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Archivio per la categoria ‘pagine e parole’

Confine di Stato

3 Marzo 2008 4 commenti

 

Simone Sarasso ha una faccia simpatica, e ho anche l’impressione di conoscerlo, anche se potrebbe tranquillamente essere che la soglia di affidabilità della mia abilità fisiognomica stia ormai definitivamente tramontando. Le influenze culturali che denuncia nei suoi ringraziamenti e nel suo libro sono affini alle mie, e quindi è inevitabile che legga il suo lavoro alla luce di quanto ha divertito me: Wu Ming, Garth Ennis (anche se io devo dire che al suo nome avrei da accostare una decina di altri nomi, almeno quattro dei quali proprio nello stesso ambito di evoluzione del medium fumetto, Grant Morrison, Neil Gaiman, Alan Moore, Frank Miller), e via elencando. Confine di Stato è un’opera di reality fiction storica, e per questo mi è piaciuto. Lo stile fumettistico si sente molto e quindi può piacere o meno, ma in generale non stona. Devo dire che la prima parte del romanzo è più godibile perché nella realtà storica vengono inseriti molti personaggi e molti incastri plausibili, possibili, addirittura probabili, ma non necessari, che arricchiscono il tessuto di lettura. Nella parte centrale soprattutto, dedicata a tutta la vicenda piazza Fontana, mi pare rimanga troppo aderente alla reality e poco disinvolto nella fiction che serve per dare la chiave di lettura. Forse è un mattone un po’ troppo pesante da manipolare con leggerezza, in effetti. Ho anche apprezzato il non indulgere più di tanto nella mania del Grande Vecchio di decataldiana matrice, e l’uso della grafica insieme alla parola, che forse avrei sfruttato di più considerato il talento di Simone come illustratore.
In ogni caso il libro si legge con piacere fino alla fine, nell’attesa dei prossimi capitoli della saga. Intanto se volete potete fare come me: spizzatevi il progetto di graphic novel online United We Stand, che ha per protagonista l’autore e altri suoi soci

Voto: 6/7
 

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Un nuovo racconto dalla cripta di Blackswift: Freezer, il mostro dell’inverno

19 Febbraio 2008 1 commento

 

"E perché
sono tutti nervosi (I volti intorno
si fanno gravi). Perché piazze e strade
si vuotano e ognuno torna a casa?".

"E che fa buio e i Barbari non vengono,
e chi arriva di là dalla frontiera
dice che non ce n’è più neppur l’ombra".

"E ora che faremo senza i Barbari?
(Era una soluzione come un’altra,
dopo tutto…)".
                                        [ E. Montale che traduce Kafavis]

Contenuti della newsletter 03, inverno 2007/2008

 


Inverno

L’inverno – si sa – intorpidisce le membra e i neuroni, ci spinge a rintanarci in casa, desiderosi di un camino da accendere, di compagnie da riscaldare e di coltri con cui coprirci. Il freddo intirizzisce, ma allo stesso tempo una folata di vento gelido ci può svegliare come poco altro al mondo, e con effetti collaterali decisamente minori di una secchiata d’acqua. Allora i mesi intorno al cambio dell’anno conservano una duplice potenzialità, l’ipotesi di due strade divergenti da percorrere.
Il mondo che ci circonda sembra essersi calato in un inverno perenne, congelato nella sua incapacità di evolvere e di offrire delle gemme a qualche sole o dei semi a qualche alito di brezza, inondato di un freddo senza neve che possa preludere a una rinascita. Intorno niente sembra cambiare, eppure tutto cambia, l’informazione ci offre costantemente una prospettiva nuova, magnifica e progressiva, e tutti noi ci offriamo lieti di parlarne, come si discute di quanto durerà un ciocco nel camino travestendo l’argomento di novità.
Anche questo inverno forse è come quello che viviamo camminando nelle strade delle nostre città, gravido di percorsi diversi e punti di arrivo nuovi. Forse spetta ad ognuno decidere se farsi cullare da caleidoscopiche menzogne, o porgere la sua migliore gota allo schiaffo della bufera gelida.


Blackswift – Quanto ha venduto il libro?

