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Archivio per la categoria ‘storia e memoria’

Prime impressioni su Manituana

24 Marzo 2007 8 commenti

 

Ho appena terminato di leggere l'ultimo libro di Wu Ming, Manituana. Il libro è molto bello, molto ben scritto. Sembra essere destino che io incontri sulla mia strada in questo periodo narrazioni di miti senza epica, ordinarie storie di trasformazioni epocali, straordinari racconti sugli esseri umani.

Manituana parla della fondazione della cultura americana, del suo primo vagito, la rivoluzione di indipendenza, e di ciò che ha significato per tutto quello che il continente americano era stato prima di quell'evento. Manituana vuole essere una storia contro la storia, ma ho la sensazione che invece sia una storia sulla storia.

Wu Ming sono esperti: colpiscono duro subito, in modo da portarti nel territorio inesplorato del racconto, dell'immedesimazione nei personaggi e nei loro antagonisti. Non penso di essere un soggetto a digiuno di versioni culturalmente poco diffuse della storia del mondo, ma devo dire che l'incipit del romanzo ha colpito anche me.

Siamo abituati ad associare profondamente la rivoluzione d'indipendenza americana con la rivoluzione francese, a collegarle all'idea di una rivoluzione contro la tirannia monarchica e per l'avvento degli uomini liberi. Ritrovarti al centro di una storia che riporta questa visione propagandata con forza da anni e anni di studio della storia classico nelle scuole italiane, sui giornali, nella nostra cultura "mainstream", a quello che è, ovverosia una storia di guerra, di culture che scompaiono, di uomini che distruggono quello che temono o quello che bramano, è uno shock culturale abbastanza forte da strapparti dalla tua quotidianità e calarti nella narrazione.

Mentre leggi Manituana senti le tue abitudini culturali che si tendono, cercando di ricondurre il racconto che stai leggendo agli schemi a cui sei abituato, fino a che ti rendi conto che quello che stai assaporando non è nient'altro che qualcosa di più autentico della storia dei libri di tutta la tua infanzia. Manituana è una storia sulla storia, su come plasma la nostra cultura, la nostra visione di quello che è stato e di quello che non è stato, dei buoni e dei cattivi, di ciò che difendiamo e di ciò che condanniamo. Per me Manituana è stato un viaggio tra gli uomini, per scoprire quello che conosciamo già: che la guerra non ha un volto umano, che il sangue non dimentica, che gli uomini sono creature abiette ed egoiste, ma allo stesso tempo capaci di sogni incredibili.

L'unico rischio nell'attraversare una storia come Manituana è perdersi nella nostalgia di ciò che si è perso, in un languido esistenzialismo che ha già fatto troppe vittime tra chi si mette in gioco e tra chi vi rinuncia ancora prima di provarci. Ma se il romanzo è una storia sulla storia, la sua lettura è un percorso di formazione, di godimento del presente e di determinazione a lottare per un futuro che sia diverso da quello già designato dai nostri libri delle superiori.

 

Adesso devo solo aspettare il 19 aprile per fare i complimenti a Roberto di persona. Sperando che come mi ha promesso abbia letto il libro e mi faccia una recensione meno lusinghiera ma altrettanto onesta di questa :))))

Per il resto invito tutti a leggere il libro e ci penso ancora un po'. Anche se come al solito dal confronto nascono le discussioni più interessanti sul significato delle cose, libri inclusi.

 

 

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Napolitano e gli effetti positivi del suo embolo

13 Febbraio 2007 Commenti chiusi

 

Sarò breve, che già molti ne commentano: è evidente che il suo nuovo ruolo ha causato un embolo abbastanza grave al Presidente Napolitano. Il Migliorista infatti non è noto per le sue posizioni rivoluzionarie, ma da un vecchio comunista come lui mi sarei aspettato qualcosa di meglio che una posizione talmente assecondante le voglie revisioniste che tanto vanno per la maggiore nel nostro paese e non solo (non penso che serva citare Dell'Utri e la sua commozione per i diari del duce… e meno male che anche sulla Gazzetta lo stigmatizzano 🙁

Tutto sommato però un effetto positivo le uscite di Napolitano ce l'hanno: no, non quello di rafforzare gli estremismi nazionalisti in croazia, che non ne hanno bisogno, ma di risvegliare un tot di intelligenze che riprendono parola per ricordare la Resistenza, quello che è accaduto appena 50 anni fa, e perché i morti non sono tutti uguali, né le guerre civili un comodo paragrafo in libri di storia obsoleti. Da questo punto di vista va dato merito a Carmillaonline di pubblicare parecchie cose interessanti e, anche nel passato, per nulla scontate. Forse più persone dovrebbero leggerle e farle leggere in giro. 

