Archivio

Archivio autore

Sharif

24 Agosto 2007 7 commenti

La prima volta che ho avuto a che fare con Sharif, o sceriffo, come lo chiamavamo tutti,  è stata una delle sere in cui come reload avevamo cominciato a gestire insieme ai pergolani lo spazio anche durante le serate. Sharif era talmente ubriaco da non reggersi in piedi e da non riuscire ad essere spostato dalla sedia arancione di gomma e metallo su cui era riverso. Erano le cinque del mattino, io e marvin stavamo chiudendo la baracca insieme a quattro altri disperati e non ce la facevamo più. Lo abbiamo preso di peso e lo abbiamo portato con tutta la sedia fuori sul marciapiede, poi abbiamo chiamato un'ambulanza per timore che se fosse rimasto lì da solo avrebbe rischiato il coma etilico. 

Sharif era un egiziano di non si sa bene quanti anni, non si sa bene di quale città, e non si sa bene da quanto tempo fosse in Italia, arrivato con suo fratello Mario alcolista peggio di lui, ma con molta meno voglia di provare a tirarsene fuori di lui. Lo sceriffo era l'esemplificazione vivente di come la ferocia milanese e italiana può aggredirti e ferirti, lacerarti. Sharif era un alcolista, ed era un brava persona, un uomo buono. Sharif era anche vittima di sé stesso, ma gli anni in cui ho condiviso il quartiere Isola con lui mi hanno dimostrato che sarebbe bastato poco per renderlo una persona felice.

Di lui le leggende del quartiere raccontavano che fosse stato un grande chef prima di cadere nella trappola dell'alcool, e quando lo vedevamo con noi dietro i fornelli in Pergola dava prova del fatto che queste voci forse non erano del tutto infondate. Il romanticismo della sua figura stava tutto nelle voci che lo circondavano, e nei piccoli fatti di disperazione quotidiana che ti sembravano trasformare quelle voci in delle grottesche storielle. Sharif che spaccia pochi grammi di hashich per sbarcare il lunario, Sharif che ci aiuta a tenere aperta Pergola, sperando di poter dormire per una notte nel cortile senza dover cercare una panchina qua e là, Sharif che mi supplica una birra, l'ennesima e io che gli rifilo un the caldo. Sharif che mi guarda cercando di farmi capire che sa che lo sto facendo per ridurre il suo abbrutimento, ma che con la sua voce roca mi chiede lo stesso un'ultima birra. Sharif besce bollo zigarett.

Sharif è una leggenda urbana e una storia vera, di quelle che ti aiutano a capire la città in cui vivi, che ti aiutano a percepire come le cose sotto sotto siano molto meno rosee e piacevoli di quelle che vorresti immaginarti. Un egiziano che con la sua vita sregolata e semplice nei suoi bisogni riusciva sempre a strapparti un sorriso, e al tempo stesso un commento amaro su come ogni chance fosse effimera di fronte a lui. Mille volte si è rimesso in sesto, vivendo con noi e trovando lentamente un modo di vivere un po' più rispettoso di sé stesso. Mille volte lo abbiamo ritrovato abbrutito. Senza soluzione di continuità.

Sharif rimane per me un esempio della vita diafana di un migrante a Milano, nel bene e nel male, una figura a cavallo della vita ordinaria che pensiamo sia normale e della vita straordinaria e misera che è spesso la normalità. Sharif è un pezzo della mia vita nel quartiere Isola.

Sharif è morto qualche giorno fa, rimasto a Milano a barcamenarsi negli stenti. E' morto da solo, come è vissuto da solo, nella semipermeabilità delle nostre vite parallele. Ho voluto bene a Sharif e avrei voluto riuscire a descrivere meglio il senso paradossale che ha avuto nelle nostre vite. Sta sera gli offro un ultimo the virtuale, alla cannella come piaceva a lui, con una marea di zucchero, e forse stasera potrei dargli anche l'ultima birra.

