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Inter in Wonderland: antartide

21 Dicembre 2009 Commenti chiusi

 

 

 

Ho visto cose che voi umani non potreste nemmeno immaginare, ma suppongo siano state allucinazioni dovute all’alterato stato di coscienza che i -10 gradi centigradi dello stadio hanno consentito di raggiungere. Soprattutto, considerato che il mio cervello è ancora congelato, non ho modo di raccontarvele neanche se lo volessi. D’altronde commentare una partita così è difficile: viene solo da chiedersi chi è il genio che decide gli anticipi e i posticipi – lautamente stipendiato – selezionando con così mirevole sagacia le notturne a Nord di Napoli nei mesi invernali.
Il mio stato di latente congelamento non mi ha concesso di capire molto se non alcune cose basilari: c’era una squadra composta di 10 pinguini con maglia crociata e 1 pinguino grigio in porta; c’era una squadra composta da 10 pinguini blu scuro e 1 pinguino giallo in porta; il tutto era governato dal figlio di una zebra con un mantello giallo fosforescente. Ho dedotto quasi subito che tifavo per i pinguini con la croce rossa sul petto e ho gioito per il gol di quello di loro con la criniera.
Per il resto il Mago Pinguinho ha fatto il compiti e per l’ennesima partita il nostro lato dell’Antartide è sembrato totalmente in controllo del match. In effetti la botta di culo degli orobici al 43esimo mica può ripetersi ogni volta. E’ dai tempi dell’Inter dei record e di quella dell’inizio dell’anno successivo che non avevo la sensazione che gli avversari non potessero fare un cazzo di niente. La differenza con quell’Inter era che lì avevo anche la sensazione che avremmo fatto sempre e comunque gol strabordando. Qui questa seconda sensazione è più tenue, ho una minore percezione di potenza.
In ogni caso, in antartide, al giro di boa del 2009 era importante vincere, per andare ad affrontare la pausa senza stress e polemiche, concentrandosi su come migliorare ancora di più. Ci vediamo alla Befana, fate i bravi. Io provvederò appena riuscirò a riacquistare la piena facoltà di tutti i miei arti, orgoglioso di non essere mancato allo stadio nonostante il clima proibitivo e pronto a rinfacciarlo a tutti coloro che hanno mandato sugli spalti una sagoma di cartone al loro posto. Come vedete lo spirito natalizio mi pervade come sempre. 

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Microtelling: la Politica

18 Dicembre 2009 1 commento

 

Il cielo di milano oggi è una minaccia più che un elemento del paesaggio. Incombe grigio e piatto come un enorme palmo pronto a soggiogare chi abita sotto il suo dominio. Immoto, infinito, ineluttabile, reale.
Dopo il microblogging, a voi il microtelling.

La Politica
[quella con la p maiuscola che ha allontanato quasi tutti dalla gestione del comune e che nonostante questo ha così larga parte nel determinare le condizioni in cui viviamo]

Camminavo serenamente in mezzo alla strada, circondato da uomini e donne che si affannavano a rincorrere l’ultimo regalo di Natale. Faceva freddo ma non troppo, e i volti e i corpi erano celati da strati e strati di tessuto, lana, cotone, feltro, cashmire. All’improvviso vidi un movimento repentino e venni colpito: un sapore metallico mi riempì la bocca e uno strano calore si diffuse su tutto il mio viso. Caddi a terra, ma mi rialzai tamponandomi il volto con la manica e cominciai a correre. Corsi senza fermarmi gridando aiuto a squarciagola, sperando che questo facesse desistere il mio aggressore. Mi fermai solo dopo qualche centinaio di metri, quando mi resi conto che non mi inseguiva nessuno. Mi accasciai con la schiena appoggiata alla parete e composi il numero del 118 sul telefono. L’ambulanza arrivò in una mezzoretta e mi portò all’ospedale, lasciandomi dolorante in sala d’attesa. Dopo alcune ore un medico mi disse che non era nulla di grave, mi fece fare due lastre e mi ricucì alla bell’e meglio il labbro. Mi resi conto che avevo perso due denti. Quando uscii dall’ospedale era ormai notte fonda e tornai a casa, chiedendomi chi ce l’avesse con me così tanto da aggredirmi a quel modo. Non trovai risposta e non ne trovai neanche nei giorni e nei mesi successivi, ma mi ritrovai a dover vincere il disagio di camminare spensierato in mezzo alla folla. Ancora oggi non sono riuscito a ritrovare la sensazione splendida che mi dava passeggiare tra la gente osservandola.

-*-*-*


Si destreggiava alla meglio tra la folla, attorniato da guardiaspalle enormi e da mani festanti che lo cercavano come un messia. In sottofondo qualche urlo di contestazione e qualche fischio. Nelle orecchie ancora le parole efficaci della sua ultima arringa contro "la violenza". Sorrise tra sé e sé. Stringeva mani, firmava autografi, sorrideva. Improvvisamente il colpo: un sapore metallico gli riempì la bocca e uno strano calore si diffuse su tutto il suo viso. Cadde nelle braccia dei suoi sostenitori, che lo spinsero istintivamente all’interno dell’auto blindata. Fu un istante. Tolse il cencio con cui gli stavano coprendo il volto e salì sul predellino dell’auto, mostrandosi alla folla: ferito, sanguinante, lo sguardo furente e fiero. Poi rientrò nell’auto e diede ordine di portarlo al San Raffaele, preavvisando chi di dovere. All’ospedale venne portato immediatamente a fare ogni tipo di accertamento e gli venne messa a disposizione un’intera ala della struttura per riposare almeno qualche giorno. Mentre veniva medicato e ricucito così da lasciare un segno appena percettibile tra la guancia e il labbro, pensò al da farsi. Nei successivi tre giorni, lontano dai riflettori, fece solo poche cose, ma necessarie, per ottenere il massimo risultato con il minimo sforzo: prese appuntamento dal dentista, dato che aveva perso due denti, ma non dal chirurgo estetico; lasciò che i suoi amici puntassero tutte le armi che avevano sui suoi nemici, si dia fuoco alle polveri; diede mandato ai suoi consulenti di aprire una azienda di import-export di souvenir del duomo, il mercato ne avrebbe avuto bisogno. Quando dopo tre giorni uscì dall’ospedale, mostrandosi ai suoi fedeli e fedelissimi, disse solo una frase: "l’amore vincerà". E anche io, pensò sorridendo sotto la medicazione. Poi ordinò all’autista di portarlo a casa, dove sarebbe rimasto a riposto fino al giorno dopo la tradizionale conferenza stampa con i giornalisti che diversamente sarebbe stato obbligato a fare. Due piccioni, e anche di più, con una fava.
 