I tempi editoriali sono quelli che sono: c’è voluto più di un anno dalla uscita nelle librerie di Monocromatica per avere una idea di quanto ha venduto. Il dato non è preciso perché avere qualcosa di definito numericamente da Sandrone Dazieri è impresa ardua, ma si dovrebbe aggirare intorno alle 3.000 copie, centinaio più centinaio meno.
Più o meno sta nel range delle vendite della Colorado Noir, quindi è facile pensare che il grosso del merito di questo numero discreto per uno pseudonimo esterofilo privo di pubblicità e di tour organizzato per presentare il libro dignitosamente, sia da ricercare nel pubblico che segue le collane della casa editrice.
In ogni caso siamo soddisfatti, ed è difficile numerare i download dal sito della versione integrale del libro, che lo ricordiamo è stata messa online in contemporanea – anzi in anticipo nella sua versione primigenia. I numeri di questo si aggirano intorno alle migliaia anche in questo caso.
Se dobbiamo essere onesti pensiamo che il libro sia ancora acerbo, soprattutto nella malizia necessaria a gestire una storia evocativa di per sé. Siamo stati molto criticati ma anche elogiati, in alcuni casi riteniamo più per compiacenza che per convinzione. Il libro però è stata una esperienza divertente e che contiamo di ripetere, magari traendo insegnamento dagli errori narrativi e organizzativi che hanno reso questo libro meno di quello che poteva essere, ma conservando quegli spunti che lo hanno reso qualcosina di più.
Ringraziamo tutti coloro che lo hanno letto, che ci hanno scritto, recensito, raccontato, suggerito, criticato, aiutato. Seguiteci intanto sul sito e fateci sapere cosa ne pensate delle nostre nuove fatiche.

Per leggere il libro e trovare le recensioni: visitate il sito di noswift.org


Attualità

Siete proprio sicuri di volerlo sapere?
Beh, facciamo così, facciamo un mosaico: la polizia ha fatto irruzione in un reparto ostetrico interrogando una paziente che aveva appena abortito un feto morto e malformato, insieme a tutti i medici e agli infermieri; gli esponenti del governo appena caduto dicono che il primo punto del programma è il conflitto di interessi; un ragazzo catanese è in carcere da un anno per omicidio ma viene solo condannato per resistenza aggravata e nessuno si chiede dove sia finito l’omicidio; un poliziotto in quel di arezzo ha ucciso un ragazzo sparando alzo zero, ma non è in stato di carcerazione preventiva e non si sa quando inizierà
il processo; di un altro ragazzo spunta un video di 12 minuti con i suoi carnefici che ridono dopo averlo ammazzato di botte, ma il loro processo è dimenticato; Israele, una delle poche potenze atomiche, dice che l’Iran ha le atomiche e che quindi è un pericolo per la pace mondiale; i giornali italiani parlano del matrimonio di sarkozy, mentre in kenya muoiono milioni di persone; ci sono 750.000 persone di nazionalità diversa da quella italiana che hanno chiesto di lavorare in italia, ma solo 170.000 potranno entrare nel territorio nazionale; la disoccupazione è al minimo storico calcolandola ogni tre giorni; le bollette di luce e gas aumenteranno di 300 euro per famiglia all’anno, cioè mezza mensilità di ogni membro della famiglia percepente un reddito; di solito una famiglia è ancora retta dallo stipendio di uno dei due genitori e dal lavoro in nero dell’altro; il prossimo capo del governo veste con pantaloni neri, camicia nera, è pelato e saluta con il braccio levato e il palmo disteso; no, non è mussolini, quello era stato anarchico, all’inizio della sua carriera.
Vi basta? Secondo me vi abbiamo scritto meno dell’1% delle cose che sono successe e che hanno un minimo di rilevanza. Fate voi, abbiamo preso le migliori.



Racconti e Romanzi

Freezer

1.  Dove

L’aria è frizzante come una bottiglia di acqua appena tolta dal freezer, ti colpisce il viso come uno schiaffo, svegliandoti anche quando non vuoi, rendendo compatti e uniformi i pori della pelle, levigando le superfici e spogliando gli alberi delle ultime foglie gialle che tenacemente rimangono ancorate ai rami degli alberi, protesi verso il cielo bianco come una scodella di latte rancido.  Alle volte piove, ma non è la stessa cosa: allora il cielo è grigio come un topo morto, e la pioggia è in realtà una
nube di vapore acqueo ad altezza uomo, appena più densa della nebbia. Non è che riesci a goderti uno scroscio che ti faccia venire voglia di imitare qualche attore americano che vaga perso nei suoi pensieri fino a sciogliersi nell’acquazzone, o una pioggia fitta fitta che richiami nella tua mente immediatamente il desiderio di un caminetto, un libro, e un piccolo idillio casalingo. Allora le giornate migliori dell’inverno sono quelle più crudeli, quelle più feroci, con quell’aria che ti aggredisce, per ricordarti che non puoi mollare un attimo. E tu non molli. Per niente.