 

Categorie:storia e memoria Tag:

William Gibson parla del presente attraverso la SF

21 Agosto 2007 5 commenti

William Gibson è stato senza dubbio uno degli autori più importanti nel panorama della letteratura di genere e non degli anni ottanta e novanta: negli ottanta quando scriveva e nei novanta per l'eco dei suoi libri degli anni ottanta. Negli anni novanta si è perso, uccidendo la stima che ognuno di noi provava per il suo talento con libri indignitosi (Idoru o Virtual Light andrebbero cancellati dagli annali delle pubblicazioni). Il nuovo millennio ha portato all'autore di stanza Vancouver nuova linfa e ispirazione: dopo un decollo modesto in American Acropolis, il suo penultimo libro Pattern Recognition è un capolavoro sui livelli di Neuromancer. Ogni volta che vado in Inghilterra mi porto indietro una nuova pubblicazione che in Italia si vedrà tra mesi: l'anno scorso ho potuto gustarmi Anansi Boys di Neil Gaiman (molto modesto a dire il vero), e quest'anno ho messo in saccoccia Spook Country

Gibson con il precedente libro è tornato a scrivere Science Fiction nel senso più profondo del termine: libri che descrivono paradigmi per interpretare la realtà, chiavi di lettura per decifrare quello che ci sta accadendo intorno, con l'alibi vagamente tranquillizzante della collocazione in un futuro più o meno remoto. In una recente intervista l'autore adottato da Vancouver ha spiegato perché la sua Science Fiction non è più ambientata nel futuro ma nel presente. Oltre a confermare il carattere di modulo interpretativo del presente che la fantascienza ha da sempre avuto, Gibson sintetizza molto bene l'immediatismo a cui i nostri tempi ci hanno destinato: "There's a character in my previous novel, Pattern Recognition ,
who argues that we can't culturally have futures the way that we used
to have futures because we don't have a present in the sense that we
used to have a present. Things are moving too quickly […]"

Spook Country è sicuramente un lavoro meno intenso da un punto di vista delle potenzialità e della profondità delle sue implicazioni cognitive e culturali, rispetto a Pattern Recognition, ma segna un ritorno a molte delle cose che hanno reso William Gibson unico nel panorama letterario, senza per questo imboccare la strada suicida della monotonia: il romanzo usa il classico stile di montaggio a mosaico senza sbavature, e inserisce la tecnologia nella quotidianità, rendendola al tempo stesso un perno della storia e una scusa per parlare di altro. Come al solito lo scrittore nordamericano risulta sempre un po' artefatto quando parla di tecnologia in senso stretto, ma questo è un limite che all'epoca dei suoi primi romanzi (nell'1982) era diventato un suo punto di forza, traducendo le prospettive tecnologiche in qualcosa di verosimile ma non scontato, accennato, sfumato nella sua possibilità.

Il libro e l'autore si crucciano su un nodo culturale su cui anche io mi incastro da tempo: le tecnologie, in particolare alcune tecnologie, modificano in maniera sostanziale la nostra percezione della realtà, definiscono il nostro contesto cognitivo e di fatto alterano la nostra visione di ciò che siamo, di ciò che sono gli altri e il mondo in cui ci muoviamo. Le tecnologie sono un fattore di pesante influenza antropologica e culturale in altre parole.

Il problema, adesso come negli anni ottanta e novanta (e come anche nell'800, basti pensare allo scontro ideologico tra Tesla e Edison), è che le tecnologie non sono di tutti, ma appartengono a persone ben precise, alla sfera dell'economia, a soggetti che attraverso il controllo di queste tecnologie possono esercitare un controllo profondo sulla nostra evoluzione come esseri umani (individualmente e collettivamente, socialmente).

"The original only exists on the server, when I'm done, in virtual dimensions of depth, width, height. Sometimes I think that even if the server went down, and took my model with it, that that space would still exist, at least as a mathematical possibility, and that the space we live in…" He frowned.
"Yes?"
"Might work the same way." He shrugged, and picked up his burger.
You, she thought, are seriously creeping me out. 

