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Archivio per la categoria ‘storia e memoria’

[Repost] Cerca la tua piccola storia di rivolta in famiglia!

23 Settembre 2010 Commenti chiusi

Riposto da cavallette

Grazie a un tweet di Wu Ming siamo arrivati a scoprire un interessantissimo articolo sul blog degli storici del Friuli Occidentale che insegna come consultare il Casellario Politico Centrale del PNF (Partito Nazionale Fascista). Ovviamente attraverso l’articolo si scoprono un sacco di risorse archivistiche molto poco pubblicizzate, ma molto interessanti dal punto di vista storico e culturale. Ovviamente se ci fosse qualcuno ancora attento a un concetto così obsoleto come quello di storia e memoria, nell’eterno presente del Paese che Non C’è in cui viviamo e non prosperiamo.

Se volete essere gentili andate al link degli storici, altrimenti le istruzioni in breve sono queste: andate sul sito dell’Archivio dei Beni Culturali dello Stato sezione Casellario Politico e cliccate su Ricerca. Da lì potrete vedere se un vostro nonno o un vostro bisnonno erano della vostra stessa opinione riguardo a cosa fare delle camicie nere (un sol fascio e poi… ecc ecc.). Buon divertimento e buon salto nel vostro e nostro passato e presente!

Zeitoun e gli esseri umani

17 Settembre 2010 Commenti chiusi

Zeitoun racconta la storia vera verissima di Abdulrahman e Kathy Zeitoun, una coppia siro-americana musulmana di New Orleans nei giorni precedenti e successivi all’arrivo di Katrina. Narrano l’odissea di chi è fuggito dalla città lasciandovi tutto e la sospensione di ogni parvenza di democrazia nella città subito dopo l’uragano. Il libro di Dave Eggers è una finestra illuminata sulla labilità di quello che noi pensiamo essere il mondo evoluto in cui viviamo e con cui ci scontriamo tutti i giorni, e penso sia un’ottima lettura per ricordare a tutti che alla fine quello che conta sono gli uomini, il resto è tutto accessorio. Sono gli uomini infatti che possono trasformare la giustizia in violenza, la solidaritetà in prevaricazione; sono gli uomini che fanno la storia, la società, la democrazia; sono gli uomini, infine, che possono cambiare le cose e renderle migliori o peggiori. Zeitoun è la storia di ogni secolo, di ogni decennio, di ogni giorno intorno a noi, che ci racconta di come gli uomini non siano adeguati a diventare migliori, di come gli uomini siano ancora e soprattutto animali, senza  molte speranze. Nonostante le eccezioni.

Voto: 9

La festa più importante

23 Aprile 2010 4 commenti

 

Ho sempre avuto una certa allergia per le feste comandate di origine religiosa. In realtà mi piacciono, nella loro forma di feste popolari, ma solo quelle locali: quelle nazionali mi danno l’orticaria e fosse per me le toglierei dal calendario ufficiale della Repubblica Italiana. In compenso le feste laiche mi attirano come una falena la luce di un lampione: mi ispirano un rispetto totale e anche il mio spirito sarcastico non riesce a farsi strada tra il senso di profonda ammirazione che nutro per il significato storico di ognuna di quelle date. 

Tra due giorni è il 25 aprile, la festa laica più importante (nonostante il ballottaggio con il primo maggio), la festa di un paese che si libera dai propri tiranni, dalle proprie storture, che per un giorno e forse per qualche anno si eleva sopra la propria ipocrisia e la propria tendenza ad arrangiarsi, accontentarsi, pensare al proprio. Perché l’Italia è il Paese Qualunque, lo è sempre stato (almeno nell’ultimo secolo), disabituato a lottare e abituato a fare di necessità virtù, dopo millenni e millenni di feudi e scazzetti di poco conto. 

Il 25 aprile ricorda un momento in cui la storia del popolo italiano è stata migliore. Migliore in senso assoluto. E forse ricorda anche a me che quello che mi circonda potrebbe essere altrimenti. E non è un caso che di questi tempi si debbano sentire affermazioni senza storia e senza qualità che rivendicano il diritto anche per i nostalgici di periodi bui e orrendi della storia del nostro paese di ricordare i loro caduti, che le autorità cittadine mettano sullo stesso piano chi ha combattuto per perpetrare la dittatura e chi per distruggerla. 

Come scrissi anche l’anno scorso: non è tutto uguale. Non tutte le posizioni valgono allo stesso modo. Alcune sono giuste, altre sbagliate. E aver trasformato l’Italia in un paese di opinioni e di equidistanze comode non l’ha resa un posto migliore. Per quello bisogna fare delle scelte, bisogna sostenerle e bisogna combattere. Ogni maledetto giorno. Il 25 aprile mi ricorda tutto questo. E mi dà un po’ di forza per non perdere la speranza che le persone a un certo punto riscoprano l’importanza della propria dignità e del proprio futuro, non solo quella del proprio interesse e del proprio presente. 