Le strade sono ingombre di auto, di tram, di autobus, motorini che sfrecciano in ogni direzione, a onde, orchestrate dal ritmo asincrono dei semafori, un po’ sincopato. Quando cammini ascoltando l’ultimo pezzo che ti sei messo nel lettore mp3, cerchi di dare un ritmo ai passi, uno scandire dei mocassini, nuovi, che segua la batteria, mentre gli sciami motorizzati li immagini danzare insieme alla melodia delle chitarre e delle tastiere. Nel tuo piccolo ti senti un artista.  Se non fosse per il fastidio che ti procura ogni persona che incroci per strada e che ti pare concentrato solo a rovinare quella sinfonia perfetta che avevi orchestrato fino a quel momento. Milano sarebbe perfetta se fosse disabitata, se potessi gustarla fino alla sua ultima molecola, senza l’interferenza di tutti gli altri. Ecco, nel tuo piccolo ti senti un artista incompreso.

Nel caos quotidiano i tuoi passi non ti sentono, come se il loro suono fosse immobilizzato dalla freddezza cristallina dell’aria che dovrebbe trasmetterlo di particella in particella, fino al tuo orecchio. I colori del cemento e dell’asfalto si attutiscono, diventano meno grevi, meno opprimenti, come se decidessero di graduarsi sul bianco del marmo dei palazzi, o sul bruno delle aiuole spoglie e brulle, terrose. Potresti spalancare gli occhi senza ferirli, se non fosse per il gelo, che intirizzisce anche loro, e non avessi paura che le cornee ti si potessero crepare, come un barattolo pieno d’acqua lasciato fuori sul davanzale.

Sono pochi i giorni in cui ti sembra di poter inspirare a pieni polmoni, in una città come Milano, giorni come questo, giorni freddi, lucidi e secchi come l’idea di un genio o lo schiocco di una frusta. Allora ti fermi un secondo e ti lasci invadere dall’aria, fino a bruciarti gli alveoli, fino a scoprire parti del tuo apparato respiratorio che normalmente ignori.
Tutto questo fino a che non metti piede, dopo pochi minuti, sullo zerbino dell’ufficio in via Pisani. I tuoi pensieri, la tua arte, le tue sinfonie vengono richiuse nel loro scrigno, calpestate dalle suole dei mocassini che pulisci sulle setole. Bando alle ciance. Il lavoro è lavoro.

Il racconto completo potete leggerlo sul sito in versione  [txt] [rtf] [pdf]

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Etica Criminale, Poetica Materiale

18 Febbraio 2008 Commenti chiusi

Devo dire che Il Fiore del Male è stato uno dei libri biografici più belli che ho letto, e quando l’ho finito l’emozioni che avevo provato a ogni pagina ancora  mi inseguivano. Etica Criminale di Massimo Polidoro non è un’esperienza così forte, ma devo dire che è un resoconto molto umano (come testimonia la nota di postfazione scritta dal protagonista del libro, Renato Vallanzasca) e molto sentito di un periodo che è ormai definitivamente tramontato, di una città e di un modello di vita che non esistono più.

Massimo Polidoro pone fortemente l’accento in maniera un po’ romantica sulla malavita di un tempo, sulla sua etica, sui suoi principi così vicini a quelli dei militanti in molte parti, e cerca di confrontarla con la malavita di oggi, con il diffondersi dello spaccio che ha soppiantato le rapine, con la gretta sopravvivenza alle spalle degli altri che ha soppiantato il coraggio di agire in prima persona. E’ una visione molto romantica della vicenda di Vallanzasca, e non mi stupisce che lui l’apprezzi, da buon cuore tanghero e egocentrico, ma paradossalmente non troppo lontana per come l’ho sempre vista io dalla realtà. D’altronde se Vallanzasca le ha vissute in un certo modo le sue vicende, anche la loro rappresentazione più simile alla psiche del bel René sarà quella più vera. 

Qualche mese fa ha aperto www.renatovallanzasca.com, che è entrato nella top ten dei miei feed più seguiti, e mi risulta che sia anche ormai l’attività più frenetica dell’impenitente rapinatore. Il blog è molto denso ed è curato dalla sua attuale moglie (Antonella D’Agostino) e da altri ragazzi che hanno voglia di dare uno strumento in più di evasione al loro amico. Il blog è altamente consigliato e devo dire che se sulla politica non ci intendiamo proprio, sulla visione circa il giornalismo Renato Vallanzasca potrebbe essere eletto mio portavoce 🙂

Ora nei prossimi tempi spero di riuscire anche a leggere il libro scritto da Antonella proprio sul bel René. Intanto posso solo omaggiarlo quando scrivo delle strade che hanno visto parte della sua vita, siano esse Giambellino o via Porpora, e sperare che in qualche modo – qualunque modo – torni presto libero.