[…]

"Right now, if you hadn't been told it was here, there'd be no way for you to find it, unless you had its URL and its GPS coordinates, and if you have those, you know it's here. You know something's here, anyway. That's changing, though, because there are an increasing number of sites to post this sort of work on. If you're logged into one of those, have an interface device" – he pointed to the helmet – "a laptop and wifi, you're cruising."
She thought about it. "But each one of those sites, or servers, or… portals…?"
He nodded. "Each one shows you a different world. Alberto's shows me River Phoenix dead on a sidewalk. Somebody else's shows me, I don't know, only good things. Only kittens, say. The world we walk around in would be channels."
She cocked her head at him. "Channels?"
"Yes. And given what broadcast television wound up being, that doesn't sound so good. But think about blogs, how each one is actually trying to describe reality."
"They are?"
"In theory."
"Okay."
"But when you look at blogs, where you're most likely to find the real info is in the links. It's contextual, and not only who the blog's is linked to, but who's linked to the blog."
[…]
"Then why aren't more people dooing it? How's different from virtual reality? remember when we were all going to be doing that?" The yellow rectangle was made of die-cast yellow metal, covered with glossy paint. Part of a toy.
",We're all doing VR, every time we look at a screen. We have been for decades now. We just do it. We didn't need the goggles, the gloves. It just happened. VR was an even more specific way we had of telling us where we were going. Without scaring us too much, right? The locative, though, lots of us are already doing it. But you can't just do the locative with your nervous system. One day, you will. We'll have internalized the interface. It'll have evolved to the point where we forget about it. Then you'll just walk down the street…" He spread his arms, and grinned at her.
"In Bobbyland," she said.

Ma nel libro di Gibson, come nella realtà esistono meccanismi che sfuggono tra le pieghe di una maglia non così fitta come la si vorrebbe di controllo della definizione della realtà. Nei libri dell'autore di Vancouver (ed è questo l'altro tema che ritorna con prepotenza negli ultimi due libri e che non si viveva con intensità dai tempi di Neuromancer  e Count Zero) la linea di fuga dell'uomo è rappresentata dalla coscienza, dalla consapevolezza dei processi in atto, anche solo intuitiva: il personaggio più enigmatico del libro si fa guidare nelle sue missioni dagli spiriti, fondendo e fondando la sua percezione della realtà su un curioso miscuglio di dati reali e di intuizioni a livello irrazionale e intimo. Gli spiriti entrano tanto quanto la tecnologia nella definizione della sua realtà, la modificano, la costruiscono: i loa cubani di Tito (in questo libro al Voodoo haitiano Gibson sostituisce la Santeria cubana) rappresentano nella letteratura di Gibson il sincretismo delle vie di fuga dell'uomo con una realtà definita nei suoi paradigmi interpretativi da un presente tecnologico, l'irrazionale che costituisce un elemento cruciale della percezione del sé e del mondo interpolandosi con il razionale. Per non renderlo tutto troppo mistico ovviamente Gibson inserisce altri personaggi che incarnano l'uomo che attraversa la tecnologia integrandola nella propria percezione della realtà, ma i loa rimangono la dimensione più evocativa di questo scontro tra imposizione di realtà e costruzione di realtà.

In fondo in fondo i loa sono agenti culturali, come uno scrittore, come un giornalista, o come anche qualcuno che cerca di portare il proprio modo di fare politica e di percepire il mondo soprattutto all'interno del mondo reale e non nel proprio idilliaco ghetto in cui tutti (e in maniera abbastanza scontata) la pensano più o meno in maniera simile (alla fine il paradigma imposto della compagnitudine non è molto meglio del paradigma imposto da Google… ci sembra solo più ideologically correct, ma non è detto che questo sia meglio del politically correct del colosso di Mountain View e del suo don't be evil…)

Categorie:jet tech, pagine e parole Tag:

La palla è rotonda, gli arbitri sono quadrati.

20 Agosto 2007 Commenti chiusi

 

L'Inter manifesta nel primo impegno ufficiale stagionale di non aver ancora risolto i problemi principali che hanno ridimensionato la grandezza di una squadra dall'organico incredibile: le bizze di Mancini e il poco carattere nelle sfide decisive sono ancora lì, e fino a che non verranno affrontate e risolte una volta per tutte noi interisti dovremo ingoiare sempre alcuni bocconi amari. La partita tutto sommato è stata equilibrata e se avessimo vinto noi uno a zero nessuno avrebbe potuto lamentarsi, come nessuno può dire alla Roma di non aver vinto una partita meritatamente.

