Pre Scriptum: quella merda del mio socio approfittando della mia temporanea carenza di connessione mi ha bruciato sul filo di lana e ha pubblicato la recensione di questo libro prima di me, nonostante il testo glielo abbia prestato io.
Genova sembrava d’oro e d’argento è il secondo romanzo di Giacomo Gensini, ex celerino. Scritto senza particolare bravura e senza particolare infamia, ha però un grande pregio. E’ la storia di uno stronzo. E’ la storia vista e raccontata da qualcuno che sta dall’altra parte della barricata, anche se definire la barricata è l’impegno più interessante. Ha i suoi limiti e i suoi pregi, e devo dire che mi aspettavo di peggio.
Ormai di Genova hanno parlato tutti, e non c’è motivo per cui non ne parli anche la voce di uno sbirro del VII Nucleo Antisommossa – i famosi Canterini boys – e proprio per questo per me, che ho vissuto quei giorni, i giorni successivi e gli anni che hanno trascinato con loro le ricostruzioni, gli atti dei tribunali e i racconti di chi è stato e di chi stato non è, è un libro interessante.
Se dovessi darne una descrizione direi che è la dichiarazione di ineluttabilità di quanto è avvenuto e di quanto avviene, direi che alla fine dei conti per chi sta da quella parte della barricata archiviata la constatazione di un sistema marcio di cui essere ingranaggio, l’unica giustificazione è quella dell’inevitabilità del tutto, della dimensione intrinseca alla natura umana e alla società di quanto Genova è stato e ha rappresentato per tutti. E io penso che sia un po’ troppo comodo.
"Il consumismo, l’ipercompetitività, il mito del successo, l’individualismo patologico esasperavano le frustrazioni e acuivano la violenza. Un sistema fuori controllo e sempre più squilibrato provocava squilibri. Per questo la finzione dei diritti non poteva durare a lungo. Prima o poi, se l’apparato (del quale chi più chi meno facevamo parte) voleva sopravvivere, la repressione doveva diventare metodica e libera dagli ideali delle rivoluzioni del diciottesimo secolo."
"I potenti e le lobby che li sostenevano si vedevano nella città dei Doria per decidere le loro quote di mondo. Niente di più. Noi e i manifestanti non avevamo alcun ruolo in tutto questo, non eravamo influenti, se non a un livello infinitesimale. Ma avremmo fatto un sacco di colore."
Il libro è onesto, secondo me, e molto istruttivo di come si percepisce lo sbirro medio del reparto mobile, delle contraddizioni che vive, delle ragioni che si da, al di fuori della retorica e dell’ipocrisia. Anche quando dipinge i poliziotti come uomini e non come robot o come fanatici: mette a nudo le contraddizioni e perpara il terreno per la vittima sacrificale delle spiegazioni che Gensini si è dato di Genova: la necessità antropologica e storica.
"Fatto sta che le veline ottenevano un unico scopo: renderci ogni giorno più nervosi. Caricarci come molle. […] Era il peggior modo possibile di reagire, ma anche l’unico. E non parlo della solita storia di rischiare la pelle per milletrecento euro al mese, con tutta la retorica annessa. Queste alla fine erano cazzate: l’avevamo scelto. Parlo del fatto che noi comunque eravamo e restavamo uomini. Credevano davvero che indossare un caso e una tuta ci rendesse immuni alla fatica e alla paura? Immuni alle emozioni… alla tensione, alla rabbia? No… nessuno di loro lo credeva davvero, […] ma fingevano che non fosse né possibile né accettabile, difendendo l’ipocrita mondo immaginario raccontato in tv."
"Perché quello che condividiamo non è la divisa, ma un segreto. Un segreto sull’umanità e sulla sua miseria. Sullo squallore della sua cieca violenza, sui suoi egoismi, sulle ipocrisie. Noi sappiamo cosa c’è dietro la facciata. Ed è questo che ci rende fratelli."
"Ma gli scioperi, gli sfratti, le rivendicazioni sociali di qualunque tipo sono un’altra cosa. Ogni volta dobbiamo trasformarci in automi, ogni volta. Quello che ci salva è che i nostri antagonisti scatenano regolarmente su di noi la loro rabbia, come fossimo stati noi a decidere. E noi non possiamo fare altro che difenderci."
"Lo spettacolo è incredibile, Genova sembra bruciare di mille incendi, un fumo nero e denso sale al cielo. Sirene lontane, grida lontane e un sole che sorride cattivo, soddisfatto dello spettacolo. Genova avvolta dal fumo e dalla rabbia… bellissima e nuda. Non so perché alzo le braccia al cielo e grido un grido di trionfo, grido la mia rabbia e la mia gioia. Grido per liberare la tensione. Grido perché era cos che l’avevo immaginata e desiderata. Grido perché so che questo è solo l’inizio."
Dopo questa sbrodolata di tuttosommato apprezzamenti veniamo al dunque. L’accusa più grande che si trova nel libro sostanzialmente è che laddove i poliziotti sono meccanismi inconsapevoli ma schietti del conflitto di potere, i manifestanti sono invece parte di quel conflitto di potere stesso. L’autore assume nei confronti della nostra parte della barricata un atteggiamento solo un filo meno stereotipato del solito, cercando di condirlo con l’esperienza diretta: la Rete Lilliput dei poveri deficienti che hanno difeso i violenti, i disobbedienti un branco di politicanti ipocriti e pagliacceschi, i black bloc quelli che volevano scontrarsi sul serio, gli antagonisti, i violenti.