Voto: 7

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Il silenzio e la percezione del sé di un poliziotto dell’antimafia

13 Febbraio 2008 Commenti chiusi

 

L’altro giorno sono entrato in libreria in zona centrale, e spulciando qua e là, più per perdere tempo che peraltro, dato che avevo già speso bei soldi in volumi dall’inizio del mese, mi sono imbattuto in questo libro della Piemme Edizioni: Il Silenzio, sottotitolo Racconto di uno sbirro antimafia. Il libro si presenta come scritto da un poliziotto "puro" dell’antimafia di Catania, sotto lo pseudonimo Gianni Palagonia. Si sa che io, il mio socio e altri abbiamo un po’ lavorato sul tema della percezione del sé da parte delle forze dell’ordine, sulla loro psicologia e sui loro processi di riorganizzazione, quindi ero curioso e il giorno dopo, passando nella medesima zona sono entrato e me lo sono comprato. Bando all’avarizia!

Il libro è molto interessante, ben scritto – anche perché chi racconta storie della propria vita densa ha fin troppe cose da mettere nero su bianco – e scorrevole. Ma non è questo il punto: il volume è infatti un ottimo documento su come pensa, come si percepisce e come agisce uno sbirro diciamo "ispirato", non uno qualunque che si è trovato lì, ma uno che voleva essere ed è diventato un poliziotto. Da questo punto di vista penso sia un documento molto interessante per chi vuole fare il militante, anche se ovviamente ha i suoi limiti.

E’ molto interessante per tutti gli altri invece perché sfrondato dalla lieve retorica del buono contro i cattivi, mostra la realtà della criminalità organizzata e della vita da poliziotto, del modo di condurre le indagini, della creazione di organizzazioni parallele in seno allo stato e alla stessa polizia, che ritengo – per come conosco io le cose – molto vicine alla realtà e molto crude se si vuole, senza concessioni alle soluzioni facili. Il libro sbatte in faccia a un po’ di benpensanti – e anche di stereotipati militanti – un po’ di verità scomode. Il vero problema è: non si spinge fino a far capire come questo meccanismo di stato nello stato tipico non solo della mafia ma anche del mondo delle forze dell’ordine in ambienti in cui non si rischia troppo la vita, diventi una vera e propria associazione mafiosa, con annessi e connessi. E il problema sta anche e soprattutto lì. Noi l’esempio lo abbiamo con l’antimafia di Palermo da cui escono molti dei vertici della Polizia Italiana attuale e imputati nel processo Diaz e in altre nefandezze in cui si difendono come veri cumpari, memori di quello che hanno rischiato forse, ma che non giustifica l’applicazione del medesimo metro di misura a movimenti e società civile. 

Interessante è anche la sfiducia nello Stato e nella democrazia. Se anche il paladino della giustizia contro la mafia ritiene di essere da tempo in emergenza democratica allora vuol dire che la situazione è molto grave. Sono sicuro che Gianni Palagoni concorderebbe con me nella voglia di far saltare un tot di gente che anziché lavorare per creare un posto migliore dove vivere, si arrabbata a trarne sempre e comunque profitti personali. In ogni caso il libro è altamente consigliato e un ottima fonte di studio.

Voto: 7

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La grammatica di Benni

11 Febbraio 2008 5 commenti

 

Il primo libro che ho letto di Stefano Benni è stato un volume bianco e rosso, edito Feltrinelli, che avevo scovato nell’armadio che nella terza g delle medie George Sand di Affori racchiudeva la biblioteca. Era Terra, forse in assoluto il suo libro più bello, tuttora ineguagliato. Il secondo libro che ho letto è stato il Bar Sotto il Mare, trafugato a mio zio, forse il secondo miglior libro dell’autore bolognese. 

Gli appassionati di Benni dividono le sue opere in tre periodi: i primordi d’oro, che vanno appunto dalla fine degli anni settanta al 1989, racconti e romanzi di grandissimo valore narrativo, oltre che formativo, di un autore ancora non diventato un best seller, ma amato da milioni di persone. Poi c’è la fase della maturità, i romanzi tra Baol, La Compagnia dei Celestini, Elianto,  e a essere generosi Bar Sport Duemila e L’Ultima Lacrima: questa fase sarà matura ma è molto meno fresca e l’ironia è più forzata, meno briosa, ma il tutto rimane piacevole. Benni a questo punto è un autore affermato, conosciuto, invitato. L’ultima fase di Benni è iniziata con il nuovo millennio e penso che tutti coloro che lo amano possano tranquillamente affermare che fa cagare: poco spirito, storielle prive di spessore e di spunti per ragionare, troppo fiaba e poco critica della realtà. 