Veniamo alle valutazioni sulla beneamata: cominciamo la partita come al solito con cinque uomini fuori ruolo e con alcuni posizionamenti sul campo un po' perplimenti. Un terzino fa il centrale (Cordoba), due centrali i terzini (Chivu e Burdisso), un altro terzino fa il centrocampista (Zanetti) e una punta (Ibra) gioca mezz'ala arretrata, Stankovic è in campo con la febbre e si vede, dato che per tutto il primo tempo e una buona parte del secondo tempo è un cadavere deambulante. Mancini come al solito eccelle nelle correzioni in corsa: fa scaldare Figo per tutto il primo tempo ma lo mette dentro al cinquatacinquesimo, ovviamente al posto di Vieira, lasciando Stankovic in campo. Il secondo cambio è forse il più sensato: fuori Dacourt, dentro Cambiasso. Il terzo è un oltraggio al pudore: al 33' andiamo sotto di un gol, al 42' mette dentro Cruz. Sicuramente perché Crespo alla richiesta dell'allenatore di prepararsi a entrare a un minuto dalla fine ha risposto con un sonoro vaffanculo, cosa che il bravo ragazzo di Santiago de l'Estero una volta di più non ha fatto per la sua indole mite.

La difesa gira bene e chiude molto bene gli spazi anche se le posizioni un po' bislacche si fanno sentire. Il centrocampo che doveva essere la morsa per chiudere la Roma filtra molto meno del previsto con uno Stankovic inesistente: Giuly, Aquilani e De Rossi fanno il cazzo che vogliono e da loro partono le iniziative che ci fanno soffrire. Davanti Ibra e Suazo si intendono ma Ibra è troppo arretrato e troppo esterno, mentre l'honduregno è troppo solo. In ogni caso due volte Ibra, due volte Suazo e una volta Figo si mangiano il gol fatto della vittoria. Il pallone, come si sa, è rotondo.

C'è di buono che le dichiarazioni del dopo gara sembrano far intendere che il bagno di umiltà potrebbe rivelarsi utile. D'altronde i romanisti l'umiltà non sanno neanche dove sta di casa e si confermano antipatici tanto quanto gobbi e rossoneri, un gruppetto al quale forse potevano evitare di associarsi. Le dichiarazioni di tutti si intende, tranne quelle di Mancini che con la rosa dell'Inter (che in panca schierava Samuel, Figo, Crespo, Cruz, Toldo, Cambiasso, Maxwell; e in tribuna Adriano, Recoba, Solari, tra gli altri) si permette di affermare "ho poche alternative a destra": certo che se continua a scambiare Cordoba per un centrale (è un terzino destro per formazione) e Zanetti una non alternativa difensiva (anche lui nato terzino destro) non le avrà mai le alternative. Spero Moratti gli sputi in un occhio.

Ma il vero protagonista della serata, che ha falsato la partita e mi ha fatto ricordare le nostre annate più buie, non ha la casacca giallorossa, né quella nerazzurra: si chiama Rosetti, ed è il miglior arbitro italiano nel nuovo corso dalle sorti magnifiche e progressive dell'AIA guidata da Collina. Rosetti è malato di protagonismo, e su questo tra le giacchette nere in Italia non è certo in risicata compagnia. Ma Rosetti ha arbitrato una partita come ai tempi di Moggi e compagnia varia: e non sto parlando del rigore che c'era ed era sacrosanto (Burdisso è un babbo), ma dei circa cinquanta falli in attacco che ci ha fischiato. I campionati taroccati li abbiamo sempre persi così: in uno stillicidio di falli fischiati dubbi o inesistenti nella maggior parte dei casi. E' un modo sottile e meno coreografico di influenzare una gara, e i fischietti abituati alle aggiustatine lo sanno bene. Se il resto del campionato che ci attende è composto da arbitraggi di questo calibro, possiamo anche chiudere baracca e burattini e dare ragione alla vox populi che intona: "Vi hanno dato il contentino l'hanno scorso ma quest'anno non vi faranno vincere un cazzo. Sfigati". Come sempre sfigati sì, ma orgogliosamente interisti.

