricordo della memoria, lontano
per interi giorni e riaffiorato solo in quegli istanti che
precedevano la notizia tanto attesa e già sospettata. La
donna decide che sarebbe andata via, subito.
Il
primo uomo osserva la donna e poi il secondo uomo. Sta per
entrare. Ha il passo deciso, si tocca sotto l’ascella e il primo
uomo capisce. Attorno a loro ci sono tre persone, non di più.
Il primo uomo pensa, rapido: al tribunale, alle sue uscite,
agli strani incontri, ai personaggi che si muovono in silenzio, senza
riflettori. Uomini che agiscono, cambiano, motivano e determinano.
Uomini che fanno la storia. Uomini come il secondo uomo.
Il
secondo uomo entra e fa in tempo a vedere la donna che
si alza e se ne va, senza salutare nessuno. Guarda fissa davanti a
sé: ha gli occhi sbarrati. Il secondo uomo si mette di
fronte al tavolo. Il primo uomo lo guarda. Si osservano ed è
fin troppo chiaro: hanno capito tutto. Potrebbe fare un bel casino,
ma decide di sorridere, il secondo uomo. La situazione si
mette bene, pensa.
Il primo uomo ha già capito: non c’è
uscita. Loro sono dappertutto. E’ una guerra.
Non
l’hanno mica ancora capito, pensa il secondo uomo, mentre si
siede, sorridendo.
La
donna cammina, appoggiando i piedi a terra con un ritmo tutto
suo. Ha visto, ha pensato, ha sognato: le catenelle, i sospiri, i
sorrisi, i pianti, le botte, la violenza, il male. E a breve
tutto diventerà storia: dimenticata, mai raccontata. Finirà
nel buco nero della vulgata comune. Diventerà un’altra cosa,
un’altra storia.