Sono felice di dire che questo libro apre spero la controfase a Spiriti, Saltatempo e schifezze varie. La Grammatica di Dio è una raccolta di racconti abbastanza sagaci, tetri nei momenti giusti, dolci quando meno te lo aspetti. Mi ha ricordato il Bar Sotto il Mare, anche se siamo lontani da quel capolavoro, e soprattutto in alcuni racconti mi ha strappato un cambio di umore verso quella malinconia scanzonata che Benni ha sempre saputo evocarmi tra una risata e l’altra. Consigliato a tutti, nella speranza che l’autore ritrovi nella vecchiaia il vecchio smalto di quando non aveva nulla da perdere e tutto da godere.

Voto: 7

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Milano A. Brandelli

9 Febbraio 2008 1 commento

 

Qualche mese fa ho partecipato insieme al mio socio, biondillo, e un po’ di altri autori milanesi a una serata in quel di xxy, a niguarda, a parlare dei libri che abbiamo scritto, di Milano, delle sue trasformazioni, della necessità di un risveglio culturale e "morale" in senso civico e settecentesco della città. Tra gli autori presenti c’era anche il giovane Andrea Ferrari, con il suo libro Milano A. Brandelli. Io l’ho preso, per curiosità e per cortesia nei confronti di un neoautore alle prime armi esattamente come me, ma poi colpevolmente l’ho lasciato nel mio ripiano dei "libri ancora da leggere", dove è stato seppellito da altre letture. In questo momento di rintanamento post-odontoiatrico ho avuto il tempo e il piacere di leggere il suo libro, ma purtroppo non ho nessuno contatto con lui, quindi il commento che mi accingo a fare, spero gli sia girato da qualche comune conoscenza, invitandolo da subito a prendere con le pinze quello che scrivo, dato che non ho né il titolo, né la competenza per fare il vecchio trombone. E’ da intendere come un commento schietto, di chi comunque si è gustato il libro.

Andrea Ferrari è un ragazzo più o meno della mia età, forse qualche anno in meno, che gira negli stessi luoghi e nello stesso contesto culturale e sociale in cui bazzico io, con la notevole  differenza che è milanista e che lavora in un centro per anziani, e durante i tempi morti scrive. Il protagonista del libro, una sorta di ibrido tra il giallo psicologico e il noir metropolitano, è il suo alter ego, che però di mestiere fa l’investigatore privato da strapazzo e per hobby lo scrittore di un libro che ha per protagonista tale Andrea Ferrari. Carino il gioco ironico di rimandi, parte del viaggetto psichiatrico che penso sia stato uno degli stimoli principali a scrivere il libro, insieme alla voglia di raccontare le sensazioni legate al vivere a Milano.

Onestamente si fa un po’ fatica a entrare in sintonia con il libro e il personaggio, a volte un po’ troppo tratteggiato, nonostante gli ampi monologhi interiori del protagonista. Ci si gusta le atmosfere e i personaggi secondari, ma ho avuto la sensazione che il linguaggio fosse a volte forzatamente scurrile per darsi un che di giovanile, e a volte gergale ai limiti della comprensione. Molte cose non le capivo manco io, probabilmente in quanto modi di dire non tanto di una fascia generazionale, ma di una determinata compagnia, linguaggio in codice esoterico per definizione e che di norma fa parte degli stili di un certo gruppo di persone e del livello di accettazione in tale gruppo. Superato però il primo terzo del libro ci si affeziona al personaggio e al suo socio il Pisa, anch’egli divertente ma vero e proprio side-kick del protagonista. A quel punto si vuole vedere la fine della storia, che in sé è assolutamente e volutamente ordinaria: non ci sono trame shockanti o colpi di scena, e tutto finisce nel più regolare e logico dei modi, perché l’attenzione del lettore si deve fissare, almeno io l’ho interpretata così sul modo di vita e sui valori del protagonista e sulla sua interazione con gli altri e con la città, in un piccolo viaggio all’interno del mondo dell’autore e in una vista della metropoli spesso dimenticata a favore delle sue versioni cronachistico-giornalistiche.

Insomma, il libro si legge piacevolmente, ma come me, penso che anche Andrea sappia che di strada da fare sulla via del diventare uno scrittore ce n’è. [ripeto, vale pure per noi, ma l’importante in fondo è che lui si diverta come ci divertiamo io e il mio socio, e che chi lo legge passi qualche ora piacevole, no?]

Voto: 6

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Rosso italiano blackswiftiano

6 Febbraio 2008 5 commenti

 

Cercando di andare a ritroso e ripescare gli ultimi libri che ho letto per condividerli, ritrovo Rosso Italiano di Massimo Rainer, pseudonimo di un penalista milanese che sospetto di conoscere pur non avendone prove definitive. Il romanzo ha un ottimo ritmo e si legge in un battibaleno, e lo stile di scrittura è affine allo stile che usiamo io e il mio socio su blackswift: diretto, rapido, possibilmente crudo, con personaggi che stanno a cavallo della nostra collettiva vita reale e delle possibilità neanche troppo remote per quanto inverosimili. Intriso vagamente di politica, anche se con il piglio buonista dei più avanti negli anni che finiscono per mettere sinistra e destra un po’ nello stesso calderone, o forse con il punto di vista cinico che cerca di astrarsi dalle facili tipizzazioni. Cade nel tranello del Grande Vecchio di cataldiana memoria che noi non apprezziamo, ma tutto sommato non strania nel libro. Altamente consigliato.