 

Categorie:spalti e madonne Tag:

Luglio col Bene che ti Voglio

23 Luglio 2007 2 commenti

D'estate si sa, il giallo tira. La gente ha voglia di storie, che cominciano, che finiscono, in cui i vinti vincono e i cattivi perdono, che poi al largo, sulla barchetta, durante l'aperitivo, già c'è la scottatura a dare fastidio, ci manca anche un impiccio letterario. Potremmo pure dire che il giallo sta tirando un pò tutto l'anno, come i complotti, gli intrighi, i giochi di potere.

La memoria pop letteraria dalla quale attinge blackswift è popolata di rotocalchi estivi, quelli che poi ci fasciavi le uova, la verdura o li mettevi per terra quando si doveva dare il bianco ai muri, con storie apocalittiche, per lo più famigliari, di disgrazie, di impercettibili attinenze con il reale. Una sorta di precursore di reality fiction che proprio perché partiva dalla realtà (omicidi tra le mure domestiche, storie italiane di scappatelle finite in tragedie, ecc) costituiva una straordinaria via di fuga, nel negozio del parrucchiere, del barbiere, nei cortili estivi, sulla spiaggia.

Lupo Liboni inaugurò la stagione dei nuovi mostri per l'estate. Balordo, mezzo, anzi tutto, fascistoide, si era tirato dietro le ire funesti delle comari di mezza Italia, specie quelle che scrivono sui quotidiani. Carlotto ne fece un ritatto che impressionò, parlando di insofferenti e prevedendone la fine che da lì a poco Lupo avrebbe trovato.

Una storie minore, assurta agli onori delle cronache, in mancanza di scalini, scaloni, scalate e intercettazioni. L'Italia lo voleva morto e lui morì. E allora, in epoca di romanzi criminali e di rivalutazione di hard boiled alla Ellroy, è un piacere dipingere la vicenda di Lupo Liboni in qualcosa di piccolo e grande allo stesso tempo. Una storia di balordaggine, inserita in uno dei periodi bui dell'Italia. Una straordinaria e casuale concomitanza di date. Una bizzarra, e molto meno comica delle premesse, storiella che non sembra molto più strana di quanto si potrebbe leggere sui giornali.

La chiamiamo reality fiction. Partenza dal reale per trasfigurare la realtà stessa. O per dare una propria lettura, con l'artifizio delle storie. E' solo un racconto, un divertissment. Un piccolo mostro per l'estate 2007.

Che gli insofferenti continuino a correre.

Su Blackswift esce il mostro dell'estate da portarvi sotto l'ombrellone: Luglio col Bene che ti Voglio.

Per ripassare: il folder sugli insofferenti che neanche i reloadiani hanno dimostrato col tempo di capire bene (si sa che quasi sempre si predica bene ma si razzola male <g>)

Categorie:pagine e parole Tag:

In attesa del mostro…

19 Luglio 2007 Commenti chiusi

 

Blog un po' spento ma l'estate spegne i neuroni in alcuni sensi e li riaccende in altri. Con il mio socio siamo in fervente attività di programmazione per Blackswift (che vi ricordo al momento è raggiungibile solo attraverso il suo dominio secondario noswift.org). In attesa di pubblicare per voi il mostro per l'estate, il racconto sotto l'ombrellone, come tutti gli autori che si rispettino, abbiamo finalmente pubblicato il racconto cinese di reality fiction che per ora campeggiava solo nella home page del blog di quel rimbambito che scrive narrativa insieme a me. E' pigro, cosa ci devo fare?

Gustatevi La Ragazza è Senza Nome di D.G. Blackswift !

Categorie:pagine e parole Tag:

Lista aggiornata recensioni e interviste Blackswift

11 Luglio 2007 7 commenti
Categorie:pagine e parole Tag:

Google e la broadband

10 Luglio 2007 3 commenti

Nessuno mi caga, come è giusto che sia, ma io mi ricordo di quello che scrivo ed elucubro (che parola terribile :). Qualche tempo fa infatti continuavo nella mia interrogazione delle linee progettuali di Google in direzione del controllo totale della nostra percezione del reale (e di conseguenza della nostra effettiva coscienza) e individuavo nella corsa alla conquista delle infrastrutture di comunicazione e nello sviluppo di piattaforme integrate totali (integrate con la realtà ovviamente) due delle principali prospettive per il colosso di Mountain View.

