Il nuovo libro dei Wu Ming – Altai – è il sequel (volevo scrivere postquel, ma poi ho pensato di fare la persona seria) di Q. Sequel in termini di contesto storico, di personaggi e anche di tematiche: la rivolta, il ruolo degli eroi e degli antieroi, la guerra e la libertà, e quanto costano. Avviso i naviganti che la mia recensione se ne sbatte di spoiler e anticipazioni, per cui leggetela DOPO aver letto il libro, se non vi piace sapere come finiscono le storie.
Altai si presta a una duplice lettura (non ho ancora deciso quale mi convince di più) e anche a una duplice interpretazione della conclusione. Le letture si dipartono dai due personaggi fondamentali del romanzo (non gli unici, ma quelli che per me sono la chiave della trama, senza per questo togliere valore simbolico ad altre figure): Ismail alias Gert dal Pozzo e Manuel Cardoso De Zante alias Altai.
Da un lato l’anziano rivoluzionario, l’"errante per scelta, che per tutta la vita i potenti ha cercato di abbatterli", il "fiume che evapora e diventa nuvola, per scavalcare il deserto e piovere sui monti." Rappresenta ciò che è stato, la saggezza dell’esperienza, di chi il prezzo l’ha già pagato e ne ha conosciuto l’amarezza, in grado di riassumere in una frase apodittica ciò che è stato, è e sarà: "Volevamo giustizia. E una ragione per vivere e morire." L’epitaffio che chiunque abbia un animo desideroso di cambiare il mondo vorrebbe sulla propria tomba è la storia della vita di Gert. Ed è la storia di Q. Riassunta dagli autori stessi.
Dall’altro il giovane idealista, rinato a una nuova vita dopo aver negato se stesso, i propri ideali e la propria personale epica, il ribelle che trova una causa e un maestro (forse più di uno considerato Ismail): "Nessuno di loro credeva in lui. [in Yossef Nasi, nda] Eppure migliaia di ebrei gli dovevano la vita. Eppure io ero lì a dimostrare che era possibile cambiare tutto. Bastava volerlo e con l’aiuto del Signore le cose potevano essere capovolte, il caos cancellato, l’equilibrio ripristinato. Tikkun olam. Così lo aveva definito Nasi. Aggiustare il mondo, sanare la ferita che il nostro popolo si portava dietro da millecinquecento anni, così come aveva rimarginato la mia piaga, nascosta per metà della vita." L’idealismo un po’ naif, un po’ ingenuo e per questo vagamente massimalista, privato in un certo senso di profondità di fronte all’entusiasmo, e che si scontra con il cinismo un po’ saturo e un po’ saggio di Gert.
Manuel Cardoso è Altai: "Altai […] è il nome di questa stirpe meticcia. […] E’ un falco molto robusto, fedele, facile da addestrare. Non occorre fare nulla con un altai, e un buon falconiere fa il meno possibile. E’ la natura del falco che lo spinge in volo e gli fa conficcare gli artigli sulla preda. Se vuoi che lo faccia per te, devi solo mostrargli qual è il suo vantaggio." Una creatura fedele all’idea che si fabbrica per lui, in grado di seguire il suo istinto eroico e martire, fino alla sua ultima conseguenza: la morte, la violenza cieca, la barbarie. Di fronte alla quale il velo si strappa per rivelare la realtà della storia. Un perfetto strumento del potere.
Allora Altai (il romanzo) si presta a una prima lettura spinoziana: ogni volta che muore un eroe, che un’idea vince o perde o si trasforma, che muore un’occasione di rivolta, ciò che ne rimane rinasce in un nuovo movimento, in un nuovo afflato di speranza. La storia è un continuo divenire ciclico di eventi, di epica, di eroi. Ed è per questo che non dobbiamo mai pensare che sia finita, che ogni istante è un nuovo inizio da giocarsi fino in fondo.
Anche se il ciclo è "d-evolutivo", se ogni generazione di battaglieri sembra sempre meno densa di quella precedente, sempre più bassa nelle proprie aspettative e possibilità, come se la volontà fosse un bene consumabile, che si assottiglia insurrezione dopo insurrezione. E non è detto che sia così. E’ il ciclo che ricomincia con il ritorno finale di Ismail/Gert a Mockha per un nuovo terreno di battaglie da coltivare, per nuovi popoli da aizzare, per cercare un nuovo territorio da colonizzare con l’idea di libertà.
Questa lettura mi sembrava molto precisa in una prima fase del romanzo, ma sul finire del romanzo mi si è presentata una seconda chiave, più tradizionale forse, e sicuramente parziale (ma d’altronde ogni lettura è parziale): Altai come dialettica dell’epica, con Q come tesi, il presente romanzo come antitesi e noi, sì proprio noi, quello che viviamo e che facciamo, come sintesi. Schematico forse, ma interessante. Ismail come la tesi di rivoluzioni con grandi aspirazioni e capaci di giocarsi la partita fino in fondo, fino a pagare il dazio greve di chi ci prova senza risparmiarsi neanche un grammo di coraggio e di volontà, nonostante la fine tragica.
Ismail risponde proprio a Manuel:
"- Mi avete parlato di quel che avete perso. Cosa vi resta?
– Soltanto loro".