Voto: 7

PS: post super rapido in dirittura di arrivo per l’estrazione del dente del giudizio, compatitemi. 🙂 

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Immanuel Kant protagonista occulto di due libri

5 Febbraio 2008 Commenti chiusi

Continuando nella giornata di recensioni, recupero terreno parlando dell’ultimo libro che ho letto e del suo antecedente: I giorni dell’Espiazione e Critica della Ragion Criminale di Michael Gregorio, pseudonimo dietro il quale si celano una coppia di professori di Spoleto (lui tedesco, lei originaria della cittadina). Del loro esordio, ho apprezzato l’intuizione geniale e il titolo, la possibilità che una intelligenza come quella del pensatore tedesco si fosse confrontata con i meandri più torbidi dell’animo umano, con l’origine della violenza e del crimine. Ho apprezzato molto, in entrambi i libri, il fatto che il protagonista – il procuratore Hanno Stiffeniis – fosse in realtà una guida alla lettura, un punto di incontro dei veri personaggi principali dei romanzi, nel primo decisamente il filosofo e nel secondo il colonnello Lavedrine, insieme alla moglie del procuratore Helena (anche qui le citazioni classiche si sprecano e sono gradevoli camei). 

La trama di entrambi i libri scorre molto bene, direi meglio nel primo che nel secondo in cui intorno alla metà del libro è fin troppo evidente dove si va a parare (anche se ciò non toglie nulla alla voglia di finire il libro), e lo stile di scrittura è forse un po’ piano (nel senso senza eccessi e trasporti particolari), ma penso che questo non sia un limite per la leggibilità del libro, anzi tuttaltro. Quando trovo libri molto ben scritti, con uno stile ricco, ho la tendenza dannata a perdermi nelle parole, e spesso a dimenticarmi dell’intreccio, cosa che in un giallo storico sarebbe un vero peccato. Lo stile del duo spoletano (si dice così?) aiuta a godersi il libro e la trama. In alcuni passaggi sono rimasto stupito dalla precisione teutonica di alcune descrizioni: ad esempio io mica so che tipo di fiori crescono nei prati dietro casa mia, figurati se posso essere certo che nelle pianure settentrionali della Germania crescono le calendule… Diciamo che mi fido, ma ammiro l’attenzione al dettaglio! 🙂

Anche nel secondo libro la guida all’interpretazione del libro è costituita da Immanuel Kant – e anche l’esca per attrarre il lettore – che guida i rapporti tra il procuratore prussiano e il colonnello francese, le loro diatribe sulla libertà, sui diritti dell’uomo e sulla interpretazione della realtà. In entrambi i libri lo sfondo del giallo è la condizione dell’uomo, del suo spirito, delle sue pulsioni, come affacciare Kant e la letteratura sulla psicologia. Piacevole senza dubbio.

Nel secondo libro, più che nel primo, la faccenda si fa più politica che psicologica, e infatti il duo si spinge su terreni scivolosi, ma che sembra dominare. Forse per un limite mio, il comparire della tematica antisemitica mi mette sempre sul chi va là, proprio per l’uso specioso e strumentale che troppo spesso viene fatto di questo argomento delicato e importantissimo per la nostra storia moderna (soprattutto da parte degli ebrei di Israele e dei loro sostenitori). Tutto sommato mi pare che i due professori dominino bene l’argomento e anzi penso che offrano qualche assist a una lettura meno convenzionale del dramma del popolo ebraico (forse facendo un po’ il verso, o almeno l’ho letto io così) proprio a quelle persone che strumentalizzano in maniera totalmente irrazionale e scorretta la tragedia della Shoah (io ho interpretato così il delirio di Aaron Jacob sulle particolarità frenologiche della popolazione ebraica e sulla loro connessione con il loro fato di vittime).

Ci sarebbero molte cose da dire, e non è mai una buona idea parlare di due libri in una recensione sola, ma posso certamente dire di consigliare entrambi a chi ama il genere storico e il genere giallo: non porteranno via molto tempo (io li ho letti in un paio di giorni a tomo) e vi lasceranno un buon sapore nel cervello 🙂 

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Le Benevole

11 Gennaio 2008 Commenti chiusi

Riposto qui un ottimo articolo di Wu Ming 1 a commento del libro Le Benevole di Jonathan Littel. Lo condivido molto e il libro è ottimo, anche se forse tirato un po’ per le lunghe. Non è di facile lettura e su alcuni passaggi mi pare che strafaccia per la caratterizzazione del personaggio, ma nulla è perfetto. Consigliato a tutti.