Oggi mentre cazzeggiavo tra i feed dopo un po' di tempo che non avevo voglia (o tempo) di leggerli, il mio occhio sifulo cade giusto su due notizie: Google sta pensando di partecipare all'asta per l'assegnazione della banda a 700Mhz del governo statunitense, in concorrenza con le principali Telco mondiali; se non riuscirà a vincere è già attivamente in fase di lobbying per consentire l'apertura (alle proprie strutture quantomeno) del nuovo settore wireless a larga banda che si sta mettendo in vendita. Contemporaneamente la seconda notizia concerne l'imponente studio di settore su un meccanismo convergente per il cosiddetto "Social Networking 2.0" (fonte Punto Informatico).

Ora, farmi i complimenti per la veggenza mi pare troppo, però è molto interessante come le linee prospettiche di Google siano parecchio più intelleggibili di un tempo.

 

Categorie:jet tech Tag:

Intervista e recensione su Monocromatica in occasione della presentazione a Roma

8 Luglio 2007 Commenti chiusi

Intervista e recensione su Monocromatica in occasione della presentazione a Roma in cui sono intervenuti anche Andrea Capocci ricercatore precario di bell'aspetto e Maurizio Ilardi, professore di sociologia, che hanno molto apprezzato il libro e con cui si è dato vita a un interessante discussione 🙂

[ dal sito della libreria rinascita ] 

Questo lo pseudonimo dietro cui si nascondono due ‘attivisti dell'underground milanese’, autori di Monocromatica, edito da Coloradonoir.
Questo romanzo, tra il noir e il fantasy, nato online , si è evoluto
anche grazie all’esperienza e ai consigli di chi ne ha proposto la
pubblicazione: Sandrone Dazieri e Andrea Cotti. Il duo di scrittori ci
ha portato in una Milano moderna e riconoscibilissima, ma dagli aspetti
misteriosi e indecifrabili.

Il vostro romanzo si forma online. Credete che il web sia un mezzo efficace per la diffusione della cultura?

La
gestazione di Monocromatica è avvenuta online: per noi questo è un
aspetto fondamentale. Innazitutto perché esprime la nostra apertura: il
web ha una forza di coinvolgimento enorme e i suoi tentacoli possono
toccare chiunque. Tra gli elementi che ci affascinano di più di
internet c’è la sua straordinaria possibilità di relazione. D’altra
parte, crediamo che il rapporto tra internet e cultura sia ambivalente:
può veicolare qualsiasi tipo di contenuto culturale a chiunque, ma
d’altra parte è anche una causa dell’imbarbarimento che abbiamo davanti
agli occhi. Perché banalizza e appiattisce. Non è un caso che si
registri un aumento dell’analfabetismo: le persone vedono di più e sono
disabituate a leggere. Allo stasso modo, cala l’attenzione per la scena
singola e per i dettagli. Sul web si passa da una finestra alla
successiva e tutto scorre in fretta.

Dallo
pseudonimo per firmare in coppia il libro, al rapporto con il web …
sono diversi i punti di contatto con il collettivo di scrittori Wu
Ming… è così?

Ci
sentiamo simili al collettivo di scrittori, perché proveniamo
dall’attivismo politico e crediamo che fare letteratura sia un modo per
inserirsi nella società e apportare dei cambiamenti. L’impegno di chi
scrive dovrebbe essere quello di instillare in chi legge il dubbio che
ci sia ‘qualcosa che non va’,  offrire spunti di
riflessione, spezzare la monotonia della cultura globalizzata. Dai Wu
Ming ci discostiamo invece per la tecnica narrativa e per il modo in
cui costruiamo le parti delle nostre storie. Sebbene scriviamo brani in
autonomia, ci incontriamo, ci confrontiamo, e discutiamo insieme di
modifiche e sostituzioni. Puntiamo ad un flusso omogeneo di fatti e
parole.