PS: appuntamento il 25 aprile alle 8.30 in Isola per il giro delle lapidi dei caduti per la liberazione, e alle 15.00 in porta venezia per il corteo.

PPS: la canzonedel video sotto fatta da aquilani per l’aquila e per la sua gente; anche loro sperano che le persone tornino a lottare per il proprio futuro, penso, smettendo di credere alle cazzate che raccontano tutti i giorni per rabbonire e sedare. to tame and to blame per così dire. 

 

 

http://www.youtube.com/watch?v=XYv4Sfa_CrY

 

 

Microtelling: la Politica

18 Dicembre 2009 1 commento

 

Il cielo di milano oggi è una minaccia più che un elemento del paesaggio. Incombe grigio e piatto come un enorme palmo pronto a soggiogare chi abita sotto il suo dominio. Immoto, infinito, ineluttabile, reale.
Dopo il microblogging, a voi il microtelling.

La Politica
[quella con la p maiuscola che ha allontanato quasi tutti dalla gestione del comune e che nonostante questo ha così larga parte nel determinare le condizioni in cui viviamo]

Camminavo serenamente in mezzo alla strada, circondato da uomini e donne che si affannavano a rincorrere l’ultimo regalo di Natale. Faceva freddo ma non troppo, e i volti e i corpi erano celati da strati e strati di tessuto, lana, cotone, feltro, cashmire. All’improvviso vidi un movimento repentino e venni colpito: un sapore metallico mi riempì la bocca e uno strano calore si diffuse su tutto il mio viso. Caddi a terra, ma mi rialzai tamponandomi il volto con la manica e cominciai a correre. Corsi senza fermarmi gridando aiuto a squarciagola, sperando che questo facesse desistere il mio aggressore. Mi fermai solo dopo qualche centinaio di metri, quando mi resi conto che non mi inseguiva nessuno. Mi accasciai con la schiena appoggiata alla parete e composi il numero del 118 sul telefono. L’ambulanza arrivò in una mezzoretta e mi portò all’ospedale, lasciandomi dolorante in sala d’attesa. Dopo alcune ore un medico mi disse che non era nulla di grave, mi fece fare due lastre e mi ricucì alla bell’e meglio il labbro. Mi resi conto che avevo perso due denti. Quando uscii dall’ospedale era ormai notte fonda e tornai a casa, chiedendomi chi ce l’avesse con me così tanto da aggredirmi a quel modo. Non trovai risposta e non ne trovai neanche nei giorni e nei mesi successivi, ma mi ritrovai a dover vincere il disagio di camminare spensierato in mezzo alla folla. Ancora oggi non sono riuscito a ritrovare la sensazione splendida che mi dava passeggiare tra la gente osservandola.

-*-*-*


Si destreggiava alla meglio tra la folla, attorniato da guardiaspalle enormi e da mani festanti che lo cercavano come un messia. In sottofondo qualche urlo di contestazione e qualche fischio. Nelle orecchie ancora le parole efficaci della sua ultima arringa contro "la violenza". Sorrise tra sé e sé. Stringeva mani, firmava autografi, sorrideva. Improvvisamente il colpo: un sapore metallico gli riempì la bocca e uno strano calore si diffuse su tutto il suo viso. Cadde nelle braccia dei suoi sostenitori, che lo spinsero istintivamente all’interno dell’auto blindata. Fu un istante. Tolse il cencio con cui gli stavano coprendo il volto e salì sul predellino dell’auto, mostrandosi alla folla: ferito, sanguinante, lo sguardo furente e fiero. Poi rientrò nell’auto e diede ordine di portarlo al San Raffaele, preavvisando chi di dovere. All’ospedale venne portato immediatamente a fare ogni tipo di accertamento e gli venne messa a disposizione un’intera ala della struttura per riposare almeno qualche giorno. Mentre veniva medicato e ricucito così da lasciare un segno appena percettibile tra la guancia e il labbro, pensò al da farsi. Nei successivi tre giorni, lontano dai riflettori, fece solo poche cose, ma necessarie, per ottenere il massimo risultato con il minimo sforzo: prese appuntamento dal dentista, dato che aveva perso due denti, ma non dal chirurgo estetico; lasciò che i suoi amici puntassero tutte le armi che avevano sui suoi nemici, si dia fuoco alle polveri; diede mandato ai suoi consulenti di aprire una azienda di import-export di souvenir del duomo, il mercato ne avrebbe avuto bisogno. Quando dopo tre giorni uscì dall’ospedale, mostrandosi ai suoi fedeli e fedelissimi, disse solo una frase: "l’amore vincerà". E anche io, pensò sorridendo sotto la medicazione. Poi ordinò all’autista di portarlo a casa, dove sarebbe rimasto a riposto fino al giorno dopo la tradizionale conferenza stampa con i giornalisti che diversamente sarebbe stato obbligato a fare. Due piccioni, e anche di più, con una fava.
 