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Il cielo di piazzale Loreto

29 Gennaio 2007 Commenti chiusi

Milano è una città a pianta circolare, come molte città che hanno attraversato il medioevo. Orientarsi a Milano non è difficile, basta capire quali sono gli anelli che la circondano dividendola in strati, e quali le direttrici di fuga dal centro verso la periferia, omonime ai cunei che riversano nella città tutto ciò che le circola attorno.

Corso Buenos Aires è una di queste direttrici: taglia la città a partire da piazza San Babila dritto fino a Sesto San Giovanni, una specie di lama che collega ironicamento la ex Stalingrado d'Italia, le sue fabbriche vuote da decenni, i suoi stabilimenti che sono stati fonte di tubi innocenti per decine di occupazioni e di nascondiglio per centinaia di persone e migranti, con il centro nevralgico del pensiero economico italiano, nei pressi del quale si aggira anche la giustamente vituperata sede di Confindustria.

La storia di corso Buenos Aires (un tempo Corso Loreto) è abbastanza lunga, e data almeno dall'inizio dell'800, quando era il viale di arrivo delle personalità dalle zone orientali italiane, che entravano a Milano attraverso la Porta Orientale (già Porta Venezia). Piazzale Loreto fino alla metà dell'Ottocento non è niente di più di uno svincolo autostradale (fatte le debite proporzioni) e si chiamerà Rondò Loreto fino al 1904 (identificando più che altro le poche case intorno allo svincolo stesso). Nel 1904 assume il nome che porta tuttora (nonostante le simpaticissime proposte di Zecchi di rinominarlo Piazza della Concordia, con dubbio gusto storico), ed è per il primo novecento il teatro di partenza della manifestazione sportiva più importante d'Italia, il Giro d'Italia. L'evento per cui è più noto è l'esposizione al pubblico ludibrio del cadavere di Benito Mussolini e di Claretta Petacci, insultato e deriso dalla folla per giorni prima al suolo e poi a testa in giù da un traliccio di una pompa di benzina dopo la sua morte fino alla sepoltura. Un evento barbaro che ha risposto alla barbarie che il Duce ha prodotto e coltivato nel nostro paese, per il quale non si vede la necessità né di pentimento nè di riappacificazione, con buona pace dell'esteta Zecchi e della sua concordia. Ovviamente nessuno ricorda che il suo cadavere fu esposto lì dal colonnello Valerio o chi per lui in ricordo della strage di Piazzale Loreto, una rappresaglia contro i partigiani per cui nessuno è mai stato né punito né particolarmente biasimato.

Milano è una città difficile, ma al contrario di molte altre capitali europee non perdi mai di vista il cielo, una distesa che più spesso ti ricorda tutto ciò che è accaduto sotto di essa, piuttosto che darti quella sensazione di libertà che l'atmosfera terrestre è abituata a garantirti in luoghi meno feroci della metropoli.

Il cielo sopra piazzale Loreto è una specie di indicatore della vita quotidiana della città: non è il cielo del centro, o quello abbandonato durante il giorno e nascosto durante la notte dei quartieri dormitorio, ma il cielo che osserva l'affannarsi quotidiano di una città sempre troppo indaffarata per cogliersi, o a volte talmente concentrata nel pensare da non riuscire a muoversi.

 


 

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Enter Fernando

Piazzale Loreto.
La parola di Milano è grigio.
Il cielo è una distesa non uniforme: dal pallore del cielo quasi bianco verso via Costa, in direzione nord-nordest, fino al grigio scuro delle nubi cariche di pioggia che evaporerà o si trasformerà in pasta grigiastra prima di toccare il suolo nella zona centrale, in lontananza verso sud.
Il piazzale è teatro di un costante carosello di macchine, clacson, insulti, infrazioni.