I
generi cha vanno dal giallo al noir, al poliziesco stanno vivendo un
momento di interesse e vitalità. Avete un'opinione in proposito?

Viviamo
in tempi di imbarbarimento e a forti tinte di chiaro e scuro. Il noir
mette in evidenza gli aspetti paradossali della nostra quotidianità. In
Monocromatica ci sono diversi problemi: dalle condizioni di chi è
immigrato, alla differenza tra la percezione e la realtà della vita
nelle strade di grandi metropoli. Tramite un’operazione di reality
fiction mascheriamo esperienze realmente vissute e accadute con il velo
della narrativa, che tramite il gioco dell’immaginario, evidenzia le
storture della realtà. Il noir intorbidisce le ombree e illumina le
zone chiare. Ne esalta le contraddizioni e gli strappi, le incongruenze
e i contrasti: è molto vicino allo spirito dei nostri anni.

[ da Liberazione ]

"Monocromatica", un noir di R. S.
Blackswift, nome collettivo dietro cui si celano due attivisti della
scena underground milaneseall'esordio. Il libro è nato sul web dalla rielaborazione di loro racconti ad opera dei lettori. Oggi la presentazione a Roma
Milano, storia di una città cosmopolita in chiave fantasy
di Emanuela Del Frate

Si intitola Monocromatica ed è un noir ambientato a Milano. Eppure è un
libro pieno dei colori e delle mille sfumature che intercorrono tra il
bianco e il nero. R.S. Blackswift non è un affermato autore inglese o
americano, bensì un nome collettivo – non anonimato ma "polinomia", ci
tengono a sottolineare – dietro cui si celano due attivisti della scena
underground milanese al loro esordio sulla carta stampata.
Il libro
(edizioni Colorado noir – Mondadori, pp. 245, euro 15) nasce infatti
come un gioco sul web; un sito – http://blackswift.org – in cui, usando
gli strumenti della cooperazione in rete, i due autori hanno iniziato a
scrivere racconti lasciandoli a disposizione di chiunque li volesse
leggere, commentare, arricchire con osservazioni, critiche e
suggerimenti. Poi l'incontro con Sandrone Dazieri che, impegnato nella
nuova avventura della Colorado noir, insieme a Gabriele Salvatores e
Maurizio Totti, prende per mano R.S. Backswfit e apre loro le porte
dell'editoria.
Se il noir è, come lo definisce il regista, «il
genere letterario più titolato a raccontare la realtà in cui viviamo
che è fortemente anormale, ossessiva, illegale: è uno sguardo deviato»,
Monocromatica è perfetto per la nuova collana distribuita dalla
Mondadori. E' uno sguardo obliquo quello con cui i due autori guardano
Milano; una Milano grigia, dal cielo plumbeo e uniforme, ma nella quale
convivono tutti i colori di una popolazione multietnica, dove, negli
angoli nascosti della frenetica città della moda, si celano migliaia di
differenti vite e storie e, a volte, basta solo uno sguardo attento per
saperle svelare e mostrare. Così i personaggi che animano questo libro
sono quattro eroi metropolitani un po' sui generis.
C'è Fernando, il
killer che si lamenta della propria professione, non tanto per rimorsi
di coscienza, ma perché a Milano è disoccupato in pianta stabile. «"In
questa città del cazzo non si ammazzano mai" pensa quasi ad alta voce.
Scazzano, trafficano, spacciano, si menano, sbraitano, ma non si
ammazzano se non per una coltellata o un colpo di fucile partito quasi
per sbaglio. Nessuno cerca mai qualcuno per ammazzare qualcun altro».
C'è Hassan che ha solo 17 anni e che non ne può più di vivere in una
città che lo rifiuta, in cui deve guadagnarsi ogni volta un nuovo posto
dove dormire cercando di stare lontano dai guai dei suoi connazionali e
dalla polizia. Senza soldi, senza la speranza di trovare un lavoro,
senza futuro.
C'è Li, una ragazza cinese che per riuscire a muoversi
all'interno della sua comunità si costringe a fingersi uomo – per
scappare al «ruolo già assegnato al suo sesso nella società cinese in
esilio» – dividendosi tra il lavoro da fattorino e quello da cameriere.
E poi c'è un nero africano dai molti nomi che vende fumo agli angoli
delle strade, ma che sembra celare, dietro la sua serafica calma,
poteri sciamanici. E, ovviamente, c'è un mistero da svelare a tutti i
costi per poter avere salva la vita e l'immancabile – vista la storia
personale di R.S. Blackswift – hacker che, con la sua attitudine al
"metterci le mani dentro", darà un contributo fondamentale per
sciogliere i nodi dell'intrigo. Potrebbe anche essere tutto qui, dietro
ai classici elementi di un noir, ma Monocromatica non è esattamente un
noir. Nella storia si intrecciano elementi storici, fantasy e un
accennato tocco di esoterismo. Milano scalpita, vive e rivive, racconta
qualcosa in ogni angolo, in ogni strada, e non si tratta soltanto della
storia attuale. E' una Milano che cela e svela storie più o meno
antiche che hanno contributo a costruire la sua attuale identità di
città caotica e cosmopolita.
All'inizio è un po' difficile seguire
il filo degli inserti storici, ma l'impianto narrativo è buono e la
lettura diventa a mano a mano sempre più semplice ed avvincente. La
storia del mondo è scritta col sangue recita l'altisonante sottotitolo
del libro; è il sangue da cui ha preso vita la città con la sua attuale
morfologia, a partire da quello della giumenta sacrificata nella
pianura in cui sorgerà la metropoli. E' il sangue versato dalla fame di
potere della Chiesa ambrosiana, delle "streghe" bruciate
dall'Inquisizione, di Varalli e Ribecchi uccisi negli anni Settanta da
fascisti e polizia. Il sangue non è altro che il segno più tangibile di
una storia che si inscrive nell'eterna opposizione tra oppressione e
movimenti di liberazione.
Contraddizioni e scontri tra opposti che
spingono ad elaborare il passato come il presente, ad esplorare punti
di vista differenti e lasciando sempre aperta la possibilità del
cambiamento, della contaminazione e della trasformazione. Possibilità
che si scoprono tutte in un finale che non si può far a meno di leggere
senza sorridere. Un buon esordio per questo "autore collettivo" che
sarà oggi a Roma, (libreria la Rinascita, largo Agosta, ore 19) a
presentare Monocromatica insieme a Lanfranco Caminiti, Massimo Ilardi e
Andrea Capocci.

