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Archivio per la categoria ‘cinema’

Parola all’America

25 Marzo 2008 Commenti chiusi

 

I fratelli Coen, nella mia mente, si associano immediatamente ad altri autori che sembrano dare la parola direttamente all’America attraverso i loro personaggi, come se le figure che animano le loro opere siano tutte una diversa sfaccettatura antropomorfica di un concetto primordiale di America. I loro film, di cui amo in particolare Il Grande Lebowski e Fargo ovviamente, ti fanno trottare attraverso la trama e l’ironia ma quando aprono bocca e diaframma della ripresa sai che ognuno di essi da voce all’America, non a una America, ma alla stessa caleidoscopica entità. Tanto per citare qualcuno che mi dà la stessa idea riprendo Warren Ellis e soprattutto Garth Ennis: se dovessi capire gli Stati Uniti d’America senza farmi venire l’esaurimento nervoso per l’astio che gli Americani Medi riescono a ispirarmi nella loro interazione quotidiana con il mondo e con gli altri esseri umani non-statunitensi, io partirei dalle opere di questi autori: Preacher, Transmetropolitan, e i film citati dei fratelli.

No Country for Old Men è esattamente questo: una narrazione per interposte dramatis personae di che cosa è l’America oggi, di cosa prova, di cosa ha paura, di cosa non capisce. Questo in sé vale il film, ma c’è altro: la fotografia è obiettivamente di qualità superiore e quelli che tanto hanno tessuto le lodi della buona ma non eccelsa fotografia di Into the Wild dovrebbero andare a guardare la pellicola per capire la differenza. Grande recitazione al solito dei protagonisti, su tutti Javier Bardem (Oscar) e Tommy Lee Jones (il quale di fatto incarna l’archetipo dell’Americano), e grandissima trama e dialoghi, con ogni finale scontato che viene demolito nei cinque minuti successivi a quelli che ti aspetti. Notevole sotto tutti i punti di vista, e Oscar per una volta meritati (d’altronde se essi rappresentato il Premio Americano per antonomasia, non potevano non cogliere i propri riferimenti in questo film).

Voto: 8

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Sweeney Todd

25 Febbraio 2008 8 commenti

 

Prima che anche voi facciate l’errore di un mio amico niguardese in guerra con la propria scarsa attenzione nello scegliere di chi fidarsi nella selezione del film: il nuovo film di Tim Burton è un musical, un bel romanzone d’appendice gotico e gore, decisamente imperdibile per chi ama i film dello zio Tim. Più adulto e meno sentimentale delle sue ultime uscite, a me ha dato una certa soddisfazione, complice anche il cast incredibile e la solita sapiente miscela di scenografia e sceneggiatura. Johnny Depp ormai per quanto mi riguarda è assurto all’olimpo dei migliori attori esistiti, ed Helena Bonham Carter nella parte della pazza costituisce un ottima partner quanto a bravura; il miracolo è completato da Alan Rickman e Timothy Spall, che da Harry Potter al racconto musicale splatter fanno un bel salto carpiato nella deformazione dell’immaginario infatile. Bravo!

Forse la parte meno riuscita è quella musicale, per la quale lo zio Tim  abbandona il suo fido Danny Elfman per un modestissimo Stephen Sondheim: la sezione strumentale è molto meno evocativa e il cantato lagnoso nelle melodie e nel ritmo. Nulla a che vedere con la Fabbrica del Cioccolato, che aveva messo in luce la capacità di Elfman di gestire un progetto come quello di questo film. In ogni caso la pellicola è valida e da impianto audio di qualità superiore, anche se non tutti la sapranno apprezzare. 