"Una società individualista non può essere non violenta. L’individuo ha una grande considerazione di sé stesso. Alla fine sopporta la violenza solo in astratto, e solo se riguarda gli altri, ma ci mette poco a peedere la testa se riguarda lui. Non ti tiro un sasso per la fame nel mondo e le politiche neoliberista, te lo tiro se mi dai una manganellata. [….] Via Tolemaide è una conseguenza naturale. Noi, se non altro, ci risparmiamo l’ipocrisia di un sorriso falso. Noi non siamo non violenti. Noi siamo quello che siamo."
Devo dire che è una lettura interessante, e in alcuni tratti simile a quella che do io delle vicende genovesi, e che forse un giorno riusciremo ad approfondire, quando le ferite si saranno rimarginate e la ragione prenderà il posto dell’emozione. Gensini individua perfettamente alcuni meccanismi, quelli del potere, e anche mi strappa un sorriso quando mi rendo conto di quanto siano simili le sue posizioni rispetto alle decisioni delle tute bianche o dei vertici della polizia e dei giornalisti. Questo dimostra quanto è sottile il crinale che si può percorrere per interpretare i fatti, e quanto sia semplice sciogliere la propria responsabilità in un fatalismo ipocrita, salvo poi accusarne gli altri.
E’ su questo crinale che alcune crepe si aprono nell’onestà intellettuale di Gensini. L’esempio più eclatante sono: l’omissione della carica sul lungo mare a cui partecipa anche il VII nucleo e che nel libro viene liquidata con il commovente episodio di François (i dirigente del reparto che secondo me è identificabile in Michelangelo Fournier) che rifiuta di caricare la gente senza una via di fuga (ci ricordiamo tutti come è andata, no?); la trasformazione di uno degli arrestati più celebri del g8, il ragazzo brancato in piazza Tommaseo che canta la Marsigliese mentre lo portano via in un gigante ciclopico per forza e coraggio (il tizio è alto 175 cm e non particolarmente nerboruto). Mi si risponderà che gli eventi sono frutto di fantasia e non DEVONO corrispondere al vero. Reality Fiction. Ci mancherebbe, io sono d’accordo, quando servono ad alimentare la narrazione, ma non quando sembrano solo una patina giustificatoria su qualcosa per cui si ha la coscienza un po’ sporca. La mattanza.
E’ su questo livello che il libro non mi è piaciuto molto, sul poco coraggio nel prendere posizione su alcune vicende, per scioglierle tutte nell’ineluttabilità di eventi che era deciso andassero a finire così, come se la morte di Carlo, o la perquisizione alla Diaz, o anche gli scontri potessero finire in un solo modo, predestinato da qualche Demiurgo non troppo sveglio.
"Ma intuisco che non è tutta la verità. Che in tanti hanno congiurato per quella morte di cui non conosco ancora niente. Non solo l’impreparazione dei giovani carabinieri, la follia dell’essere umano e il cinismo dei media. NOn solo la demagogia di chi ha portato in piazza centinaia di migliaia di persone in piazza senza servizio d’ordine. Non solo il destino."
Il problema che il libro solleva è che Genova non è solo una singola barricata. Chi c’è stato e chi non c’è stato non può fare finta di nulla. Deve capire che cosa significano le mille barricate che ha rapprentato, chi c’era da un lato e chi era dall’altro, e soprattutto come sono passate le persone da un lato all’altro. Ognuno sa che non è così semplice liquidare la questione con la retorica dello "scontro con gli sbirri maledetti" o con quella del "potere occulto che ha deciso che dovevamo essere uno strumento di violenza". Genova è complicata, ha vissuto di 300.000 anime e oltre, di violenza, di spettacolo, di potere, di parole, di azioni, di simboli.
"Alla fine ho capito una cosa: era in quello che eravamo, lì era nascosta l’essenza della nostra tragedia. Il settimo nucleo aveva un destino e quel destino era nel suo carattere, nel carattere degli uomini che lo componevano e lo comandavano. Era solo andata come doveva andare e in fondo lo sapevano tutti, anche noi."
Io invece non ho capito questo. Io a Genova non ero quello che ero, né quello che sono. E’ troppo comodo nascondersi dietro al fato, agitare un cinismo un po’ ostentato e confortevole, decidendo di non affrontare quello che si è fatto e come lo si è fatto. Io sono contento di aver letto questo libro, mi ha fatto pensare e ripensare a quello che ho vissuto e a come lo ho vissuto, e mi ha esposto un altro punto di vista. Ma non è il mio.
Su quelle barricate, ognuno di noi deve salirci e ci è salito. E ha scelto. Come ho già scritto in molti altri interventi, vivere significa essere partigiani, significa scegliere, significa sbagliare. Io so che quello che abbiamo fatto è stato qualcosa di grande, e non cerco giustificazioni per quanto di sciocco o sbagliato possa esservi stato. Il giorno che racconteremo noi la storia di Genova, spero di poter dire che in essa non ci sarà nessuna concessione all’ipocrisia, e che avremo cercato di affrontare la verità di quello che abbiamo conosciuto senza nasconderci dietro un dito. Avremo cercato di spiegare perché per alcuni è stata solo politica, per altri è stata vita, per altri un incidente, per altri ancora un’occasione. Avremo cercato di raccontare un punto di vista totalmente opposto a quello del celerino Gensini: che i sistemi non cadono da soli, ma cadono quando le persone decidono che è il momento di dire basta e di inventarsi qualcosa di nuovo e terribile. Anche a costo di fare molte cose sbagliate.
We have been nought, we shall be all.