 
NESSUNO È IMMUNE DAL DIVENTARE NAZISTA

Le benevole, Supercoralli Einaudi, 2007Impressioni dopo la lettura del romanzo Le benevole di Jonathan Littell

di Wu Ming 1
da "L’Unità" del 30 settembre 2007

Premio Goncourt 2006. Monumentale opera prima scritta in francese da
uno statunitense. Caso editoriale in diversi paesi. Oggetto di stupore,
shock e ammirazione. Alzate di polveroni a destra e a manca da parte di
storici e critici, di ebrei e gentili. Perché?
Perché è chiaro fin da subito (dal lungo prologo intitolato "Toccata") che Le benevole di Jonathan Littell vuole imporsi come il romanzo supremo e definitivo su Germania nazista e sterminio degli ebrei.
Di questa ambizione, questa hybris
che fa scavalcare ogni argine e sfidare ogni precedente narrazione
sull’argomento, ho un’esperienza diretta di molti giorni. Leggere Le benevole è ritrovarsi testimoni, percossi e attoniti, di un tracimare:
goccia dopo goccia, rivolo dopo rivolo, il fiume di dati, episodi,
conversazioni, ricordi, sogni e citazioni si compone, si allarga, si
alza, si gonfia finché non esonda. Arriviamo sul fronte russo sospinti
da un’alluvione, immane ondata che spazza via interi mondi e
innumerevoli vite, finché non impatta con la resistenza di Stalingrado,
inattesa, inspiegabile. Le giornate di Stalingrado scavano un momento
di "vuoto" nel romanzo e nella vita del protagonista, Maximilien Aue,
ufficiale SS. Il vuoto si riempie di follia, follia per una volta non
sistemica né organizzata, follia non burocratica bensì singolare e
selvaggia. L’accerchiamento sovietico apre un crepaccio nel tempo e la
psiche devastata di Aue produce visioni e fantasticherie. I passaggi
sono fluidi, non più scanditi da cifre, date e acronimi, tutto è bianco
e non si sentono rumori… E’ a questo punto che l’onda s’incurva e
volge indietro, con violenza moltiplicata. L’Armata Rossa e il Generale
Inverno annichiliscono la Sesta Armata. Aue si salva, lo riportano a
Berlino.

Una volta respinta, la piena – che, ripeto, è una piena di informazione
– copre altre direzioni, invade altri campi. Le acque brune e scure
trasportano nuovi dati, episodi, conversazioni, reminiscenze di incesti
e sodomie, incubi e rimandi ad altre opere (drammi, romanzi e saggi,
film e documentari). Personaggio, autore e libro s’impantanano
nell’asfissiante burocrazia dell’universo concentrazionario, della Endlösung, dell’Olocausto. Che è ormai soprattutto amministrazione: se le spaventose Aktionen,
i massacri di ebrei nell’Ucraina occupata, avevano smosso la coscienza
del protagonista sferzandolo con dubbi e rimorsi, la "soluzione finale"
lo trova desensibilizzato, apaticamente dedito al compito: "adesso
predominava in me una grande indifferenza, non tetra, ma lieve e
precisa". Siamo a poco meno di 2/3 del romanzo: Auschwitz compare solo
adesso, ecco Höss, ecco Mengele… La piena diventa un lago artificiale
di acqua densa, appiccicosa, le minuzie galleggiano e si attaccano alla
pelle. "E poi, se dovessi ancora raccontare in dettaglio tutto il resto
dell’anno 1944, un po’ come ho fatto fin qui, non la finirei più.
Vedete, penso anche a voi, non soltanto a me, un pochino perlomeno,
certo ci sono dei limiti, se mi sobbarco tutte queste fatiche non è per
farvi piacere…" E avanti così, poi la catastrofe, la fuga, la
mimetizzazione borghese.

Questa non è semplice audacia da esordiente: l’impressione è che l’autore sia stato travolto
dai propri studi e dal progetto narrativo, e ne sia rimasto
prigioniero. Littell si è recluso per anni nel mondo che andava
evocando, la Germania del Terzo Reich vista come un unico, grande campo
di concentramento che imprigionava anche i carnefici e i loro complici
(immagine proposta anni fa da Bruno Bettelheim). Siccome "è libero chi è vassallo" (Frei sein ist Knecht sein), ne è derivato un grande arbitrio del raccontare: Littell vuole dire tutto, mostrarci tutto, descrivere ogni meccanismo, indugiare su ogni delitto.
Le benevole è un libro iperrealistico, sembrano davvero le
memorie per troppo tempo procrastinate di un ex-criminale di guerra.
Nel numero di pagine (956 nell’edizione italiana, per giunta fittissime
e quasi prive di a capo), nell’esorbitante numero di divagazioni ed
eccedenze, nell’attenzione pedante per i minimi dettagli, si manifesta
la tipica "incontinenza" dei memoriali di certi anziani.