Doveva essere un luogo più divertente cinquanta o sessanta anni fa, quando al posto delle macchine c’era una ressa di persone che finalmente si gettava alle
spalle vent’anni di merda e violenza.
Milano sembra non cambiare mai: ti accorgi che è estate da un lieve mutamento della temperatura. Appena la conosci pensi che sia una città piatta nel suo grigiore umano, oltre che visivo, uditivo, sensitivo. Poi ti rendi conto che Milano può raccontarti qualcosa a ogni angolo, a ogni svolta del tuo senso di marcia, e spesso anche indipendentemente dalla tua voglia di restare fermo e immobile, in pace con il resto del mondo che ti circonda.

È solo dopo questa fase che capisci che Milano è come una specie di magma che continua a travolgerti.

Fernando cammina lentamente e senza fretta lungo il marciapiede di via Porpora. La giacca scura ordinata e pulita, la camicia bianca dal taglio anomalo, simile a una T-shirt, il pantalone elegante e le scarpe lucidate di fino. Dalle maniche della giacca spuntano due mani che non vanno per il sottile: le dita corte e arrotondate sulla punta, ruvide, si inseriscono su palmi ampi e solidi, segnati dal tempo e dalla fatica. Delle mani che riducono rapidamente a zero ogni discussione.
Il collo largo e muscoloso è proporzionato al suo fisico massiccio, non troppo alto, e sostiene una testa squadrata e accuratamente sbarbata. Fino ad arrivare ai capelli grigi ben tenuti e corti, e al cappello a tesa larga scuro calato in testa nei periodi più freddi dell’anno. Ogni particolare di Fernando parla
di un uomo che tende a non tergiversare e a concludere in fretta ogni questione.
Oggi non fa freddo. Il viso rugoso e invecchiato di Fernando cerca di raccogliere nei canyon della pelle ogni alito di vento che allevi la caligine milanese.Arriva fino al piazzale e si ferma a osservare le nubi che si addensano su Isola e sulla Centrale, rendendosi conto, grugnendo, che non ha né ombrello né impermeabile, e che se piove sarà costretto a comprare un trabiccolo da dieci euro da qualche cazzo di immigrato che magicamente comparirà al primo angolo di strada dopo dieci gocce.
Qualche volta gli è venuto il sospetto che si nascondano in ogni tombino pronti a scattare con i loro ombrelli e le loro facce allenate a ispirare compassione nelle vecchiette e in una manica di rincoglioniti. Altre volte che siano proprio loro a evocare la pioggia con una qualche cazzo di stregoneria sciamanica
ereditata dal paese d’origine. Quasi sempre, quando si sofferma a pensarci, si rende conto che, con tutta probabilità, alla prima nuvola questo esercito di disperati si scapicolla su e giù per Milano per farsi strozzinare una fornitura di ombrelli che non riuscirà a vendere e che gli renderà la vita solo più miserabile. Non riesce proprio a capire perché lo facciano.
D’altronde, un motivo c’è se lui fa il lavoro che fa e loro fanno i vu cumprà o i lavavetri, si ritrova a concludere, mentre guarda le macchine attraversare
il piazzale.
Scosta leggermente la giacca dalle tasche dei pantaloni e ci infila le grosse mani per tirarne fuori una sigaretta senza estrarre il pacchetto. L’accende aspirando a lungo.
“In questa città del cazzo non si ammazzano mai” pensa quasi ad alta voce. Scazzano, trafficano, spacciano, si menano, sbraitano, ma non si ammazzano se non
per una coltellata o un colpo di fucile partito quasi per sbaglio. Nessuno cerca mai qualcuno per ammazzare qualcun altro.
Non lo fanno i delinquenti della periferia, non lo fanno i ricchi annoiati, non lo fanno neanche gli sbirri.
Che città di merda per fare il sicario…
L’unica città in cui con un mestiere così sei praticamente un disoccupato in pianta stabile. “Le mie solite idee del cazzo.”
Fernando prende un’altra boccata dalla sigaretta e si avvia lungo corso Buenos Aires senza una meta precisa. È ancora all’altezza della Feltrinelli, che lui
si ostina a chiamare Ricordi, come tutti l’hanno chiamata per almeno una decina d’anni prima che diventasse una libreria con un’immagine di sinistra, quando
squilla il cellulare.
Lavoro, spera. E per una volta tanto il suo intuito non lo delude.