La Coppa dei Cachi: palcoscenici e cinghiali

17 Dicembre 2009 Commenti chiusi

 

Era una notte buia e tempestosa… come dite? Non c’era tempesta? E’ vero, non c’era tempesta, ma vi assicuro che stasera al Meazza per gli ottavi di finale della Coppa dei Cachi faceva un freddo letale. Ma come si suol dire: mani fredde, cuore caldo, e così i 2000 spettatori che si sono accalcati a San Siro (di cui circa 3 paganti) hanno dimostrato di che pasta è fatto il vero tifoso. E’ anche vero che la Coppa che porta il nome del glorioso paese in cui viviamo meriterebbe palchi ben più rinomati di quello in cui si è giocato la partita… Che ne so, perché non giocare all’Arena Civica?

In ogni caso, intabarrati come omini Michelin (ooops, Pirelli) e surgelati come pinguini durante l’Era Glaciale, i coraggiosi che si sono presentati allo stadio e i pavidi che hanno seguito il match da casa, alla lettura della formazione hanno pensato di essere sul set di Ritorno al Futuro: le soluzioni con i giocatori scelti da Mourlino sono solo due, ed entrambe decisamente distopiche. Io al volo pronuncio la parola magica: stasera si gioca con il vianema, nella versione ungherese del 3-2-3-2.

Poi ci penso bene e penso che la crociata medievale di Mou non può tornare così indietro nel tempo: Calimero stasera gioca terzino sinistro, mossa controbilanciata dalla grande esperienza di Giulietto Mastino Donati all’esordio come terzino destro. Al centro della difesa l’Orco e Crystal reduce da alcune delle sue peggiori prestazioni di sempre. In mezzo al campo grande qualità ed esperienza: Barbalbero-Drago-Statua di Sale-Olandesina Volante. Davanti Supermario fa coppia con King David.

I grandi palcoscenici, si sa, ci esaltano, e per questo diamo vita a una partita che finalmente posso guardare con il sorriso sulle labbra, nel senso che la tensione è inesistente: d’altronde da un lato c’è la squadra attualmente campione del paese dei cachi, anche se rimaneggiata, e dall’altra c’è una delle più probabili candidate alla serie cadetta, ingombrata da parecchie seconde linee e nutrita nei giorni precedenti al match di soli cinghiali interi arrosto. Solo così si possono spiegare le forme giunoniche di Mozart, Rivas e Lucarelli. Francamente imbarazzante.

I futuri retrocessi non vedono mai la biglia, praticamente in tutta la partita, e nel primo tempo si segnala praticamente solo un quasi gol dell’Olandesina e un quasi gollissimo del Drago, oltre a un numero imponderabile di scivolate di King David. Il cui ruolo è a questo punto chiaro: interpreta la Miseridordia nel grande affresco mourliniano.

Il secondo tempo recita lo stesso copione, arricchito di pinguini e di un golasso dell’Olandesina, e da un numero imponderabile di scivolate di King David.

Che dire, facciamo alcune valutazioni: è stato commovente vedere l’ultima partita di King David con la maglia nerazzurra, ma dopo quello che ha combinato dubito che rivedrà mai più il campo con i colori mourliniani; è stato stupendo scoprire che Calimero come terzino è meglio di Crystal, segno che forse il rumeno deve un po’ riposare o ritornare in ruolo al centro della difesa; è stato bellissimo gridare per tutta la partita verso il giovane Mastino, che ha meritato di esordire, e vedere uomini del calibro di Barbalbero, dell’Olandesina, del Drago e di Supermario onorare la partita fino in fondo (quest’ultimo addirittura sacrificandosi in copertura, è veramente imprevedibile i momenti che sceglie per maturare).

E’ stato sorprendente scoprire di non essere morti assiderati alla fine dei novanta minuti e se non ci fosse stato quell’obeso di Lucarelli sull’ultima palla avremmo rischiato di dover subire anche la tortura artica dei supplementari. Domenica farà ancora più freddo, ma questa volta sarà una partita vera. Occhio.

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Un nuovo ’26: caricatura della storia d’italia

14 Dicembre 2009 13 commenti

 