Voto: 7,5

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Il cinema classista di woody allen

9 Febbraio 2008 Commenti chiusi

 

Sogni e Delitti è il contrappasso di Match point: tanto il secondo era ben riuscito e interessante dal punto di vista anche "di classe", tanto  il primo è retto solo da due grandi interpretazioni e lascia adito a una logica classista dominante, con grande delusione del sottoscritto.  Il film si impernia tutto sulla buona prova di Ewan McGregor, comunque in continua ascesa, e sulla prova veramente notevole di Colin Farrell (che al sottoscritto e a chi lo conosce ha ricordato una nuova incarnazione sullo schermo di krikap!! :), ma il resto lascia un po’ a desiderare. Il ritmo della prima parte di film è molto scadente, anche se migliora nella seconda, ma a parte il giallo non rimane in bocca nulla di retrogusto. Alla fine della fiera se in Match point a pagare era la high class inglese e a farla da padrona la prolet Scarlett Johansson (che in sé comunque vale sempre il prezzo del biglietto per ragioni puramente estetiche :), in Sogni e Delitti la spunta il più falso e ipocrita, in una storia di soli uomini, in cui le loro donne svolgono un ruolo peggio che comprimario, di un sessismo veramente fastidioso (belle, stupide o sapide, comunque sfruttatrici dell’iniziativa maschile).

Voto: 5,5

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American Gangster

5 Febbraio 2008 1 commento

 


American Gangster
è un film come tanti o poco più tra le migliaia di mega produzioni americane. L’unica sua vera funzione è confermare che il meglio di sé Ridley Scott lo ha già dato a cavallo tra gli anni 70 e gli anni 80, con pellicole memorabili e che rimangono pietre miliari (imho) della storia del cinema. Dal 1992 in poi ci ha offerto solo kolossal di spessore molto modesto e ai quali è stato garantito successo più dal suo nome e dal suo talento che non dal loro valore effettivo (anche come holliwoodianate volendo).

La storia è interessante e il taglio che gli viene dato dimostra che il buon Ridely non è certo un regista qualunque, ma è troppo poco per goderselo: nessun accenno razzista, e puntini sulle i spostati opportunamente sul rapporto tra modello americano (economico e sociale) e dualità legalità/illegalità. Da questo punto di vista la regia è interessante, perché non oppone i nergi spacciatori ai bianchi salvatori, ma un mix più complesso di soggetti che interpretano le porzioni più oscure del sogno americano: l’autista che diventa boss grazie alla determinazione e allo spirito di iniziativa, ma che conserva quel bigottismo usa nonostante sia il principale rifornitore di droga sul suolo statunitense, droga che fa arrivare con ampio cinismo grazie alle coperture dei militari in vietnam pagati a suon di migliaia di dollari (l’ultimo carico è veramente una chicca di crudeltà nei confronti di chi ancora ci crede al sogno americano); il poliziotto violento ma incorruttibile che ripulisce il marcio non tanto dalle strade quanto dalle istituzioni di polizia americane; gli agenti federali corrotti e che mettono l’immagine davanti alla lotta al crimine; i boss italiani che odiano un altro boss non tanto perché fa più soldi quanto perché mette in crisi il loro consolidato modello sociale. Questo aspetto registico sottolineato come di consueto nei film di Ridley dalle battute finali dei protagonisti, che didascalicamente impongono una certa lettura del film, è comunque ciò che porta il film sopra la media.

Frank Lucas: "why should they [the other bosses] witness against me?"  
Richie: "because aside from the fact they hate you personally, they hate what you represent"
Frank: "I don’t represent anybody but Frank Lucas"
Richie: "exactly, you represent progress, the kind of thing they won’t be able to survive to"

La citazione è a memoria quindi non sarà proprio letterale, ma dà l’idea. 

Il resto del film tiene bene la tensione e si lascia gustare. Tutto dignitoso, sopra la media il montaggio e ovviamente la regia. Forse la conclusione poteva essere più sviluppata, ma poi si andava oltre le due ore e mezza di film e la sintesi è sempre un valore aggiunto nel cinema di massa. Tutto sommato me lo sono goduto, anche se l’estasi di pellicole come Blade Runner e Alien rimangono lontane ere geologiche.

Voto: 6/7

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Into the wild

5 Febbraio 2008 1 commento

Riprendo la sana abitudine di postare delle pseudo recensioni di libri che leggo e film che guardo, vediamo quanto mi regge (dipende soprattutto da cosa accade al contorno :).


Into the Wild
è un film che si fa guardare con piacere, anche se mi aspettavo molto di più. Gran parte dei meriti del film stanno nella sceneggiatura che non è originale, e quindi di fatto non stanno nel film, ma in cosa l’ha ispirato: una storia molto americana e molto umana, nel senso di atavica, la ricerca dei limiti dell’essere umano in una società che questi limiti li ha nascosti e li nasconde quotidianamente per illudersi di essere immortale. Tutto il resto del film, che dovrebbe fare la differenza con il libro da cui è tratto, e che è altamente consigliabile, non spicca il salto necessario.

Nel dettaglio, un po’ tutto sembra all’insegna dell’ostentazione di qualche tocco di pseudo sperimentalismo, abbandonato nel deserto dell’ordinarietà. La regia è modesta, e solo qualche accorgimento fa sorridere più che altro per la sua pretenziosità nel credere che risolleverà l’intero film e per la sua ingenuità: gli aerei che ci accompagnano tutto il film e che continuano a sottolineare la distanza tra quello che il protagonista cerca e la sua reale condizione. La fotografia è interessante per le parti dinamiche (discesa nelle rapide, movimenti della camera e via dicendo) ma la parte paesaggistica, che dovrebbe essere la forza di metà del film, rimane un po’ appannata e priva di energia, almeno dal mio punto di vista, ma forse è una scelta di Sean Penn. La recitazione è ostentata e per nulla convincente: il protagonista sembra mettersi in mostra per diventare il nuovo River Phoenix, sorriso Durbans a denti bianchissimi e tre vestiti diversi al giorno anche quando è due anni che gira senza soldi per mezza America: un po’ inverosimile no? Ok, gli sponsor, ok, l’estetica americana, ma mi pare un po’ tirato. Il montaggio è interessante anche questo nella parte dinamica, ma per il resto non dice molto: anche gli inserti à la Tarantino 70s dei tagli verticali con diverse scene sembra più qualcosa che serva a dire "vedete anche noi possiamo fare le cose strane" che non una scelta stilistica. Che dire poi delle due volte in cui il protagonista guarda attivamente in camera, completamente estemporanee considerata la scelta del resto del film? Solo bah.

Come detto del film salvo decisamente solo la sceneggiatura (che ci evita la storpiatura del finale come accade in molti film targati USA) e la musica, il resto si aggira nei dintorni dell’appena sufficiente. Il film si fa guardare, e nel panorama delle schifezze che il cinema ci propina è ancora entro la soglia di dignità, ma si poteva fare certamente di meglio.

Voto: 6

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La giusta distanza, un segno dei tempi

3 Novembre 2007 Commenti chiusi

Ieri dopo le fatiche notturne e diurne per chiudere il quarto numero
di City of Gods che uscirà il 9 novembre in occasione dello sciopero
generale e generalizzato, io e blanca ci siamo goduti un meritato
cinema serale, prima di collassare per sopraggiunto limite di ore di
veglia in due giorni 🙂

La Giusta Distanza non è il primo film di Carlo Mazzacurati,
ma per quanto mi riguarda è sicuramente il primo che mi fa un ottima
impressione. L’ambientazione è realistica e precisa, fatta con semplici
tocchi che dipingono un quadro generale estremamente vicino alla vita
di chi guarda il film: la dimostrazione che per fare un buon
noir/giallo non c’è bisogno di grandi invenzioni e di personaggi
caricaturali. Il film è un ottima operazione di popolarizzazione di
temi sociali, e drammaticamente di attualità. Mazzacurati sceglie una attrice di bellezza quotidiana ma rara (Valentina Lodovini), e un attore nordafricano
(Ahmed Hefiane) molto bravo, mentre il personaggio di Giovanni tutto
sommato ha qualche sbavatura (il vaffanculo all’avvocato io l’avrei
fatto rigirare, onestamente…)

Il film racconta dell’ordinario
razzismo delle città e della provincia italiana, della difficoltà di
integrazione, ma della facilità di oltrepassare gli stereotipi. Anche
la scelta del finale non è scontata e non cerca di rifugiarsi da un
mostro emergenziale a un altro, ammettendo la quotidianità del male
senza nessun indugio o velo giustificatorio. Un film molto godibile e
altamente consigliato, anche a Veltroni, che spero adesso si compiaccia dei risultati ottenuti con le sue esternazioni da auto eletto ministro degli esteri della UE.

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Venezia a Milano, otto: il vero leone d’oro

17 Settembre 2007 Commenti chiusi

 

Dopo un giorno di riposo a mente fresca mi affaccio all'Anteo per vedere l'unico vero capolavoro di questo festival: La Graine et le Mulet. Il film di  Abdel Kechiche è una storia di quotidiana fatica e orgoglio, una storia senza eroi e senza retorica sull'ipocrisia delle nostre società, sulla vita e sul lavoro, che insegna il senso della parola dignità. Due ore e mezza che non pesano e che ci guidano con sicurezza attraverso la vita che potrebbe essere anche la nostra e che ci fanno riscoprire un sentimento che dovremmo ricordarci più spesso: l'odio di classe. Questo festival ha premiato i kolossal cinesi e hollywoodiani (che piacciono anche a me, ci mancherebbe), ma dopo aver visto questo film la sensazione è che il premio sia stato assegnato più per compiacere alcune industrie cinematografiche che fanno girare l'economia, una nascente e una morente come quella cinese e quella americana, che non per il vero valore del film. Per ora l'unico film americano che meriterebbe un premio a un festival di cinema e non al botteghino è quello di Todd Haynes. Intanto il nostro personale Leone D'Oro lo avremmo dato a questo regista tunisino di grande talento. Voto: 9.

L'ultimo film della rassegna a onorare le mie pupille è Atonement, altro filmone da botteghino di una qualità decisamente superiore agli altri prodotti di hollywood di questa edizione del festival di Venezia. Il film è una storia vera e potrà essere per sempre citato nei corsi di scrittura e sceneggiatura come "il film dove vi spiegano il perché dei lieti fini". Ben diretto e ben sceneggiato, il suo punto di forza è sicuramente la musica e la coreografia. Gli attori servivano belli e relativamente espressivi, anche perché chiedere a Keira Knightley più di una espressione è un'impresa improba. Molto brave tutte le Briony Tallis. Voto: 7.

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Venezia a Milano, sei: ipocrisie e verità

15 Settembre 2007 2 commenti

 

In the Valley of Elah è stato presentato dalla critica come la migliore autocritica statunitense sull'Iraq: se questa è la migliore mi chiedo come sia la peggiore. Il film è un thriller condito da un po' di guerra e un po' di politica patriottica. Niente del modello americano viene messo in discussione e ogni cosa che ne mostra una crepa non viene indagata ma semplicemente annotata. Il top dell'autocritica è appendere la bandiera a stelle e strisce al contrario. Ci chiediamo se il regista crede davvero che tutto il male della guerra in Iraq sia che i poveri soldatini arruolatisi sono costretti a investire un bambino perdendo la ragione. La guerra è una cosa seria, troppo seria per prendersi in giro. Poi per carità a Hollywood i film li fanno bene. Voto: 5,5.

Viceversa il taiwanese La Maggior Distanza Possibile (titolo ispirato a un poema classico cinese che ne costituisce anche la sigla finale) è un buon film: indagine attraverso i suoni e i paesaggi dei sentimenti e del loro ruolo nella vita. La poesia delle emozioni ti guida verso il luogo più lontano che si rivela essere un passaggio per ciò che ti è più caro, mentre l'approccio razionale (rappresentato dal parodistico personaggio dello psicologo) naufraga miseramente. Ho sorriso al comparire su un piccolo schermo televisivo delle immagini di Wong Kar-Wai, un omaggio a un regista che l'autore di questo film considera evidentemente la sua principale fonte d'ispirazione. Voto: 7.

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Venezia a Milano, cinque: continua il piattume

14 Settembre 2007 2 commenti

Continua la sagra del piattume in questa edizione della rassegna di Venezia (non ci sono né De Palma, né il film 12). Non Pensarci è un film con Valerio Mastrandrea: mi fa spaccare dal ridere anche perché mi ricorda un romanista di merda di mia conoscenza, ma non c'è niente oltre la risata. Per carità a volte è anche più che sufficiente, ma non in un festival del cinema, forse. Voto: 6 (per carità). 

The Hunting Party è un film sulla guerra con Richard Gere e superproduzione hollywoodiana: messo così verrebbe da vomitare istantaneamente, ma il film è cucito con un po' di ironia e ha alcune cose pregevoli. Ad esempio le didascalie finali, la fine che fa il personaggio che rappresenta Mladic e simili merde, e la frase "in guerra ciò che vedi e ciò che succede realmente sono due cose diverse". Per il resto la chiave della trama del film per la quale un morto in guerra a cui vuoi bene fa cambiare la tua idea sulla guerra è semplicemente ributtante, un po' come tutto il pensiero moderno statunitense. Ah, ops, scusate l'antiamericanismo non va più di moda. Ma allora perché questo film? Voto: 6 (perché almeno consente di continuare a parlare della situazione in Yugoslavia, se non altro).

La tragedia viene toccata da Exodus: riedizione pseudo fanta politica della bibbia. Il dubbio è: il regista ha letto la bibbia mentre si drogava, oppure è solamente molto cretino? L'idea iniziale di indagare il clash of civilization non era per nulla male, il resto è una merda. Voto: 4,5.

La prima nota lieta della giornata è Freischwimmer, un bel thriller di marca tedesca dedicato ai piccoli villaggi e alle loro follie endemiche. Il film fa sorridere, mostra la crudeltà del quotidianoe sorprende con un finale in cui il crimine paga. Eccome. Voto: 6/7 (fa molto più di quanto non riescano a fare molte megaproduzioni ed è anche meno mainstream 🙂

La seconda nota lieta è l'egiziano Heya Fawda, polpettone bollywoodiano in salsa araba: divertente, pieno di spunti, un po' lungo e con il finale con tanto di rivolta popolare contro gli sbirri che non può non piacere. Voto: 7.

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Venezia a Milano, quattro: finalmente un paio di altri film sopra la media

14 Settembre 2007 Commenti chiusi

Le rassegne negli ultimi due anni di Cannes e Venezia non sono state eclatanti: forse sono sempre gli stessi i grandi autori e attori, forse di emergenti geniali non ce ne sono molti, forse il media è un po' logoro di suo e la freschezza del contesto culturale non aiuta. In ogni caso dei buoni film si vedono ancora, anche se niente che entusiasmi oltre il limite.

Eccezione negativa della giornata il film di cassetta con Scarlett Johannson che evidentemente ha bisogno di grana tra un film di Allen e l'altro: The Nanny Diaries è una commedia scialba e priva di qualsiasi interesse. Da evitare. Voto: 5.

Eccezione positiva della giornata è Karoy, film kazako estremamente ben fatto e intenso nel dramma psicologico. Il personaggio nella prima parte del film è cinismo puro di grande spasso, e non si capisce come e perché diventi umano troppo umano nella seconda parte del film. Si intuisce un indagine psicologica ma il quid di tutto il film non emerge. Troppi i dieci minuti di piagnistei nei venti minuti finali: tagliare. Voto:  6/7 (di incoraggiamento).

I film più attesi della giornata sono ovviamente il leone d'oro e il filmper il quale Cate Blanchett (nei panni di Jude Quinn) ha ricevuto il premio come migliore attrice. 

Chi arriva a I'm Not There convinto di incontrare una biografia rimarrà perplesso. Chi ci arriva convinto di non trovare una biografia ne rimane travolto. In ogni caso lo sbigottimento è assicurato dal flusso di coscienza che attraversa attori di grandissimo livello (Gere Billy the Kid e Cate Dylan sopra tutti) e una fotografia molto ben realizzata. La colonna sonora non mi entusiasma (ma sono io che non amo la folk music ghghggh). Il film merita e forse il battage come "film su bob dylan" gli fa più male che bene: senza sarebbe stato una film quasi pynchoniano. Voto: 7,5.

Il leone d'oro Lust, Caution di Ang Lee per ora è meritato (salvo sorprese nei prossimi giorni): polpettone storico sulla resistenza cinese nella seconda guerra mondiale che rivela un intensità nel mostrare la psicologia dei personaggi e le loro passioni veramente incredibili. La protagonista forse meritava quanto la Blanchett un premio e il crescendo emotivo lascia senza fiato. Da almanacco la scena tra Kuang, il capo della resistenza comunista e la signorina Wong in cui quest'ultima istruisce i compagni sulla passione e i suoi pericoli. Politicamente corretto (per la cina) sfoga la sua voglia di eludere la censura sul sesso: scene splendide anche su questo fronte. Voto: 8.

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