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Voltaire, il pensiero unico, il revisionismo e il reato di opinione

26 Gennaio 2007 1 commento

 

In questi giorni in occasione dell'imminente arrivo della Giornata della Memoria (arrivo imminente tutti gli anni in ogni caso, trattandosi di scadenza annuale) il Governo vara l'ennesima manovra diversiva, come ormai fa per consuetudine dall'inizio della legislatura, presentando sul piatto sempre due o più progetti per volta, uno dei quali ad alta risonanza mediatica, mirato a distogliere l'attenzione dalle misure economiche degli altri. In questi giorni il tema specchietto però, al contrario che in precendenti occasioni, vale la pena di una discussione. E non perché commentare sui progetti di allargamento della base di Sigonella (oltre che quella in quel di Vicenza) che strappano a Parisi la inquietante affermazione secondo la quale la costruzione di case per i propri soldati fa parte del pieno e legittimo operare della forza americana in territorio italiano (cioé questi possono costruire case dove cazzo gli pare?), oppure sulla nomina di Pollari a consigliere di Stato (dopo tutto il macello estivo orchestrato non si sa ancora bene da chi e per quali fini e per colpire chi…), o ancora sulle liberalizzazioni o sul problema del sistema scolastico italiano ormai preda del ridicolo, non siano argomenti interessanti, ma perché  il DDL Mastella è l'occasione da un lato per parlare di storia e dell'approccio mistificatore nei confronti della stess, e dall'altro per parlare di un problema lievemente inquietante come quello del reato di opinione.

Il DDL Mastella al momento in discussione è partito da un favore esplicito per accattivarsi la comunità ebraica da parte della sinistra al Governo: condannare ogni tesi negazionista dell'Olocausto. Lungo l'iter nel consiglio dei ministri la cosiddetta sinistra massimalista (termine che un po' mi lascia perplesso considerato che si parla di MINISTRI, però in Italia abbiamo avuto anceh Castelli e Gasparri ministri, per cui in effetti forse non dovrei stupirmi) ha ottenuto di trasformarlo in una norma che "santifica" la Resistenza e condanna ogni forma di nazifascismo come un reato. 

La destra grida allo scandalo, perché le simpatie della comunità ebraica in Italia fanno comodo a tutti, ma la Resistenza rimane ancora inspiegabilmente un tabù per buona parte della Destra (tanto che siamo costretti a sentire i triti e ritriti argomenti circa le "stragi" che i partigiani hanno fatto degli "anticomuisti", le manfrine sulle foibe e via dicendo).

Ora si pongono diversi problemi: il primo problema riguarda la necessità di un'ulteriore legge quando la Costituzione già prevede che i rigurgiti neofascisti siano di fatto perseguibili. Ora viene spontaneo chiedersi perché si tollerino e finanzino i progetti neofascisti in mezza italia, accettandoli addirittura nella coalizione che avrebbe potuto governare (Fiamma Tricolore nella casa delle libertà alle ultime elezioni), e poi si faccia tutto questo can can in consiglio dei ministri. La cosa puzza più del necessario, e infatti personalmente penso che dietro al DDL ci sia oltre a una manovra "captatio benevolentiae" verso la comunità ebraica, un certo livello di incuccio economico (infatti il DDL prevede nel suo ultimo punto l'eliminazione dei limiti di reddito per i rifugiati politici…. mhhhhh) e soprattutto un'operazione più vasta di intervento nel campo del reato di opinione, da tempo ormai più pericoloso di qualsiasi reato di criminalità ordinaria per governi e stati basati sempre di più non solo sullo spettacolo (questo ya fue) ma sulla materiale manipolazione dell'opinione comune come esercito silenzioso.

Ovviamente sarebbe veramente fuori luogo che io mi dichiarassi improvvisamente voltairiano (non lo sono MAI stato, neanche nel senso buono) e continuo a pensare che la giusta risposta nei confronti di nazifascismo e razzismo sia il contrasto attivo e senza mediazione, ma rimango perplesso rispetto all'assenza di dibattito circa l'introduzione del reato di opinione in senso penale in una forma così plateale. Traduciamo: la Resistenza è un valore indiscutibile e il fatto che FI e compagnia varia si sbracci così mi fa sorridere di un ghigno soddisfatto, perché da un lato espone la sua base cripto revisionista e benpensante, e dall'altro significa che la destra è abbastanza infastidita da questa "riabilitazione" della storia italiana, con tutto il lavoro che hanno fatto negli scorsi anni per demolirla. D'altro canto però la possibilità che questa moda di giudicare quello che dico come una possibile fonte di reato sia quantomeno pericoloso: anche perché non è difficile ricordare come un qualsiasi attacco politico a Israele sia stato bollato come antisemita (ultimo anche Il Migliorista che ha dichiarato "No all'antisemitismo anche quando camuffato da antisionismo"), piuttosto che ogni sostegno a cose ritenute moralmente (non eticamente) riprovevoli sia stato equiparato a una sorta di favoreggiamento. 

La posizione scomoda in cui rischiamo di trovarci è quella di dover fare una campagna sulla libertà di espressione sulla possibilità dei nazifascisti di dire che l'olocausto non è mai esistito, per poter poi intervenire e spazzarli dalla faccia della terra. Una posizione interessante per fare polemica ma abbastanza difficile da sostenere. Forse se le sinistre italiane fossero state capace da più tempo di difendere non solo politicamente ma anche culturalmente i valori e la storia della Resistenza, oggi non sarebbero costretti a questa mossa di immagine con implicazioni abbastanza preoccupanti dal punto di vista della restrizione della libertà di espressione per tutti. Come al solito in ritardo, come al solito inadeguatamente, come al solito senza alcuna prospettiva se non quella del contentino qui, contentino lì.

 

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Finestra di attenzione, cronologia, storia

25 Gennaio 2007 Commenti chiusi

Esiste parecchia discussione in merito all'effetto del digitale sulla dimensione dell'attenzione, del racconto, della capacità di interazione con l'informazione. VirtualEconomics, in controtendenza, cerca di argomentare come l'arrivo della larga banda nelle tecnologie di comunicazione abbia influito sulla nostra capacità di focalizzazione dell'attenzione ampliandola, ovvero facendo passare la percezione del mondo da una dimensione episodica a  una dimensione complessa e più continua.

Io a dire il vero è parecchio tempo che rifletto su questo aspetto del moderno, e l'argomentazione del sito americano mi sembrano un po' una funambolica arrampicata sugli specchi. La mia sensazione, basata in primo luogo sul mio modo di percepire le cose, è che l'uomo moderno, l'uomo tecnologico abbia assolutamente perso la capacità di percepire la densità nella sua forma più immediata e irrazionale, che non abbia più la capacità di cogliere se non il particolare, il minuto. La parcellizzazione, la molecolarizzazione di quanto ci viene presentato ai sensi come la realtà, ci ha resi inabili di fronte al generale, al sublime di romantica memoria.

Questa dimensione ha aspetti interessanti, ma anche risvolti terribili: se da un lato ci offre una possibilità di interconnessione tra i quanti di realtà che fino sarebbe stato difficile immaginare anche solo vent'anni fa, una minuziosa capacità di controllo degli aspetti della nostra percezione e rappresentazione, dall'altro sottrae ai nostri tempi la capacità di essere epoca, di essere storia nel senso più monumentale e sociale del termine. Non siamo in grado di immaginare la storia, di raccontarla, a fronte di una immane capacità di rappresentare la cronologia degli eventi.

La differenza tra il moderno digitale e l'epoca predigitale sta tutta qui: nella capacità di rappresentare gli eventi in un grosso affresco complesso di fronte alla possibilità di raccontarne il più piccolo dettaglio senza essere in grado di veicolare quegli aspetti non quantitativi che esercitano il fascino.

 

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Categorie:storia e memoria Tag:

Cartografie milanesi (1300-1860)

10 Dicembre 2006 1 commento

 

In una delle librerie del centro dove affluiscono le rese di mezzo mondo, una sorta di remainder che non usa il nome remainder perché la sua reputazione ne risentirebbe, si possono trovare oltre ai peggiori libri di narrativa, molti libri di immagini: le collezioni fotografiche, i libri d'arte, i libri di ricette, e a volte qualche libro un po' curioso. Nel mio caso: un libro di mappe storiche di Milano. 

Non è sicuramente il più completo che ci sia in circolazione, ma ne ospita alcune ben fatte anche se il livello di riproduzione e la qualità della carta è abbastanza infima. Il vantaggio che ha è quello di non costare molto e quindi di poter essere felicemente storpiato per poter scansionare un po' di materiali.