Chi cerca facile retorica da buon democratico o facili recriminazioni (ancorché basate su fatti veri) su come la violenza nei confronti delle persone normali sia una violenza di serie b, mentre la violenza contro un politico sia un affare di stato, può smettere di leggere subito. Non mi interessa fare le discussioni che addirittura Rosi Bindi riesce ad articolare.
Mi pare più rilevante sottolineare il cinismo di quanto è avvenuto ieri sera, e non mi riferisco certo all’improbabile gesto di Mr Tartaglia, quanto alla reazione che sta generando e che ha immediatamente generato.
Il centro destra (e il centro sinistra) sono da tempo incastrati in una battaglia di posizione in cui le trincee stanno tutte a casa della destra, un po’ come se i francesi avessero difeso la Marna dal lato di Berlino. E l’aggressione di ieri sera (chi parla di attentato è più squilibrato di un bradipo ubriaco) è l’occasione perfetta per uscire dall’impasse. Sempre dal lato della destra.
E’ stato molto curioso seguire le reazioni dei politici che reclamano adesso a grande voce il rispetto delle istituzioni, della democrazia, della Costituzione salvo sputarci sopra a ogni pié sospinto. Il miglior comico è proprio Ignazione La Russa: "dobbiamo difendere la democrazia, dobbiamo introdurre il REATO PENALE di DISTURBO DELLE MANIFESTAZIONI ALTRUI" (il maiuscolo è mio). E come facciamo a definire disturbo? Quando io grido che non sono d’accordo sono più o meno  democratico? E se la Polizia mette le transenne e impedisce a un corte legittimo di entrare in una piazza dove si è svolto un grave fatto nel passato disturba la
manifestazione? O anche in questo caso hanno l’esenzione dal reato penale come a Genova (tanto per richiamare eventi arcinoti)?
L’aggressione di ieri invece secondo me si inserisce perfettamente nei ricorsi  storici di questo scorcio di secolo: siamo passati attraverso una riedizione del ’22 e degli anni successivi e finalmente siamo sbarcati in una patetica e grottesca rivisitazione del ’26 (l’attentato Zamboni al pelatone tanto per  capirci). E Silvio sul predellino perché tutti possano immortalare il suo
sacrificio per la patria, il suo martirio tutto sommato a basso costo (mica ci è rimasto, ci ha perso mezzo dente) è l’emblema del fascismo videocratico in cui  siamo immersi. Si predica di abbassare i toni e si aizza la piazza alla guerra.
E nessuno dice una parola.
Ma sono pronto a scommetterci che le conseguenze di questo evento saranno molto meno uno scimmiottamento di quello che successe dopo il ’26: si istituì la pena di morte e il populismo del regime esplose in tutta la sua spettacolarità, di
fatto annullando ogni opposizione alla luce del sole. Con le buone e con le  cattive. Ora non penso ovviamente che si reintrodurà la pena di morte (anche se a sentire i militanti di centro destra per i "comunisti" ci vorrebbero almeno dei campi di confinamento), ma penso che un centro-destra prossimo ad andare alle elezioni anticipate troverà il modo di serrare le fila e di far accettare
ob torto collo al paese ogni nefandezza di cui si vedrà capace.
Proprio nel momento in cui speravo che la gente si rompesse definitivamente i coglioni e cominciasse a spaccare tutto, mi ritroverò a dover sentire deliri di ogni tipo conditi qua e là di abusate parole come "democrazia", "libertà", "futuro". D’altronde il limite siamo noi, tutti noi che viviamo ipocriti, avviliti e attoniti nel Paese che Non Esiste Più: la nostra afasia è la giustificazione dell’immondizia in cui siamo immersi. E dopo l’attapiramento che ho visto a seguito degli eventi di ieri sera, non ho dubbi che le speranza per
una matura presa di posizione siano ridotte al lumicino.
Allora avanti così, continuiamo ad essere la caricatura di un popolo, che vive nella caricatura di un paese, in cui l’evento più grave – a leggere i giornali – degli ultimi 20 anni è la caricatura di un attentato al Primo Ministro perpetrato con un souvenir da 2,5 euro. E poi mi dite di non cercare la rissa…

Inter in Wonderland: Orobia Blues

14 Dicembre 2009 1 commento

 

La Serie di Oz riapre i battenti con Mourlino trasformato da Mago in nostromo, intento a prendere appunti sul cassero di poppa e a gridare esclamazioni un po’ balzane come "corpo di mille balene!", "per tutti i capezzoli dei cetacei!", ecc. In panchina va un figuro brizzolato con una doppia B stampata sul piumino stilosissimo: Bad Boy Beppe Baresi in console. Peccato che di fronte alle domande delle p.i. nel post partita si veda bene la differenza con il principale occupante del banquillo interista.
In campo si ripropone il modulo ultraoffensivo contro i pastori orobici che corrono corrono ma non concludono un cazzo. Dal canto nerazzurro si parte in nove e mezzo, dato che schieriamo Chivu il buco con il difensore vicino all’imo delle sue prestazioni, e che il Pelato non è nel suo momento migliore. Nonostante l’inferiorità numerica, per tutto il primo tempo gli eroi nerazzurri gestiscono agevolmente la partita e segnano meritatamente con un tiro da biliardo del Principe. La partita però è abbastanza mesta, un po’ per la scarsa qualità degli avversari, un po’ per la sensazione che gli uomini di Mourlino entrino in riserva dopo 60 minuti. Gli unici pericoli dalle parti del portiere sono deviazioni dei difensori neroazzurri. Succederà anche nel secondo tempo: sarà mica crisi inter? Malcelato desiderio di suicidio per la palpabile tensione alla Pinetina?
Nel secondo tempo tutti si aspettano che i mourliniani chiudano il match, mentre nello spogliatoio un po’ tutti paiono aver bevuto un litro a testa di camomilla. Gli orobici prendono coraggio e i nerazzurri prorompono in un tristissimo blues: Sneijder si deprime e si fa cacciare (da babbo) lasciandoci in nove (dato che Crystal risulta non pervenuto mentre il Pelato si è un po’ ripreso con la cura di tranquillanti), per non piangere davanti a tutti gli spettatori. In doppia inferiorità numerica BB tarda troppo nei cambi e la squadra rincula ulteriormente. Nell’unica penetrazione seria in terra nerazzurra, il TIR trova il guizzo per il pareggio. Nonostante questo nessuno tra i nostri eroi si sveglia.
Quando il quarto uomo mostra i minuti di recupero finalmente i nostrani cavalieri si risvegliano e quasi la mettono in fondo al sacco, a dimostrazione del fatto che bastava volerlo e si portavano a casa i tre punti. Il mezzo passo falso pesa poco sulla coscienza dato che i diretti concorrenti perdono sonoramente, ma tanto basta per scatenare nelle interviste post partita un bel revival di prostituzione intellettuale: si sa, quando non c’è il gatto (Mourlino) i ratti ballano (i giornalisti), e fare i prepotenti con il povero BB è fin troppo facile.
Il simbolo della giornata è il losco figuro che si è presentato nella sede in cui guardo tutte le partite in trasferta dell’Inter. Dal minuto uno ha cominciato a urlare frasi senza senso tipo: "Mourinho speriamo che muori". Sul gol degli orobici salta in piedi dicendo: "tutta colpa di quell’eto’o di mxxxx". Come se il Leone avesse potuto controllare come un burattino Lucio sul buco in cui il TIR si è infilato. Lo sguardo sbigottito dei presenti si è trasformato in insulti e la rissa si è fermata al solo livello verbale con mio sommo disappunto: puntavo decisamente al lancio del boccale a palombella con atterraggio sulla nuca nemica. Finché esisteranno interisti così, le p.i. e i nostri avversari avranno gioco facile. Vedi te se uno deve avere crisi isterica di ignoranza calcistica in un giorno in cui comunque si guadagna un punto sulle dirette inseguitrici. Misteri della fede nerazzurra. 