Un nuovo ’26: caricatura della storia d’italia

14 Dicembre 2009 13 commenti

 

Chi cerca facile retorica da buon democratico o facili recriminazioni (ancorché basate su fatti veri) su come la violenza nei confronti delle persone normali sia una violenza di serie b, mentre la violenza contro un politico sia un affare di stato, può smettere di leggere subito. Non mi interessa fare le discussioni che addirittura Rosi Bindi riesce ad articolare.
Mi pare più rilevante sottolineare il cinismo di quanto è avvenuto ieri sera, e non mi riferisco certo all’improbabile gesto di Mr Tartaglia, quanto alla reazione che sta generando e che ha immediatamente generato.
Il centro destra (e il centro sinistra) sono da tempo incastrati in una battaglia di posizione in cui le trincee stanno tutte a casa della destra, un po’ come se i francesi avessero difeso la Marna dal lato di Berlino. E l’aggressione di ieri sera (chi parla di attentato è più squilibrato di un bradipo ubriaco) è l’occasione perfetta per uscire dall’impasse. Sempre dal lato della destra.
E’ stato molto curioso seguire le reazioni dei politici che reclamano adesso a grande voce il rispetto delle istituzioni, della democrazia, della Costituzione salvo sputarci sopra a ogni pié sospinto. Il miglior comico è proprio Ignazione La Russa: "dobbiamo difendere la democrazia, dobbiamo introdurre il REATO PENALE di DISTURBO DELLE MANIFESTAZIONI ALTRUI" (il maiuscolo è mio). E come facciamo a definire disturbo? Quando io grido che non sono d’accordo sono più o meno  democratico? E se la Polizia mette le transenne e impedisce a un corte legittimo di entrare in una piazza dove si è svolto un grave fatto nel passato disturba la
manifestazione? O anche in questo caso hanno l’esenzione dal reato penale come a Genova (tanto per richiamare eventi arcinoti)?
L’aggressione di ieri invece secondo me si inserisce perfettamente nei ricorsi  storici di questo scorcio di secolo: siamo passati attraverso una riedizione del ’22 e degli anni successivi e finalmente siamo sbarcati in una patetica e grottesca rivisitazione del ’26 (l’attentato Zamboni al pelatone tanto per  capirci). E Silvio sul predellino perché tutti possano immortalare il suo
sacrificio per la patria, il suo martirio tutto sommato a basso costo (mica ci è rimasto, ci ha perso mezzo dente) è l’emblema del fascismo videocratico in cui  siamo immersi. Si predica di abbassare i toni e si aizza la piazza alla guerra.
E nessuno dice una parola.
Ma sono pronto a scommetterci che le conseguenze di questo evento saranno molto meno uno scimmiottamento di quello che successe dopo il ’26: si istituì la pena di morte e il populismo del regime esplose in tutta la sua spettacolarità, di
fatto annullando ogni opposizione alla luce del sole. Con le buone e con le  cattive. Ora non penso ovviamente che si reintrodurà la pena di morte (anche se a sentire i militanti di centro destra per i "comunisti" ci vorrebbero almeno dei campi di confinamento), ma penso che un centro-destra prossimo ad andare alle elezioni anticipate troverà il modo di serrare le fila e di far accettare
ob torto collo al paese ogni nefandezza di cui si vedrà capace.
Proprio nel momento in cui speravo che la gente si rompesse definitivamente i coglioni e cominciasse a spaccare tutto, mi ritroverò a dover sentire deliri di ogni tipo conditi qua e là di abusate parole come "democrazia", "libertà", "futuro". D’altronde il limite siamo noi, tutti noi che viviamo ipocriti, avviliti e attoniti nel Paese che Non Esiste Più: la nostra afasia è la giustificazione dell’immondizia in cui siamo immersi. E dopo l’attapiramento che ho visto a seguito degli eventi di ieri sera, non ho dubbi che le speranza per
una matura presa di posizione siano ridotte al lumicino.
Allora avanti così, continuiamo ad essere la caricatura di un popolo, che vive nella caricatura di un paese, in cui l’evento più grave – a leggere i giornali – degli ultimi 20 anni è la caricatura di un attentato al Primo Ministro perpetrato con un souvenir da 2,5 euro. E poi mi dite di non cercare la rissa…

40 anni di miserie e ipocrisie all’italiana

12 Dicembre 2009 Commenti chiusi

 

Quaranta anni fa, il 12 dicembre 1969 alle ore 16 e 37 minuti, una bomba esplodeva nella Banca dell’Agricoltura di Piazza Fontana a Milano: una strage di cui tutti sanno tutto (i mandanti, gli esecutori, i capri espiatori, le insabbiature e le coperture istituzionali, le conclusioni processuali ingiuste) e di cui tutti fanno finta di non sapere niente. Una strage che ha inaugurato il periodo più miserevole, falso e infame della recente storia italiota: quello della Strategia della Tensione, in cui sulla pelle delle persone normali si è cercato di inventare scuse per evitare che il pericolo rosso arrivasse al potere (perché poi si può girarci intorno finché si vuole, ma questo è stato). A 40 anni di distanza è continuato il teatrino: zero commemorazioni, piede a tavoletta sulla speranza che la gente dimentichi, confonda, annebbi e che finalmente tutto possa tornare ad essere "normale".

Come ogni anno centinaia di persone (quest’anno ancora meno degli anni scorsi, segno dei tempi che corrono) si sono ritrovate a marciare per le strade di Milano, giusto per non dare l’impressione che proprio a tutti stia bene che si dimentichi, che si cancellino interi pezzi di storia collettiva. Una volta arrivati davanti a piazza Fontana le persone si sono trovate di fronte camionette, forze dell’ordine schierate e transenne per impedire l’accesso alla piazza. Alla domanda semplice: "perché alcuni cittadini possono entrare normalmente in piazza Fontana e ricordare la strage e altri come quelli che hanno partecipato a un corteo perfettamente legittimo non possono farlo?" La risposta sono state un paio di cariche. La gente non se n’è andata. Fino a quando non se ne sono andati gli uomini in divisa, che una volta di più anziché difendere i valori democratici si sono ritrovati ad essere idiota strumento delle necessità del potere: una bella scazzottata che i media possano usare per alimentare il mito dei manifestanti cattivi e intolleranti. E il problema è che la maggior parte delle persone sono disposte a bersi qualsiasi stupidaggine pur di continuare con il proprio tran tran.

Sono i tempi che corrono. Tempi che fanno infuriare e allo stesso tempo fanno riflettere sul fatto che se un popolo non vuole diventare adulto, non ci saranno speranze per il suo futuro e per quello delle generazione che lo seguiranno. Che mestizia.

UPDATE

Apprendo oggi dalla registrazione di Radio Popolare (complimenti, sempre dalla parte del popolo, ovviamente) e da La Repubblica che il problema ieri sono state le persone che volevano entrare in piazza e che tutti i presenti in piazza in quel momento (o almeno quelli che stavano sul palco) si sono indignati non perché una piazza che è di tutti nel giorno del 12 dicembre fosse asserragliata di sbirri, ma del fatto che personaggi che nulla hanno a che fare con la commemorazione come Letizia Moratti, Roberto Formigoni e Guido Podestà fossero sonoramente fischiati. Anche i familiari delle vittime cadono nell’equivoco e anziché pretendere che la piazza fosse aperta non sanno fare meglio che mugugnare per la "festa rovinata". Io sono allibito. Non ci sono altri termini. Solo io penso che l’anormalità ieri fosse nelle transenne che chiudevano la piazza e nelle istituzioni della destra sul palco e che la cose positiva fosse il desiderio di centinaia di altre persone di essere presenti nel luogo dove si commemora un evento purtroppo fin troppo attuale?  Il mondo alla rovescia, il mondo attraverso una telecamera. E per tutti i benpensanti: speriamo che di scontri se ne vedano presto di molto più recrudescenti perché a furia di ingoiare si finisce per assomigliare agli struzzi più che agli esseri umani.

 

Il crepuscolo degli eroi sarà il crepuscolo dell’epica?

1 Dicembre 2009 5 commenti

 

Il nuovo libro dei Wu Ming – Altai – è il sequel (volevo scrivere postquel, ma poi ho pensato di fare la persona seria) di Q. Sequel in termini di contesto storico, di personaggi e anche di tematiche: la rivolta, il ruolo degli eroi e degli antieroi, la guerra e la libertà, e quanto costano. Avviso i naviganti che la mia recensione se ne sbatte di spoiler e anticipazioni, per cui leggetela DOPO aver letto il libro, se non vi piace sapere come finiscono le storie.

Altai si presta a una duplice lettura (non ho ancora deciso quale mi convince di più) e anche a una duplice interpretazione della conclusione. Le letture si dipartono dai due personaggi fondamentali del romanzo (non gli unici, ma quelli che per me sono la chiave della trama, senza per questo togliere valore simbolico ad altre figure): Ismail alias Gert dal Pozzo e Manuel Cardoso De Zante alias Altai.

Da un lato l’anziano rivoluzionario, l’"errante per scelta, che per tutta la vita i potenti ha cercato di abbatterli", il "fiume che evapora e diventa nuvola, per scavalcare il deserto e piovere sui monti." Rappresenta ciò che è stato, la saggezza dell’esperienza, di chi il prezzo l’ha già pagato e ne ha conosciuto l’amarezza, in grado di riassumere in una frase apodittica ciò che è stato, è e sarà: "Volevamo giustizia. E una ragione per vivere e morire." L’epitaffio che chiunque abbia un animo desideroso di cambiare il mondo vorrebbe sulla propria tomba è la storia della vita di Gert. Ed è la storia di Q. Riassunta dagli autori stessi.

Dall’altro il giovane idealista, rinato a una nuova vita dopo aver negato se stesso, i propri ideali e la propria personale epica, il ribelle che trova una causa e un maestro (forse più di uno considerato Ismail): "Nessuno di loro credeva in lui. [in Yossef Nasi, nda] Eppure migliaia di ebrei gli dovevano la vita. Eppure io ero lì a dimostrare che era possibile cambiare tutto. Bastava volerlo e con l’aiuto del Signore le cose potevano essere capovolte, il caos cancellato, l’equilibrio ripristinato. Tikkun olam. Così lo aveva definito Nasi. Aggiustare il mondo, sanare la ferita che il nostro popolo si portava dietro da millecinquecento anni, così come aveva rimarginato la mia piaga, nascosta per metà della vita." L’idealismo un po’ naif, un po’ ingenuo e per questo vagamente massimalista, privato in un certo senso di profondità di fronte all’entusiasmo, e che si scontra con il cinismo un po’ saturo e un po’ saggio di Gert.
Manuel Cardoso è Altai: "Altai […] è il nome di questa stirpe meticcia. […] E’ un falco molto robusto, fedele, facile da addestrare. Non occorre fare nulla con un altai, e un buon falconiere fa il meno possibile. E’ la natura del falco che lo spinge in volo e gli fa conficcare gli artigli sulla preda. Se vuoi che lo faccia per te, devi solo mostrargli qual è il suo vantaggio." Una creatura fedele all’idea che si fabbrica per lui, in grado di seguire il suo istinto eroico e martire, fino alla sua ultima conseguenza: la morte, la violenza cieca, la barbarie. Di fronte alla quale il velo si strappa per rivelare la realtà della storia. Un perfetto strumento del potere.

Allora Altai (il romanzo) si presta a una prima lettura spinoziana: ogni volta che muore un eroe, che un’idea vince o perde o si trasforma, che muore un’occasione di rivolta, ciò che ne rimane rinasce in un nuovo movimento, in un nuovo afflato di speranza. La storia è un continuo divenire ciclico di eventi, di epica, di eroi. Ed è per questo che non dobbiamo mai pensare che sia finita, che ogni istante è un nuovo inizio da giocarsi fino in fondo.
Anche se il ciclo è "d-evolutivo", se ogni generazione di battaglieri sembra sempre meno densa di quella precedente, sempre più bassa nelle proprie aspettative e possibilità, come se la volontà fosse un bene consumabile, che si assottiglia insurrezione dopo insurrezione. E non è detto che sia così. E’ il ciclo che ricomincia con il ritorno finale di Ismail/Gert a Mockha per un nuovo terreno di battaglie da coltivare, per nuovi popoli da aizzare, per cercare un nuovo territorio da colonizzare con l’idea di libertà.

Questa lettura mi sembrava molto precisa in una prima fase del romanzo, ma sul finire del romanzo mi si è presentata una seconda chiave, più tradizionale forse, e sicuramente parziale (ma d’altronde ogni lettura è parziale): Altai come dialettica dell’epica, con Q come tesi, il presente romanzo come antitesi e noi, sì proprio noi, quello che viviamo e che facciamo, come sintesi. Schematico forse, ma interessante. Ismail come la tesi di rivoluzioni con grandi aspirazioni e capaci di giocarsi la partita fino in fondo, fino a pagare il dazio greve di chi ci prova senza risparmiarsi neanche un grammo di coraggio e di volontà, nonostante la fine tragica.
Ismail risponde proprio a Manuel:
"- Mi avete parlato di quel che avete perso. Cosa vi resta?
– Soltanto loro".

E ancora:
"- Machiavelli ha scritto che bisogna guardare il fine, non i mezzi.
– Sì, anche Yossef me lo ha ripetuto spesso. Con gli anni, ho invece imparato che i mezzi cambiano il fine."

Le risposte amare di chi ha scommesso tutto sulla libertà e ha perso, ma sapendo di fare quello che riteneva giusto e che poteva cambiare il senso della propria vita e di quella di coloro che lo circondano. Risposte che sembrano un po’ quelle che molti di noi che hanno vissuto gli ultimi dieci anni di movimenti stanno elaborando, incapaci di trovare una strada per cui valga la pena ancora mettersi in gioco. Strada che forse Gert trova (e sicuramente i Wu Ming individuano, considerato i loro commenti a questa mia recensione 🙂 A cui fanno da controcanto le parole dell’antitesi Manuel Cardoso, un fedele servitore di un ideale altrui.
"- […] Solcare il mare è come attraversare il deserto. Sono spazi liberi, aperti a mille possibilità.
– Eppure senza un approdo non si farebbe che andare alla deriva."

La storia è una deriva? Oppure ha un fine? E se ce l’ha chi lo decide? L’epica è la definizione della finalità di (una) storia? O è il canto di come si attraversa una storia alla deriva? Gli eroi sono coloro che cercano di costruire una strada laddove nessuno sa dove andare, di sostituire alla deriva una rotta. Allora la tesi Ismail/Gert e l’antitesi Manuel/Altai si scontrano di fronte alla morte dell’ideale altrui che Manuel ha inseguito e che Ismail ha accettato di correggere: di nuovo sangue, violenza, il tradimento di ogni rotta e di ogni desiderio di giustizia di fronte alla realtà degli esseri umani. E la reazione è differente: Gert torna a se stesso, a ciò che gli è rimasto, a ciò che spera, lasciandosi alle spalle la propria storia e sperando che essa possa insegnare ad altri dove ha sbagliato; Manuel affronta prima il proprio mentore e poi il proprio destino, tragico e mesto, senza onore e senza gloria, come di tutti coloro che hanno vissuto l’ideale di qualcun altro, la sua libertà, la sua giustizia. Quella del potere.
"- Sono queste le fondamenta della nuova Sion? Strage, tortura, infamia? Un giorno dicesti che volevi riparare il mondo, e non mi aspettavo certo che fosse una sutura indolore. Ma ora la piaga è più vasta di prima, e infetta, e non vedo quale cura la potrebbe sanare.
– […] Non vi è regno che non nasca dal sangue dei vinti […]
– […] Almeno i nostri padri presero la terra da soli. Sapevano quello che facevano, e ressero il peso delle morti sulle proprie spalle. Noi abbiamo massacrato per tramite dei giannizzeri, incuranti del male che ne sarebbe venuto."

Gli eroi dei Wu Ming sono morti, sconfitti, vituperati, vinti. Ismail/Gert come molti di noi si rintana in quello che gli è rimasto, convinto che le sue carte siano state giocate e non siano bastate, avvolto dai brandelli della propria volontà, struggente e romantico, ma al termine della sua storia. O forse ripiega su se stesso cercando un altro luogo, un altro tempo, un altro modo di continuare a combattere. Manuel fino in fondo al servizio di una battaglia altrui, intriso di una volontà fotocopiata fino a quando la realtà non lo risveglia con la sua truculenza, abdica la propria esistenza convinto di dover pagare questa sua unica colpa, quella di non aver saputo scegliere, gettando via i dadi per lungo tempo tenuti nelle tasche della giacca come simbolo del caso che menava le sue membra a destra e a manca.

Quello che rimane siamo noi. O forse voi (io mi sento più Gert), altri, ancora convinti che ci sia spazio per combattere e per crederci, sapendo che ogni battaglia ha i suoi prezzi, ma che spesso valgono la pena di essere pagati se il risultato è un epica e una storia che possa essere raccontata. Quello che rimane è piantare dei semi e cercare un nuovo terreno dove costruire la battaglia per una realtà migliore. Nuove possibilità di fronte a un gioco – quello del potere – che è sempre lo stesso e che finisce sempre allo stesso modo. Sapendo che la battaglia sarà ancora una volta e sempre più dura.
Solo così il crepuscolo degli eroi non sarà anche il crepuscolo dell’epica, un preludio alla fine di ogni speranza. Ma solo un nuovo inizio.

"La libertà, invece, non rimane mai la stessa, cambia a seconda della caccia. E se addestrate dei cani a catturarla per voi, è facile che vi riportino una libertà da cani."

PS: non l’ho scritto perché ho una lievissima tendenza a vedere il politico che c’è in ogni cosa, ma l’aspetto testuale dell’opera dei Wu Ming è veramente arrivata ad un livello elevatissimo: scelta delle parole, elaborazione sul linguaggio (il lavoro sul giudesmo è fantastico),  la contestualizzazione e l’affresco storico, la caratterizzazione dei personaggi, tutto verametne di altissimo spessore letterario. In conclusione spero che le note "critiche" nella mia recensione non vengano confuse con una diminuzione della stima che provo per l’opera dei soci bolognesi (e non) che rimane elevatissima. Consigliato vivamente a tutti 🙂

 

Buone nuove

19 Novembre 2009 1 commento

 

Ogni giorno si potrebbe scrivere di quintali di nefandezze che il Paese che Non c’è ci propina. Si potrebbero riempire diari di quanto ci stiamo assuefando a un mondo orribile che ci circonda, a persone schifose e prive di dignità e di rispetto degli altri, di quanto i luoghi e i tempi in cui viviamo scendano nel maelstrom dell’orrore: dal Bianco Natale a caccia di immigrati irregolari su cui apporre una bella stella gialla (o magari nera, per restare in tema) a Coccaglio, passando per la morte di Stefano Cucchi e di decine di altri, fino ad arrivare a scempi quotidiani. Ma la testa si stanca ancora prima di cominciare ad affrontare questa marea nera e appiccicosa, il fronte del maremoto di uno Zeit Geist lontano migliaia di chilometri e di eoni da ciò che io penso sia l’umanità. Allora scegliamo una notizia piccola, ma che ci ricorda che prima o poi la biologia ci salverà: con una catastrofe, una pandemia o anche semplicemente con il decorso naturale della breve vita umana. Prima o poi anche il peggiore dei nostri nemici dovrà lasciare questa valle di  lacrime e fuor di falsi e ipocriti moralismi noi dovremmo sempre brindare. Addio Caradonna, non ci mancherai!

PS: per l’autore dell’articolo. Il soggetto non era una macchietta, ma un ex picchiatore tra i più violenti. Carta canta. E pure un processo che ecn.org ha vinto per non cancellare dal web la memoria di quanto quest’oscuro figuro ha fatto nella sua fin troppo lunga vita. 

I buoni e i cattivi

9 Ottobre 2009 11 commenti

 

E’ il discrimine totale e definitivo, quello che ci offre ogni evento, ogni storia, ogni narrazione, ogni situazione. Il più facile e immediato, quello che non manca mai, il crinale lungo il quale scegliere da che parte stare. Neanche la voga del postmodernismo è riuscita a scalfire il mito di una divisione perfetta tra gli uni e gli altri, alimentata da secoli e secoli di semplificazione. Io, da sempre, fin da quando ero piccino, ho sempre preferito i cattivi. Non ci sono cazzi. Mi sono sempre piaciuti Dillinger, Bonnot, Vallanzasca, gli Indiani e financo Cattivik. Perché? Perché i buoni sono ipocriti e parteggiare per loro è una forma di ipocrisia ancora più viscida, fatta di menzogne taciute anche a sé stessi e di facili schieramenti, perché i buoni vincono sempre anche quando non lo meritano, perché i buoni incarnano ciò che è giusto e naturale che sia giusto, sono l’autoassoluzione dalla propria stronzaggine e della propria intima miseria egoistica. Sono un insopportabile assioma, una tautologia vivente (almeno nelle narrazioni), uno schiaffo alla realtà. Invece stare con i cattivi significa cercare di capire la verità, di capire che cosa succede, di non fermarsi alla facile apparenza e al conformismo di ciò che è giusto o di ciò che è sbagliato secondo "chiunque". Stare con i cattivi significa cercare, pensare, decidere.
Anche Genova è una storia con i buoni e i cattivi, anzi con tanti buoni e tanti cattivi, a seconda del punto di vista di chi vi racconta cosa è successo. Così ci sono i buoni per antonomasia, i poliziotti, le forze dell’ordine, quelli che ci proteggono, e i cattivi per definizione (almeno in questi decenni di bulimia dei consumi e di anoressia dei cervelli), i manifestanti, quelli che fanno casino. Ma anche spostando un po’ più in là l’asticella della nostra narrazione, ci sono sempre i buoni, i manifestanti pacifici, e i cattivi, i manifestanti cosiddetti violenti. Quindi, anche spostandosi più in là possibile con il punto di vista, rimane sempre bello limpido il discrimine: da un lato i buoni e dall’altro i cattivi, i violenti.
Ora: tralascerò una disanima sul termine violenza, una parola che non digerisco più. Intendiamoci: capisco perfettamente la sua denotazione, ma non riesco più ad accettarla come parte del mio lessico da quando è diventata un connotato di giustizia, da quando ciò che è violento è necessariamente sbagliato, come se avesse intrinsecamente un valore morale, come se violento fosse un aggettivo etico e non qualificativo di una situazione. Feroce è morale, forte è morale, prepotente è morale, ma violento in sé non è né buono né cattivo. Almeno fino a quando non hanno deciso di sciacquarci il cervello in un Arno fatto di equidistanze e privazione della capacità di prendere posizione, di decidere in base a ciò che viviamo e che vediamo intorno a noi.
La sentenza di appello per i fatti avvenuti nelle strade di Genova durante il G8 del 2001, nell’arco del famoso processo ai 25 – e se non sapete di che parlo fate una bella ricerchina in rete che non ne posso più di riassumere gli eventi – ha sancito una volta di più che quel discrimine non si può valicare se non a costo di gran parte della propria vita. I buoni, via via nei mesi, sono stati tutti assolti: chi pienamente perché santo subito (De Gennaro, l’ex capo della polizia, e compagnia), chi parzialmente con sentenze che assomigliano più a strigliate che non a condanne (Diaz e Bolzaneto), chi di straforo per culo o per inciso (mancanza di prove o risarcimento per aver subito una carica studiata a tavolino per scatenare il delirio a Genova come nel caso delle Tute Bianche in via Tolemaide, anche se su questo evento e sulla gestione giudiziaria della cosa si dovrebbe parlare a lungo per mille motivi, fatto salvo che sono contento per coloro che sono stati assolti). I cattivi pagano pegno: 10-15 anni a testa, zitti e muti. Con buona pace della storia e della ricerca della verità. Tra dieci e quindici anni. Pensiamoci ogni tanto alle cose che leggiamo o quelle che sentiamo al telegiornale.