Molte di queste cartine vi saranno d'aiuto nel navigare Rapsodia Monocromatica 🙂

Il tour comincia da una mappa dello sviluppo di Milano tra il III secolo a.C. e il XIII d.C.: il grosso vantaggio di questa mappa è la presenza di tutte le successive cinte murarie e quindi una visione abbastanza chiara di quelli che sono stati i confini ufficiali della città almeno fino all'incorporazione dei Corpi Santi nel 1873.

carta_IIIac_XIIIdc.pdf

 

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Mappe, Timelines, e i modi per visualizzare la distanza tra le informazioni

14 Novembre 2006 Commenti chiusi

La capacità di mettere in relazione informazioni apparentemente distanti e di far emergere significati che altrimenti rimarrebbero celati nelle non ovvie nebbie del senso è una attività che da molta assuefazione e fortissima dipendenza. Il mondo è un coacervo di contatti spuri e di possibilità remote, la cui rappresentazione è tutt'altro che banale. La capacità umana di razionalizzare ciò che per tutti gli altri esseri viventi è totalmente intuitivo è allo stesso tempo una maledizione e una forma sottilissima di godimento intellettuale. Per questo ogni volta che mi imbatto in mappe e rappresentazioni sono capace di perdermi ore totalemente affascinato dalla loro potenza. 

C'è stato un periodo in cui si è lavorato anche concretamente per acquisire maggiori competenze e esperienza in questo campo, ma come per mille altre cose lo sforzo si è sfilacciato nelle altre novecento cose che si facevano contemporaneamente. I lavori fatti con bureau d'etudes e il tentativo di produrre un software che consentisse di disegnare una cartografia delle relazioni di potere rimangono una delle occasioni non approfondite che più mi spiace aver perso per strada.

Nel frattempo i GIS sono migliorati enormemente, altre persone si sono interessate alla cartografia, e sulla piazza sono arrivate implementazioni incredibili delle potenzialità della cartografia, che altro non è se non una forma grafica e altamente espressiva della ricerca. Forse nulla più di una mappa rende merito al concetto che spesso cerchiamo di raccontare su come la ricerca sia uno strumento che di fatto definisce una fetta di realtà: quando attraversate una mappa per capire che senso ha quello che state cercando in relazione al contesto e a quello che vi è collegato, vi rendete immediatamente conto che a seconda della mappa e di ciò che rappresenta, voi state conoscendo un mondo diverso. Il potere dell'informazione e della relazione non può essere rappresentato meglio di così.

Perchè oggi penso alle mappe? Perchè in tre blog diversi ne ho trovato tracce: Google Earth sta aggiungendo alla sua scorta di stratificazione cartografica anche mappe storiche, attraverso le quali confrontare le diverse rappresentazioni del mondo nel corso della storia, un esercizio tutt'altro che formale con cui comprendere alcuni pezzi di come e perché la storia è andata come è andata; Andart pubblica una mappa degli scienziati dell'informazione più noti e del loro contributo all'evoluzione tecnologica; Batelle linka a una nuova timeline delle acquisizioni da parte di grandi media company e computer houses, che questa volta mette a confronto Yahoo, Google e Microsoft, rivelando interessanti trend nel mercato mondiale legato all'elaborazione dell'informazione e alla finanza immateriale.

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Categorie:atlas, jet tech, storia e memoria Tag:

L’idra divisa

7 Novembre 2006 Commenti chiusi

Finalmente dopo un travagliato iter sono riuscito a finire il libro The Many-Headed Hydra di Peter Linebaugh e Marcus Rediker [edito in italiano da Feltrinelli], due storici e sociologi marxisti americani dalla prosa leggermente convoluta (spesso per eccesso di cose da dire più che per incapacità lessicale). Il libro attraversa quasi tre secoli (dagli inizi del '600 alla metà dell'800) lungo le sponde dell'Atlantico, cercando di analizzare le caratteristiche rivoluzionarie di vari fenomeni legati alla scoperta dell'Oceano che divide Europa e West Indies.

E' molto interessante come il XVII e XVIII secolo siano diventati un fulcor attorno al quale sono state prodotte moltissime parole, basti pensare al ciclo di System of the World di Stephenson e ai libri di Wu Ming in prossima uscita. Sono due secoli estremamente densi di cambiamenti, in cui il paradigma di tutta la realtà è mutato radicalmente: la scienza infinitesimale da un lato e la finanza e la prima globalizzazione dall'altra. In mezzo eresie, utopie, e le più grosse società alternative che la storia moderna abbia conosciuta (quella dei pirati per chi non avesse inteso il riferimento 🙂

La tesi del libro è abbastanza lineare, ma decisamente centrata nella percezione del mondo statunitense: tra il '600 e '700 si viene a creare un nuovo enorme mercato, quello a cavallo dell'Atlantico, che necessita una ridefinizione delle strutture del capitalismo in modo da consentire la stabilizzazione di questa prima forma di globalizzazione. Da un lato l'evoluzione della finanza, dall'altro la compressione delle possibilità di libertà offerte da questa nuova prospettiva di ricchezza. Un nuovo mercato ha bisogno di forza lavoro, di braccia le più abbruttite possibili che possano essere trasformate in soldi senza tanti compromessi. Il proletariato nasce in questo contesto, l'idra dalle molte teste che terrorizza l'ercole degli stati coloniali e mercantili è un soggetto variegato nella classe, nel colore della pelle, nelle aspettative, nella nazionalita', nella religione: in una parola, è la motley multitude, la moltitudine eterogenea.

Secondo gli autori, nel corso di due secoli si susseguono terreni di scontro tra l'attitudine di condivisione, democrazia e libertà della moltitudine e il volontà di sottomissione dei padroni. Prima i commons e la sottrazione dei terreni e dei beni comuni da parte degli stati coloniali ai danni di coloro che li hanno utilizzati insieme per secoli. Poi il dispositivo delle piantagioni, poi quello della nave, infine quello della fabbrica, vero culmine della riorganizzazione del capitalismo moderno industriale. A questi processi gli autori contrappongono le molte teste dell'idra eterogenea: la ribellione dei servi, le eresie antinomiane, il vagabondaggio e il brigantaggio metropolitano, il fenomeno della costituzione di pseudo stati protocomunitari come i maroons nelle isole caraibiche della prima metà del seicento; le rivolte degli schiavi e il processo che porta alla rivoluzione americana; lo Stato Marittimo e le sue regole totalmente separate dal governo di ciò che non sta per mare, che raggiunge il suo apice nella Pirateria e nelle sue forme egualitarie e crudeli di autogoverno; il luddismo, le battaglie abolizioniste, la rivoluzione francese e la comparsa del concetto dell'uguaglianza di tutti gli esseri umani (con eco biblica ripetuta a più riprese su un Dio che non guarda in faccia a nessuno [God is no respecter of persons]).

Fino a qui la lettura dei due autori mette in fila e sistematizza una serie di momenti di conflitto intenso e prolungato lungo l'arco di tre secoli in maniera estremamente densa e interessante. La visione americanocentrica si rivela nel punto in cui i due autori rilevano la sconfitta storica del proletariato, ovverosia nel momento in cui la battaglia della classe lavoratrice si separa dalle lotte razziali e coloniali. Secondo Rediker e Linebaugh il momento in cui la lotta dei neri e degli schiavi diventa un ramo diverso del conflitto rispetto alle più accettabili rivendicazioni degli operai bianchi, maschi, europei o cmq non indigeni, è il momento in cui inizia la sconfitta dell'idra multiforme. La lettura è evidentemente fortemente influenzata dalla realtà statuniteste, così densamente intrisa del problema della segregazione dei neri e delle minoranze etniche, un problema che emerge anche in Europa, ma con una forza sociale meno dirompente. Seppure è evidente che un attitudine egualitaria (come quella degli IWW) è una caratteristica fondamentale della costruizione di soggettività conflittuali che non si prestino al noto giochino del divide et impera, è altrettanto vero che le sconfitte dei movimenti proletari nella storia del mondo (e i loro successi) non possono essere semplicemente ricondotti a questa separazione, a questa sorta di peccato originario.

Certo gli esempi che citano gli autori nell'ultimo capitolo espongono perfettamente la tendenza umana alla divisione basata sull'interesse personale, che ha fatto sì che il capitalismo vincesse antropologicamente prima ancora che in altri campi: il trasformismo di Thomas Hardy e della L.C.S. da società alleata con il popolo di Sheffield che distrugge un enclosure e che solidarizza con le battaglie abolizioniste di Olaudah Equiano, a eminenza grigia dietro il Compromesso di Aprile nel quale il Parlamento inglese modificò all'ultimo minuto una presa di posizione contro lo schiavismo aggiungendo il termine graduale alla parola abolizione; la storia di C.F. Volney da autore di Ruins, or Meditations on the Revolutions of Empire, uno delle migliori satire sul potere e sul rapporto tra classi privilegiate e popolo, a teorico della White Supremacy cacciato dagli Stati Uniti per le posizioni troppo estreme; le parole di William Blake che passano dall'universalismo a una Gerusalemme inglese e libera.

Ma se leggere la storia dei conflitti di due secoli non è un esercizio di stile, le parole con cui è cominciata l'avventura poetica di Blake, la loro potenza espressiva e rivoluzionaria, rimangono un'esortazione che conoscere la storia non può che rafforzare: quella a cercare sempre e comunque la soggettività coraggiosa e crudele che porterà a cambiare qualcosa intorno a sé, spinta dal desiderio di una vita migliore e più degna, in sprezzo al guadagno e al vantaggio individualista.

Tiger, tiger, burning bright
In the forests of the night,
What immortal hand or eye
Could frame thy fearful symmetry?

In what distant deeps or skies
Burnt the fire of thine eyes?
On what wings dare he aspire?
What the hand dare seize the fire?

And what shoulder and what art
Could twist the sinews of thy heart?
And, when thy heart began to beat,
What dread hand and what dread feet?

What the hammer? what the chain?
In what furnace was thy brain?
What the anvil? what dread grasp
Dare its deadly terrors clasp?

When the stars threw down their spears,
And watered heaven with their tears,
Did He smile His work to see?
Did He who made the lamb make thee?

Tiger, tiger, burning bright
In the forests of the night,
What immortal hand or eye
Dare frame thy fearful symmetry?

Un ultima dedica di queste parole a chi vive ancora nel tabù morale e sociale della violenza, che ci circonda in ogni istante e in ogni luogo, ma che ci causa tanto scandalo e tanto desiderio di giudizio.

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Message in a bottle

3 Novembre 2006 Commenti chiusi

En passant leggo un articolo di Repubblica Online solleticante, se non altro perché fa il punto della situazione sul rapporto tra esseri umani, storia e futuro. La cosa che più mi ha stimolato è pensare che questo è uno dei temi del romanzo sci-fi che stavo abbozzando su blackswift, e che giace mezzo abbandonato da più di sei mesi. Forse è arrivato il momento di riprendere in mano Nullahop 🙂

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Crossways: wu ming, la negritudine del punk e le mie letture

2 Novembre 2006 Commenti chiusi

 

Oggi su carmillaonline e sul sito della wu ming foundation, wu ming 1 pubblica un bellissimo articolo sulla negritudine del punk rock, mettendo in mostra non solo il suo talento nello scrivere (di cui siamo da sempre invidiosi) ma anche la propria decisa propensione a integrare la storia, la cultura popolare e la politica (ah, vizioso!). Non ripesco i contenuti del pezzo di wm1, che va letto per intero, ma continuo a rilevare con curiosità la convergenza a distanza delle cose su cui sta lavorando la foundation e quelle su cui sto studiacchiando io. I primi punti dell'articolo infatti riassumono per sommi capi le basi della diffusione della danza e della musica nera nel contesto della diaspora africana del '600 e '700, e sono certo che il nuovo libro degli autori di Q vedrà come centrale i conflitti in Nordamerica proprio nel corso del XVIII secolo, in cui le storie e le lotte di schiavi, marinai, protoproletari, deportati, nativi ed eretici (i vecchi amori non si scordano mai 🙂 si sono incrociate in un calderone esplosivo dalle potenzialità rivoluzionarie.

Io continuo lemme lemme la mia lettura di Redicker e del suo The Many Headed Hydra, che narra proprio di questi punti di incrocio e dei vettori del conflitto in quel secolo e in quel contesto. Il capitolo sulla rivolta del 1741 a New York, sembra scritta in parallelo con un brano dell'articolo di wm1. Casualità? Forse o forse no. Forse alcuni passaggi della storia moderna meno indagati e meno raccontati sono quelli che celano le possibilità più interessanti e la sensazione profonda che non ci siano mai stati tempi tranquilli per chi ci vuole male. Sorrido delle coincidenze che si palesano nella mia vita intellettuale e mi metto a camminare sul sentiero che mi fanno intravedere.

 

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