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40 anni di miserie e ipocrisie all’italiana

12 Dicembre 2009 Commenti chiusi

 

Quaranta anni fa, il 12 dicembre 1969 alle ore 16 e 37 minuti, una bomba esplodeva nella Banca dell’Agricoltura di Piazza Fontana a Milano: una strage di cui tutti sanno tutto (i mandanti, gli esecutori, i capri espiatori, le insabbiature e le coperture istituzionali, le conclusioni processuali ingiuste) e di cui tutti fanno finta di non sapere niente. Una strage che ha inaugurato il periodo più miserevole, falso e infame della recente storia italiota: quello della Strategia della Tensione, in cui sulla pelle delle persone normali si è cercato di inventare scuse per evitare che il pericolo rosso arrivasse al potere (perché poi si può girarci intorno finché si vuole, ma questo è stato). A 40 anni di distanza è continuato il teatrino: zero commemorazioni, piede a tavoletta sulla speranza che la gente dimentichi, confonda, annebbi e che finalmente tutto possa tornare ad essere "normale".

Come ogni anno centinaia di persone (quest’anno ancora meno degli anni scorsi, segno dei tempi che corrono) si sono ritrovate a marciare per le strade di Milano, giusto per non dare l’impressione che proprio a tutti stia bene che si dimentichi, che si cancellino interi pezzi di storia collettiva. Una volta arrivati davanti a piazza Fontana le persone si sono trovate di fronte camionette, forze dell’ordine schierate e transenne per impedire l’accesso alla piazza. Alla domanda semplice: "perché alcuni cittadini possono entrare normalmente in piazza Fontana e ricordare la strage e altri come quelli che hanno partecipato a un corteo perfettamente legittimo non possono farlo?" La risposta sono state un paio di cariche. La gente non se n’è andata. Fino a quando non se ne sono andati gli uomini in divisa, che una volta di più anziché difendere i valori democratici si sono ritrovati ad essere idiota strumento delle necessità del potere: una bella scazzottata che i media possano usare per alimentare il mito dei manifestanti cattivi e intolleranti. E il problema è che la maggior parte delle persone sono disposte a bersi qualsiasi stupidaggine pur di continuare con il proprio tran tran.

Sono i tempi che corrono. Tempi che fanno infuriare e allo stesso tempo fanno riflettere sul fatto che se un popolo non vuole diventare adulto, non ci saranno speranze per il suo futuro e per quello delle generazione che lo seguiranno. Che mestizia.

UPDATE

Apprendo oggi dalla registrazione di Radio Popolare (complimenti, sempre dalla parte del popolo, ovviamente) e da La Repubblica che il problema ieri sono state le persone che volevano entrare in piazza e che tutti i presenti in piazza in quel momento (o almeno quelli che stavano sul palco) si sono indignati non perché una piazza che è di tutti nel giorno del 12 dicembre fosse asserragliata di sbirri, ma del fatto che personaggi che nulla hanno a che fare con la commemorazione come Letizia Moratti, Roberto Formigoni e Guido Podestà fossero sonoramente fischiati. Anche i familiari delle vittime cadono nell’equivoco e anziché pretendere che la piazza fosse aperta non sanno fare meglio che mugugnare per la "festa rovinata". Io sono allibito. Non ci sono altri termini. Solo io penso che l’anormalità ieri fosse nelle transenne che chiudevano la piazza e nelle istituzioni della destra sul palco e che la cose positiva fosse il desiderio di centinaia di altre persone di essere presenti nel luogo dove si commemora un evento purtroppo fin troppo attuale?  Il mondo alla rovescia, il mondo attraverso una telecamera. E per tutti i benpensanti: speriamo che di scontri se ne vedano presto di molto più recrudescenti perché a furia di ingoiare si finisce per assomigliare agli struzzi più che agli esseri umani.

 

La Lega dei Citroni: no panic attack!

10 Dicembre 2009 4 commenti

 

I prodromi per un traghettamento di Mazzola c’erano tutti: la famosa frase "è una finale" pronunciata dal capitano, i gufi neri all’orizzonte, la pazzia congenita della squadra nerazzurra, il nervosismo malcelato del Mago Mourlino. Invece è andato tutto bene. Proprio tutto. Sugli spalti quando si legge la formazione i tifosi si incazzano e io pontifico: ma no, va bene così, il mandato mourliniano è chiarissimo. "Joga la bala!" al posto di "Cori come un pirla!".
I tatari al grido di "Ke Kazan!" scendono in campo con un coraggiosissimo 4-6-0 facilitando di brutto il compito ai nostri eroi di cartapesta europea: per 45 minuti la Statua di Sale, l’Olandesina e il Drago insieme al trittico della morte Principe-Leone-Supermario non fanno vedere la biglia ai mesti ex sovietici. In compenso visto che era un po’ che non si infortunava nessuno perdiamo il Muro (prognosi neriana: 40-50 giorni) e io predico l’uscita anzitempo del Drago prima del Mago Otelma (prognosi: giocherà a Bergamo per necessità e rishierà di rompersi di brutto).
Per ben due volte il cosmo è sull’orlo dell’estinzione: l’Uomo d’Acciaio al 30esimo salta tutto il Kazan e anche un paio di nerazzurri e mette al centro manco fosse la reincarnazione di Messi – ah, come dite, è ancora vivo? Beh, ci siamo capiti – per un tacco bellissimo di Supermario che arriva al Leone che a scanso di equivoci la spara a duecento all’ora in fondo al sacco. Nel secondo tempo il Capitano si ripete in uno slalom ubriacante carpiato che lascia di stucco tutto lo stadio. In quel caso non segnamo, ma tutti sentono distintamente i pilastri ai margini dell’Universo tremare sonoramente.
Nel frattempo il portiere tataro – oltre ad aver rinviato svirgolando 7658 palloni (gentile dono ai bambini, si sa che i tatari sono di indole buona e mite) – riesce a parare un missile di Maicon che tutti vedono dentro. Si va al riposo su un 1-0 fin troppo risicato.
Il secondo tempo nerazzurro dimostra che i nostri problemi in Europa non sono finiti e che i limiti della rosa sottolineati dal Mago Mourlino sono fin troppo palesi. Per 15 minuti non capiamo un cazzo e il Rubin rischia di infilarci con una palla dal limite che tutti – e dico tutti, speaker incluso – vedono dentro. Il nostro portierone si deve essere giocato i deflettori al plasma, infatti poi viene invitato con dei gesti inconsulti dall’arbitro a buttare via le cartucce di riserva nascoste sotto i tacchetti.
Ci ripigliamo, ma se in quei 15 minuti ci fosse una squadra di calcio anziché dei barbari senza Dio, avremmo preso sicuro due pere. In compenso i tatari ci regalano una punizia da 35 metri. Mi giro e guardo negli occhi i miscredenti intorno a me, sentenziando: da lì Mario può metterla. Detto fatto e in transenna guardo con aria di sfida coloro che non credono al verbo del Padre (non il mio, quello di una socia di interistiorg con funzioni pesantemente totemiche).
Il resto della partita è accademia. Peccato per la vittoria del Barça, ma chiedere di arrivare primi in un girone giocato come lo abbiamo giocato sarebbe stato pretendere un credito eccessivo dal culo di Mourlino. I limiti dei nostri eroi sono sempre lì e speriamo che vengano tamponati con gente che almeno non se la faccia addosso (il Pelato entrato sul 2-0 ha mostrato che volendo può circolare… quando vinciamo). Al riparo dagli attacchi di panico abbiamo salvato noi stessi dal traghettamento e dal buttare a monte mezza stagione. Ora accontentiamoci: cerchiamo di non uscire con un doppio 6-0 ad opera di Chelsea o Real Madrid. Puntiamo a una battaglia primaverile dignitosa. Almeno potremo dire: nous ne regrettons rien.
 

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Inter in Wonderland: regalie e tradizioni

6 Dicembre 2009 7 commenti

 

Gli eroi nerazzurri sbarcano nella Terra Nemica per antonomasia con la prospettiva di affrontare il Big Match piu’ inutile dell’anno: alla fine dei novanta minuti infatti la Serie di Oz non sara’ cambiata di una virgola, per lo meno per quanto riguarda le posizioni di testa. Alla faccia della sfida decisiva, della partita della vita o della morte. Poveri giornalisti.

Mourlino carica i suoi come solo lui sa fare quando e’ in preda a un attacco di catalessi: dichiarazioni sottotono, mani avanti, tattica per la partita basata su contenimento e ripartenze, e dulcis in fundo lascia fuori dall’undici di partenza il miglior purgatore di bianconeri a nostra disposizione.

Appena entrati in campo la scena e’ di quelle da Libro Cuore: da un lato aitanti eroi senza macchia e senza paura, dall’altro poveri gobbi tignosi e arrabbiati con il mondo, preda di manie di persecuzione e complessi di inferiorita’, con la mano tesa a chiedere un’elemosina senza certezza della reazione dei tuoi possibili benefattori. I nostri cavalieri si guardano negli occhi e i tifosi scorgono l’ombra della pieta’ e della misericordia sostituire il sadismo della prepotenza. "Cazzo, no!", esclamo nel bar di Madrid tra gli sguardi attoniti degli avventori e avversari (tra cui l’unico florentino gobbo che abbia mai visto in vita mia).

Il motto del match diventa un laconico Let it Be, o alla peggio un Live and Let Live (depende se preferite il rock statunitense o la musica classica britannica). E di fronte a tanta bonta’ i gobbetti si affannano per essere all’altezza della regalia, ricordandomi la famigerata filastrocca La famiglia dei Gobon. Nonostante questo clima di remissivita’ generale i tapini riescono a trovare il vantaggio solo dopo una doppia deviazione fortuita con rimpallo a risucchio sul terreno viscido: un gol degno della loro tradizione di doppiezza e disonesta’ che sancisce il dono nerazzurro dal sapore prenatalizio. Mourlino sembra essere uscito dalla catalessi perche’ manda a quel paese l’arbitro e viene cacciato dal campo non senza il prode contributo di infamia di quel signore che siede giustamente sulla panchina bianconera.

Proprio il gol sveglia gli istinti predatori di alcuni nerazzurri che in pochi minuti con il Leone pareggiano i conti, riaddormentandosi subito dopo. Il messaggio e’ chiaro: su, accontentatevi di un pareggio senno’ vi ammazziamo. Messaggio rincarato con un inizio di secondo tempo arrembante. Su un contropiede pero’ Samuel si fa vincere dal sentimento cristiano (maledetta colonizzazione cattolica nel Sudamerica) e consente a Gobbisio di fare il golazo della vita, ammantandosi in un giorno e per sempre delle simpatie e dei favori di quella masnada di poveracci che costituisce il pubblico piu’ becero d’Italia. Il punteggio non cambiera’ piu’ e nessuno fara’ d’altronde qualcosa perche’ accada qualcos’altro in partita.

Baresi e’ ancora sotto gli influssi della tisana catatonica e lo dimostra con il suo contributo tattico, sicuramente concordato con il Mago di corte: Supermario entra per Calimero (che aveva gia’ rischiato due volte di lasciarci in dieci) scazzato e scenografo come non mai (non gli ho mai visto accentuare cosi’ alcune cadute); Amantone rileva il Pelato, ma nessuno si accorge del fatto che stia calcato il campo; infine Matrix si lancia nella mischia nella famigerata mossa Huth. Ce n’e’ abbastanza per chiedere di sospendere lo strazio, altro che cori razzisti.

La tisana della misericordia era pensata per durare novanta minuti e complice qualche infortunio proprio allo scadere esaurisce i suoi effetti: riusciamo cosi’ a collezionare una edificante rissa che costera’ (giustamente) 3 giornate a quel cretino di Crystal (e a Samuel tanto per gradire anche se era gia’ stato sostituito), e forse anche alla Statua di Sale che quando c’e’ da correre non si capisce dove si nasconda (peggio di Mariolino Corso), ma quando c’e’ da menare le mani compare sempre al centro della mischia.

Tiriamo le somme al fischio finale: onoriamo ancora una volta la tradizione che ci vuole fare pochi risultati a Torino quano siamo primi in classifica. Alzi la mano chi vorrebbe tornare alla tradizione contraria precedente. Io no di certo.

Il punto e’ che se eravamo in vena di regalie, lo abbiamo fatto ancora una volta da veri bauscia, con stile: anziche’ mandare in campo una squadra di panchinari e primavera spompiamo per bene i titolari (voglio proprio vedere quanto fiato avra’ il Drago per dirne uno mercoledi’ sera), remediando contemporáneamente un bel po’ di indisponibili (tra diffidati ammoniti e squalificati in prova TV) per la abitualmente "facilissima" trasferta in Orobia. Complimenti al team manager (e non sto certo parlando di Butti).

Fortunatamente non vedro’ i giornali e i loro peana ai poveri gobbacci, ne’ la caccia alle streghe per aizzare (come se ce ne fosse bisogno) e giustificare le stangate di Tosel. Fortunatamente non leggero’ le tragedie che si paventeranno nei luoghi di discussione online e offline degli interisti. So solo che io e blanca non possiamo piu’ andare in trasferta : quest’anno abbiamo uno score di due partite viste lontano dalla sede su due perse. La Serie di Oz ci vuole indubitabilmente milanoidi. Che culo. Ci mancava pure questa.

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Il crepuscolo degli eroi sarà il crepuscolo dell’epica?

1 Dicembre 2009 5 commenti

 

Il nuovo libro dei Wu Ming – Altai – è il sequel (volevo scrivere postquel, ma poi ho pensato di fare la persona seria) di Q. Sequel in termini di contesto storico, di personaggi e anche di tematiche: la rivolta, il ruolo degli eroi e degli antieroi, la guerra e la libertà, e quanto costano. Avviso i naviganti che la mia recensione se ne sbatte di spoiler e anticipazioni, per cui leggetela DOPO aver letto il libro, se non vi piace sapere come finiscono le storie.

Altai si presta a una duplice lettura (non ho ancora deciso quale mi convince di più) e anche a una duplice interpretazione della conclusione. Le letture si dipartono dai due personaggi fondamentali del romanzo (non gli unici, ma quelli che per me sono la chiave della trama, senza per questo togliere valore simbolico ad altre figure): Ismail alias Gert dal Pozzo e Manuel Cardoso De Zante alias Altai.

Da un lato l’anziano rivoluzionario, l’"errante per scelta, che per tutta la vita i potenti ha cercato di abbatterli", il "fiume che evapora e diventa nuvola, per scavalcare il deserto e piovere sui monti." Rappresenta ciò che è stato, la saggezza dell’esperienza, di chi il prezzo l’ha già pagato e ne ha conosciuto l’amarezza, in grado di riassumere in una frase apodittica ciò che è stato, è e sarà: "Volevamo giustizia. E una ragione per vivere e morire." L’epitaffio che chiunque abbia un animo desideroso di cambiare il mondo vorrebbe sulla propria tomba è la storia della vita di Gert. Ed è la storia di Q. Riassunta dagli autori stessi.

Dall’altro il giovane idealista, rinato a una nuova vita dopo aver negato se stesso, i propri ideali e la propria personale epica, il ribelle che trova una causa e un maestro (forse più di uno considerato Ismail): "Nessuno di loro credeva in lui. [in Yossef Nasi, nda] Eppure migliaia di ebrei gli dovevano la vita. Eppure io ero lì a dimostrare che era possibile cambiare tutto. Bastava volerlo e con l’aiuto del Signore le cose potevano essere capovolte, il caos cancellato, l’equilibrio ripristinato. Tikkun olam. Così lo aveva definito Nasi. Aggiustare il mondo, sanare la ferita che il nostro popolo si portava dietro da millecinquecento anni, così come aveva rimarginato la mia piaga, nascosta per metà della vita." L’idealismo un po’ naif, un po’ ingenuo e per questo vagamente massimalista, privato in un certo senso di profondità di fronte all’entusiasmo, e che si scontra con il cinismo un po’ saturo e un po’ saggio di Gert.
Manuel Cardoso è Altai: "Altai […] è il nome di questa stirpe meticcia. […] E’ un falco molto robusto, fedele, facile da addestrare. Non occorre fare nulla con un altai, e un buon falconiere fa il meno possibile. E’ la natura del falco che lo spinge in volo e gli fa conficcare gli artigli sulla preda. Se vuoi che lo faccia per te, devi solo mostrargli qual è il suo vantaggio." Una creatura fedele all’idea che si fabbrica per lui, in grado di seguire il suo istinto eroico e martire, fino alla sua ultima conseguenza: la morte, la violenza cieca, la barbarie. Di fronte alla quale il velo si strappa per rivelare la realtà della storia. Un perfetto strumento del potere.