E ancora:
"- Machiavelli ha scritto che bisogna guardare il fine, non i mezzi.
– Sì, anche Yossef me lo ha ripetuto spesso. Con gli anni, ho invece imparato che i mezzi cambiano il fine."
Le risposte amare di chi ha scommesso tutto sulla libertà e ha perso, ma sapendo di fare quello che riteneva giusto e che poteva cambiare il senso della propria vita e di quella di coloro che lo circondano. Risposte che sembrano un po’ quelle che molti di noi che hanno vissuto gli ultimi dieci anni di movimenti stanno elaborando, incapaci di trovare una strada per cui valga la pena ancora mettersi in gioco. Strada che forse Gert trova (e sicuramente i Wu Ming individuano, considerato i loro commenti a questa mia recensione 🙂 A cui fanno da controcanto le parole dell’antitesi Manuel Cardoso, un fedele servitore di un ideale altrui.
"- […] Solcare il mare è come attraversare il deserto. Sono spazi liberi, aperti a mille possibilità.
– Eppure senza un approdo non si farebbe che andare alla deriva."
La storia è una deriva? Oppure ha un fine? E se ce l’ha chi lo decide? L’epica è la definizione della finalità di (una) storia? O è il canto di come si attraversa una storia alla deriva? Gli eroi sono coloro che cercano di costruire una strada laddove nessuno sa dove andare, di sostituire alla deriva una rotta. Allora la tesi Ismail/Gert e l’antitesi Manuel/Altai si scontrano di fronte alla morte dell’ideale altrui che Manuel ha inseguito e che Ismail ha accettato di correggere: di nuovo sangue, violenza, il tradimento di ogni rotta e di ogni desiderio di giustizia di fronte alla realtà degli esseri umani. E la reazione è differente: Gert torna a se stesso, a ciò che gli è rimasto, a ciò che spera, lasciandosi alle spalle la propria storia e sperando che essa possa insegnare ad altri dove ha sbagliato; Manuel affronta prima il proprio mentore e poi il proprio destino, tragico e mesto, senza onore e senza gloria, come di tutti coloro che hanno vissuto l’ideale di qualcun altro, la sua libertà, la sua giustizia. Quella del potere.
"- Sono queste le fondamenta della nuova Sion? Strage, tortura, infamia? Un giorno dicesti che volevi riparare il mondo, e non mi aspettavo certo che fosse una sutura indolore. Ma ora la piaga è più vasta di prima, e infetta, e non vedo quale cura la potrebbe sanare.
– […] Non vi è regno che non nasca dal sangue dei vinti […]
– […] Almeno i nostri padri presero la terra da soli. Sapevano quello che facevano, e ressero il peso delle morti sulle proprie spalle. Noi abbiamo massacrato per tramite dei giannizzeri, incuranti del male che ne sarebbe venuto."
Gli eroi dei Wu Ming sono morti, sconfitti, vituperati, vinti. Ismail/Gert come molti di noi si rintana in quello che gli è rimasto, convinto che le sue carte siano state giocate e non siano bastate, avvolto dai brandelli della propria volontà, struggente e romantico, ma al termine della sua storia. O forse ripiega su se stesso cercando un altro luogo, un altro tempo, un altro modo di continuare a combattere. Manuel fino in fondo al servizio di una battaglia altrui, intriso di una volontà fotocopiata fino a quando la realtà non lo risveglia con la sua truculenza, abdica la propria esistenza convinto di dover pagare questa sua unica colpa, quella di non aver saputo scegliere, gettando via i dadi per lungo tempo tenuti nelle tasche della giacca come simbolo del caso che menava le sue membra a destra e a manca.
Quello che rimane siamo noi. O forse voi (io mi sento più Gert), altri, ancora convinti che ci sia spazio per combattere e per crederci, sapendo che ogni battaglia ha i suoi prezzi, ma che spesso valgono la pena di essere pagati se il risultato è un epica e una storia che possa essere raccontata. Quello che rimane è piantare dei semi e cercare un nuovo terreno dove costruire la battaglia per una realtà migliore. Nuove possibilità di fronte a un gioco – quello del potere – che è sempre lo stesso e che finisce sempre allo stesso modo. Sapendo che la battaglia sarà ancora una volta e sempre più dura.
Solo così il crepuscolo degli eroi non sarà anche il crepuscolo dell’epica, un preludio alla fine di ogni speranza. Ma solo un nuovo inizio.
"La libertà, invece, non rimane mai la stessa, cambia a seconda della caccia. E se addestrate dei cani a catturarla per voi, è facile che vi riportino una libertà da cani."
PS: non l’ho scritto perché ho una lievissima tendenza a vedere il politico che c’è in ogni cosa, ma l’aspetto testuale dell’opera dei Wu Ming è veramente arrivata ad un livello elevatissimo: scelta delle parole, elaborazione sul linguaggio (il lavoro sul giudesmo è fantastico), la contestualizzazione e l’affresco storico, la caratterizzazione dei personaggi, tutto verametne di altissimo spessore letterario. In conclusione spero che le note "critiche" nella mia recensione non vengano confuse con una diminuzione della stima che provo per l’opera dei soci bolognesi (e non) che rimane elevatissima. Consigliato vivamente a tutti 🙂