I moralisti diranno: bene, se lo meritano. I loro compagni diranno: male, Stato bastardo e assassino. Io – pur condividendo questa seconda posizione diciamo in termini formali e ideologici – voglio ragionare con chi mi legge. La decina di persone che è stata condannata è il capro espiatorio di un evento storico che nessuno vuole guardare in faccia. Anche a distanza di anni, i libri scritti su Genova – sia da ex poliziotti che da (ex) compagni – non vengono comprati, non vengono letti, non vengono discussi. Tutti sono lì a nascondersi quello che è avvenuto, quello che hanno provato, la voglia di violenza che si è scatenata (o che qualcuno ha voluto scatenare, su questo non saremo mai d’accordo e forse non è possibile esserlo) in noi e intorno a noi. Così una decina di persone che ha causato qualche migliaio di euro di danni a un’altra decina di persone viene condannata a più anni che non qualcuno che ha ucciso (ucciso = ammazzato = morto) una persona, o di qualcuno che a truffato decine di migliaia di euro a tutti i cittadini italiani, o che ha aggredito e violato la dignità e l’incolumità fisica di una persona (uno stupratore ad esempio). 15 anni. Sono molti da passare in carcere per aver rotto dieci vetrine. Ma una pena più lieve non sarebbe stata abbastanza per i cattivi. E se i cattivi non sono più cattivi, i buoni non possono essere i buoni, e chi ci capisce più nulla? Non si può fare, converrete con me. Ci toccherebbe cercare di capire quello che è successo, la complessità del mondo in cui viviamo. Ma non è cosa per poveri esseri umani italiani del terzo millennio.
Rimane la rabbia. Rimane la frustrazione per non essere in grado di spiegare quanto sia semplice e brutale la situazione, quanto sia inevitabile e quanto nessuno voglia né conoscere quello che è avvenuto in quei giorni, né porsi il problema di che cosa significhi la parola giustizia o la parola violenza. Rimane l’istinto alla violenza. Rimane ciò che ci circonda. Rimane il disgusto. Rimane il discrimine e la possibilità di scegliere se stare da un lato o dall’altro del crinale. Io non ho cambiato idea.
Rimane la consapevolezza che è giunto il momento di leggere la realtà, di rendersi conto che lo spazio per la rappresentazione, per l’opinione, per la manifestazione è morto da tempo, annullato, vituperato, strumentalizzato. Che se volete dare libero sfogo alla vostra idea, se volete essere partigiani, non potete lasciare spazio ai dubbi. E’ il tempo di fare, di agire: che sia come riformisti (candidarsi, eleggersi, schierarsi, infilarsi in istituzioni di merda varie), che come radicali (tralascio gli esempi, ma penso che Bonnot o il subcomandante Marcos li conosciamo tutti). Non si può più aspettare che succeda qualcosa indipendentemente dalla nostra pochezza. Io sono un codardo, un vigliacco, o forse non sono abbastanza bravo o capace per fare passi così tetri, duri e cinici. Ma ammettendo il mio limite saggio anche il margine con cui mi accosto al crinale. Lo spazio per le speranze è finito da tempo e la storia sarà sempre e comunque di chi saprà scegliere, schierarsi e lottare. E di chi pagherà per questo. Intendiamoci: non servono martiri, ma servono persone che non abbiano paura di fare la cosa giusta. Io sabato 21 luglio avrei bruciato tutta la città. Mi fermai di fronte a decine di miei amici e compagni con cui avrei dovuto venire alle mani per fare quello che ritenevo giusto. Sbagliai. Altri non sbagliarono. Perché di fronte all’assalto alla nostra libertà di quei giorni e dei giorni che sono seguiti da allora, quello che fecero è ancora troppo poco, ma ne possono certamente andare orgoliosi (magari in nicaragua, eh? 🙂
Ho usato esempi estremi, ma ci sono milioni di situazioni quotidiane in cui chiunque di noi può essere un militante della propria statura etica. Non si può più aspettare e osservare il crinale. Bisogna calpestarlo, attraversarlo, cavalcarlo, viverlo. Il versante dei cattivi. Il versante dei giusti.

 

Quel che resta del giorno

4 Settembre 2009 1 commento

 

 

 

In un calcio fatto di troppi soldi, di maroni e tessere dei tifosi, di gente senza meriti che apre la bocca senza che nessuno abbia la decenza di dire nulla, di maneggi e magheggi, di poco cuore e troppo portafoglio, in un epoca fatta di poco orgoglio e nessuna dignità, quello che più ci manca sono gli eroi, i miti, o forse le persone che avevano il coraggio di essere uomini e donne.