Allora Altai (il romanzo) si presta a una prima lettura spinoziana: ogni volta che muore un eroe, che un’idea vince o perde o si trasforma, che muore un’occasione di rivolta, ciò che ne rimane rinasce in un nuovo movimento, in un nuovo afflato di speranza. La storia è un continuo divenire ciclico di eventi, di epica, di eroi. Ed è per questo che non dobbiamo mai pensare che sia finita, che ogni istante è un nuovo inizio da giocarsi fino in fondo.
Anche se il ciclo è "d-evolutivo", se ogni generazione di battaglieri sembra sempre meno densa di quella precedente, sempre più bassa nelle proprie aspettative e possibilità, come se la volontà fosse un bene consumabile, che si assottiglia insurrezione dopo insurrezione. E non è detto che sia così. E’ il ciclo che ricomincia con il ritorno finale di Ismail/Gert a Mockha per un nuovo terreno di battaglie da coltivare, per nuovi popoli da aizzare, per cercare un nuovo territorio da colonizzare con l’idea di libertà.

Questa lettura mi sembrava molto precisa in una prima fase del romanzo, ma sul finire del romanzo mi si è presentata una seconda chiave, più tradizionale forse, e sicuramente parziale (ma d’altronde ogni lettura è parziale): Altai come dialettica dell’epica, con Q come tesi, il presente romanzo come antitesi e noi, sì proprio noi, quello che viviamo e che facciamo, come sintesi. Schematico forse, ma interessante. Ismail come la tesi di rivoluzioni con grandi aspirazioni e capaci di giocarsi la partita fino in fondo, fino a pagare il dazio greve di chi ci prova senza risparmiarsi neanche un grammo di coraggio e di volontà, nonostante la fine tragica.
Ismail risponde proprio a Manuel:
"- Mi avete parlato di quel che avete perso. Cosa vi resta?
– Soltanto loro".

E ancora:
"- Machiavelli ha scritto che bisogna guardare il fine, non i mezzi.
– Sì, anche Yossef me lo ha ripetuto spesso. Con gli anni, ho invece imparato che i mezzi cambiano il fine."

Le risposte amare di chi ha scommesso tutto sulla libertà e ha perso, ma sapendo di fare quello che riteneva giusto e che poteva cambiare il senso della propria vita e di quella di coloro che lo circondano. Risposte che sembrano un po’ quelle che molti di noi che hanno vissuto gli ultimi dieci anni di movimenti stanno elaborando, incapaci di trovare una strada per cui valga la pena ancora mettersi in gioco. Strada che forse Gert trova (e sicuramente i Wu Ming individuano, considerato i loro commenti a questa mia recensione 🙂 A cui fanno da controcanto le parole dell’antitesi Manuel Cardoso, un fedele servitore di un ideale altrui.
"- […] Solcare il mare è come attraversare il deserto. Sono spazi liberi, aperti a mille possibilità.
– Eppure senza un approdo non si farebbe che andare alla deriva."

La storia è una deriva? Oppure ha un fine? E se ce l’ha chi lo decide? L’epica è la definizione della finalità di (una) storia? O è il canto di come si attraversa una storia alla deriva? Gli eroi sono coloro che cercano di costruire una strada laddove nessuno sa dove andare, di sostituire alla deriva una rotta. Allora la tesi Ismail/Gert e l’antitesi Manuel/Altai si scontrano di fronte alla morte dell’ideale altrui che Manuel ha inseguito e che Ismail ha accettato di correggere: di nuovo sangue, violenza, il tradimento di ogni rotta e di ogni desiderio di giustizia di fronte alla realtà degli esseri umani. E la reazione è differente: Gert torna a se stesso, a ciò che gli è rimasto, a ciò che spera, lasciandosi alle spalle la propria storia e sperando che essa possa insegnare ad altri dove ha sbagliato; Manuel affronta prima il proprio mentore e poi il proprio destino, tragico e mesto, senza onore e senza gloria, come di tutti coloro che hanno vissuto l’ideale di qualcun altro, la sua libertà, la sua giustizia. Quella del potere.
"- Sono queste le fondamenta della nuova Sion? Strage, tortura, infamia? Un giorno dicesti che volevi riparare il mondo, e non mi aspettavo certo che fosse una sutura indolore. Ma ora la piaga è più vasta di prima, e infetta, e non vedo quale cura la potrebbe sanare.
– […] Non vi è regno che non nasca dal sangue dei vinti […]
– […] Almeno i nostri padri presero la terra da soli. Sapevano quello che facevano, e ressero il peso delle morti sulle proprie spalle. Noi abbiamo massacrato per tramite dei giannizzeri, incuranti del male che ne sarebbe venuto."

Gli eroi dei Wu Ming sono morti, sconfitti, vituperati, vinti. Ismail/Gert come molti di noi si rintana in quello che gli è rimasto, convinto che le sue carte siano state giocate e non siano bastate, avvolto dai brandelli della propria volontà, struggente e romantico, ma al termine della sua storia. O forse ripiega su se stesso cercando un altro luogo, un altro tempo, un altro modo di continuare a combattere. Manuel fino in fondo al servizio di una battaglia altrui, intriso di una volontà fotocopiata fino a quando la realtà non lo risveglia con la sua truculenza, abdica la propria esistenza convinto di dover pagare questa sua unica colpa, quella di non aver saputo scegliere, gettando via i dadi per lungo tempo tenuti nelle tasche della giacca come simbolo del caso che menava le sue membra a destra e a manca.

Quello che rimane siamo noi. O forse voi (io mi sento più Gert), altri, ancora convinti che ci sia spazio per combattere e per crederci, sapendo che ogni battaglia ha i suoi prezzi, ma che spesso valgono la pena di essere pagati se il risultato è un epica e una storia che possa essere raccontata. Quello che rimane è piantare dei semi e cercare un nuovo terreno dove costruire la battaglia per una realtà migliore. Nuove possibilità di fronte a un gioco – quello del potere – che è sempre lo stesso e che finisce sempre allo stesso modo. Sapendo che la battaglia sarà ancora una volta e sempre più dura.
Solo così il crepuscolo degli eroi non sarà anche il crepuscolo dell’epica, un preludio alla fine di ogni speranza. Ma solo un nuovo inizio.

"La libertà, invece, non rimane mai la stessa, cambia a seconda della caccia. E se addestrate dei cani a catturarla per voi, è facile che vi riportino una libertà da cani."

PS: non l’ho scritto perché ho una lievissima tendenza a vedere il politico che c’è in ogni cosa, ma l’aspetto testuale dell’opera dei Wu Ming è veramente arrivata ad un livello elevatissimo: scelta delle parole, elaborazione sul linguaggio (il lavoro sul giudesmo è fantastico),  la contestualizzazione e l’affresco storico, la caratterizzazione dei personaggi, tutto verametne di altissimo spessore letterario. In conclusione spero che le note "critiche" nella mia recensione non vengano confuse con una diminuzione della stima che provo per l’opera dei soci bolognesi (e non) che rimane elevatissima. Consigliato vivamente a tutti 🙂

 

Inter in Wonderland: la congiura dei tosaerbe

30 Novembre 2009 Commenti chiusi

 

Ricomincia la Serie di Oz e i nostri eroi si ritrovano. Come un universitario che ha fatto sei volte lo stesso esame e quando si presenta davanti al professore per l’ennesima sessione si dimentica tutto, anche noi non riusciamo a superare il blocco. Quando andiamo a fare gli altri esami di quel black-out non c’è neanche l’ombra. Mourlino sprona i suoi uomini e li dota di adeguato tagliaerbe con una sola missione: sterminare ogni filo d’erba, ogni stelo viola, bianco o rosso, ogni gambo verde che non appartenga agli eroi nerazzurri.
In campo non c’è Supermario, pare arrivato in ritardo in ritiro (sigh!), ma in compenso c’è Gozer il Semovente, l’alter ego della Trivella. Sugli spalti c’è sgomento, ma si applaude, e quando tutti capiscono che ha deciso di non fare i giochini sterili ma di giocare a calcio gli applausi si fanno più convinti: tutti pensavano di avere un soprammobile di stampo petrolifero e invece si ritrovano una creatura in grado di deambulare e di agire. Il resto della truppa risponde di conseguenza: il Pelato nonostante lo scarso momento di forma fa il suo, il Drago come sempre quando si spegne la musichetta tira fuori tutta la sua grinta e sputa fuoco sugli esili vegetali fiorentini, e Calimero sembra un piccolo (molto piccolo a dire il vero) Lampard.
Tutto il primo tempo sulle fasce di Gozer e di Calimero si scaricano folate di lame rotanti che macellano tutto quello che incontrano, in mezzo il Leone e il Principe si trovano molto bene. Ma la palla non entra: una volta è sul destro di Calimero, una volta è sul destro del Pelato, o sul sinistro del Leone, troppo angolata, o con un rimpallo sfortunato. E alla fine non va mai. Le streghe si siedono a fianco di ogni tifoso sugli spalti.
Il secondo tempo continua con la solita congiura dei tosaerbe: trincia, affila, affonda, spara, pialla. Ma la palla non va. Anzi, va, ma l’uomo con il fischietto inspiegabilmente annulla. Le streghe aumentano in numero. All’ottantesimo un enorme scossa di cacarella scuote lo stadio: Piangino fa un numero e spara a botta sicura, ma il palo dice no. Intanto in campo Gozer il Semovente esce per crampi (è bastata una partita da giocatore di calcio per sfiancarlo?) per Amantone che ci impiega dieci minuti a mettere una palla giusta, e Calimero ormai sfiancato di corsa e in debito di ossigeno lascia il posto alla Statua di Sale con sapienza tattica. Proprio lui all’ottantaquattresimo mette una palla perfetta per il Principe che con nobiltà deride Comotto (asino cotto, ecc, come all’asilo nido) e si guadagna un sacrosanto rigore: lo trasforma e finalmente la palla va in fondo al sacco.
Nell’ultima manciata di minuti il Leone potrebbe segnare, ma da solo davanti al portiere e al centoquarantesimo chilometro percorso, sbaglia incredibilmente. Non gliene vogliamo in primis perché abbiamo vinto e in secundis perché se a un centravanti tocca correre lungo la fascia come nemmeno Alessandro Bianchi ai tempi d’oro è chiaro che mancherà di lucidità.
Partita molto godibile, la congiura del tosaerbe porta a casa il proprio risultato e il risultato del Sant’Elia che ci permette di preparare per una settimana una gara da giocare in tutto relax. A differenza dei gobbi maledetti. La scelta tattica della Trivella paga anche se la strada per pensare che il giocatore sia recuperato al calcio è ancora lunga (e ogni interista dovrebbe sperarci). L’allenatore che piace all’uomo della strada, il predestinato Prandelli, perde per non osare (con Jovetic in campo avremmo sofferto le pene dell’inferno). Tenetevelo. Ora possiamo permetterci di spremere i nostri eroi consci di sette giorni di riposo davanti. Ora sotto con le altre due prove del fuoco. Se i tosaerbe e le congiure funzionano, non esitiamo a usarle nuovamente.
 

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