Categorie:pagine e parole Tag:

Buone nuove dai mainstrem (non par vero!)

5 Luglio 2007 1 commento

 

Nel giro di dieci minuti, a scavare neanche troppo a fondo, si possono reperire informazioni interessanti: ad esempio posso passare dal sito di Luca Volonté (che ci spiega perché il giochino di molleindustria al centro della querelle di questi giorni è falso e tendenzioso), alle ansa pubblicate su repubblica che mi dicono il contrario ("Prete condannato a 4 anni per pedofilia", ovviamente anonimo, menre quando ci chiedono dei nostri reati vogliono sapere anche il cognome da nubile di mia madre).

Poi giri pagina e trovi che è arrivata un'altra condanna civile al risarcimento danni per le botte subite durante le cariche indiscriminate della polizia a Punta Vagno, sabato 21 luglio 2001, a conclusione delle mobilitazioni contro il g8. Se la donna in questione riceverà 24 mila euro, direi che il g8 e la "sbadataggine" della polizia costeranno molto cari al Ministero degli Interni. Non fossero soldi nostri quelli degli stipendi con cui vengono pagati quelli che ci hanno menato sarebbe meno ironica la situazione…

Restate sintonizzati perché da settembre sul g8 ne vedremo parecchie (belle non saprei….)

 

Siamo i buoni. Sempre detto.

5 Luglio 2007 8 commenti

 

Mi sono perso via UN'ORA 🙂

Io sono arrivato a 995, lesion battuto a 870, sospetto il massimo sia mille.

Buon Divertimento

Categorie:movimenti tellurici Tag: