Inter in campo con una formazione che riteniamo grossomodo obbligata: dietro la solita difesa over 35 salvo il nuovo titolare Natalino, piedi buoni e cervello fino. In mezzo Deki, Cambiasso e Muntari, per preservare Motta. Davanti il tridente degli zero (0) gol: birillo Pancev, pupazzo di neve Sneijder, la trottola Biabiany. A prima vista sembrano scelte sensate, ma noi i giocatori non li vediamo negli occhi prima che entrino in campo, non li osserviamo in allenamento e nelle loro camere in albergo durante il ritiro, perché forse faremmo altre scelte, o forse no, non lo sapremo mai.
Comincia la partita e si capisce che siamo entrati in campo molli come fichi marci: tutti i giocatori hanno una paura fottuta di farsi male e nessuno mette la gamba, con il risultato netto di lasciar giocare sempre troppo l’avversario, che invece ha tutto da guadagnare dalla partita. Deki e il Cuchu giocano ognuno in 3 metri quadrati, con Muntari che cerca di trasformarsi in Lampard o Gerrard, con i risultati che tutti si aspettano. Davanti Biabiany e Pandev non fanno un movimento giusto manco se glielo si traccia con un segnale luminoso, e Sneijder, che già di suo gioca con la voglia di una lumaca in letargo non sa a chi cazzo dare la palla mai. Però con davanti due ignoranti tattici come quelli, uno tutto concentrato a dribblare se stesso e l’altro a cadere sperando di prendere un fallo, è difficile capire se giochi contro l’allenatore o contro il suo amor proprio.
Nonostante questo il primo tempo vede possesso palla nerazzurro e dominio di campo biancoceleste, come da copione. Deki a un certo punto si rompe le palle e quando è costretto a fermarsi per l’ennesimo guaio muscolare (sarà colpa di Maga Magò, nda) si sente echeggiare la frase di Marcellus Wallace: “Senti quella fitta? E’ l’orgoglio che te la sta mettendo nel culo.”
Già, perché se tanto dobbiamo prendere pallonate in faccia almeno facciamolo con i primavera in campo in modo da non rischiare veramente nessuno. Invece Deki, col suo temperamento sanguigno si è fatto fottere dalla voglia di dimostrare di non essere un mezzo giocatore. Ed è stato punito dalla sfiga che comunque ci accompagna quest’anno e che rischia di togliercelo anche al Mondiale per Club.
In ogni caso nel primo tempo si registrano solo un rimpallo verso la porta di Mauri dopo svarione difensivo che viene fermato da un gran intervento di Castellazzi e dalla gambona del Capitano, e poi un rimpallo che dopo il salvataggio sulla linea del Cuchu finisce sull’anca di Grava e in fondo al sacco. Da notare come sull’angolo da cui scaturisce il gol tutti sono lì a dire che cosa devono fare gli altri e nessuno si preoccupi, tra i nerazzurri, di cosa deve fare in prima persona: un emblema perfetto della società di oggi in generale e dell’Inter beniteziana in particolare.
Sul finire del primo tempo tutti vedono che Muntari ha la lingua penzoloni e inizia a dare i numeri – che gli valgono il solito strameritato giallo a inizio ripresa. Chiunque l’avrebbe cambiato, ma il genio che siede in panchina (e in questo caso non è colpa di nessun altro, mi spiace) deve aspettare che più molle di un fico marcio e stanco come un cammello dopo aver attraversato il Sahara perda palla nella trequarti laziale innescando il contropiede biancoceleste: gran palla a scavalcare il povero Natalino, che comunque cerca di fare la diagonale corretta, e tocco sotto a superare Castellazzi. E’ evidente che l’Inter in campo non c’è.
Fuori Muntari e dentro Alibec, ma attenzione, non senza un tocco di genio: punta centrale anziché largo a sfruttare la sua velocità per saltare l’uomo – dato che tra Pancev e Banany non ci si può sperare neanche a esser ciechi. Ci vogliono dieci minuti perché Benny inverta le posizioni del macedone e del rumeno. Ma ormai è tardi. Anche se, dopo decine di rimpalli che finiscono nel vuoto o alla peggio sui piedi avversari, Goran Pancev riesce a imbroccare due rimbalzi di fila che gli rimangono miracolosamente entrambi sul sinistro, e a insaccare il 2-1.
Improvvisamente i nerazzurri si risvegliano e provano a vincere la partita. E se non fosse che il nostro di rimpallo si spegne sul ginocchio di Muslera anziché in porta come quello di Biava, potremmo pure riuscirci. Ma la sorte ha ancora in serbo uno sgarro per noi: Benny manda in campo Santon per cercare di dare un po’ di forze fresche in fascia. Peccato che l’ex Bambino d’Oro non ne voglia sapere e anzi alla prima occasione si mette in barriera come primo uomo, si gira (forse non ha mai giocato in una squadra d’oratorio dove ti insegnano che non ti devi girare mai) e allarga pure la gamba trovando la deviazione perfetta per scavalcare Castellazzi (che comunque non può prendere gol così sul suo palo). Grazie Davide, quando hai detto che vai in prestito al Genoa o al Crotone per ricominciare la tua scalata sociale dallo zero su cui ti sei posizionato?
La traversa a tempo scaduto di Sneijder che improvvisamente sembra voler giocare a calcio cinque minuti è una beffa, e ringraziamo Rocchi che non vuole umiliarci fermandosi al novantesimo con il 4-1 praticamente già in saccoccia in due contro il solo Cordoba in precipitoso rientro. Sconfitta meritata. Vittoria della Lazio meritata. Game Over per il nostro campionato.
Quest’anno puntiamo al terzo posto che è tutt’altro che garantito. Il vero cruccio è che questa nostra sconfitta non serva neanche a lanciare la Lazio verso il traguardo finale, dato che è lapalissiano che a gennaio gli uomini di Reja inizieranno a imbarcare spianando la strada alla squadra del Presidente del Consiglio in tempo di elezioni. E scusate se ho ampi dubbi che le compagini giallorosse o bianconere possano impensierire anche solo lontanamente i cugini. Lo dico da agosto: ci toccherà bere l’amaro calice fino in fondo, e vedere gli odiati biretrocessi raggiungerci a quota 18 (sempre che con la grande capacità societaria che ci ritroviamo Abete non colga l’occasione per toglierci uno scudetto per farci tornare sotto il palmares nazionale rossonero). Con il rammarico di poter fare palesemente meglio di così. E di doverci ritrovare ogni settimana a scazzare su chi dovrebbe assumersi la responsabilità delle gare indecorose che continuiamo a subire come tifosi.