Le benevole sembra anche la versione narrativa (e capovolta,
poiché dal punto di vista degli assassini) della colossale impresa
storiografica di Saul Friedländer, i due volumi de La Germania nazista e gli ebrei. Friedländer aggiorna le ricerche di Raul Hillberg
e si dedica alla ricostruzione più vasta e minuziosa della "soluzione
finale", attingendo a ogni sorta di fonte, procedendo per accumulo di
migliaia di microstorie, che collega e incastra fino a indurre il
quadro generale. Tuttavia, la narrazione di Friedländer è
moltitudinaria, sono milioni di persone a reggerne il peso e il dolore.
La storia più difficile da raccontare e da ascoltare batte sulle tempie
mentre leggi, e solo un impianto corale può darle fondamenta abbastanza
solide. Le benevole ha invece un solo protagonista, unico
"filtro", un "io" dai piedi d’argilla che sotto il peso della tragedia
sbanda, si incurva, sovente cade, perde consistenza e coerenza. Che
compito ingrato, il soliloquio dell’inenarrabile.

La domanda che si pone il lettore è: perché Aue – nonostante il
disgusto, i conati di vomito, la diarrea psicosomatica che lo
perseguita per quasi mezzo libro – fa quello che fa?
Perché a suo modo è un illuminista, sembra dirci Littell. E’ un giovane
intellettuale dalle buone, anzi ottime, letture, ed è consapevole della
“dialettica negativa” dell’illuminismo, tanto da volere vederla
compiersi.
[Qui sorvolerò sul fatto che il cosiddetto "illuminismo" liquidato da
Adorno e Horkheimer e poi da frotte di pensatori postmoderni non
corrisponde in alcun modo all’illuminismo storicamente, concretamente
esistito. Lo spiega molto bene Robert Darnton nel suo L’età dell’informazione, Adelphi 2007.]
In parole povere: Aue vuole scoprire fin dove potrà spingersi prima di
smettere di provare qualcosa. Vedere se i mille pretesti, le
razionalizzazioni di comodo, i falsi sillogismi riusciranno a prevalere
sulla nausea, la pietà e i sensi di colpa. Man mano che ciò accade, si
trova a rimpiangere
l’orrore e la pena che provava al principio, "quello choc iniziale,
quella sensazione di una frattura, di uno squassarsi infinito di tutto
il mio essere". Aue è la cavia del proprio esperimento sui limiti
dell’umano. Insieme a noi, "fratelli" chiamati in causa fin
dall’incipit, scoprirà che l’umano non ha limiti, che "disumano" e
"inumano" sono epiteti ipocriti. E’ questo ad avere turbato molti
lettori.

La consueta trappola dell’io narrante: io cammino con Aue, lo seguo
nell’esperimento, ragiono con lui, in un certo senso sono lui, come lui
è me e chiunque di noi: "Gli uomini comuni di cui è composto lo Stato –
soprattutto in periodi di instabilità -, ecco il vero pericolo. Il vero
pericolo per l’uomo sono io, siete voi. E se non ne siete convinti,
inutile continuare a leggere oltre. Non capirete niente e vi
arrabbierete, senza alcun vantaggio né per voi né per me."

Finché Aue soffre per il dolore che infligge, io soffro insieme a lui, ho gli stessi conati di vomito. La descrizione delle Aktionen
in Ucraina è quasi insostenibile: chi è padre o madre vedrà i propri
figli in ogni bambino fucilato e gettato nudo sul cumulo di morti.
Queste pagine fanno amare la vita disperatamente, ti ci fanno
aggrappare con tutte le forze, perché non c’è nulla di "edificante" nel
modo in cui le vittime vanno a morire, sono decine e decine di pagine
di macelleria a cielo aperto, pagine brutte, perché è la morte
violenta a essere brutta: non c’è tempo per ultime frasi che tocchino
il cuore; non c’è spazio per pose plastiche nella calca della fossa
comune; la morte subita in mucchio è ancor più misera e priva di
redenzione.

Gradualmente, però, la quantità mi prevarica, fa scattare le mie
difese, distanzia l’esperienza e annulla la compassione. Un morto è
omicidio, un milione di morti è statistica, ipse dixit. Di
massacro in massacro, mi desensibilizzo insieme ad Aue, conseguo il suo
medesimo distacco. Il romanzo coglie nel segno (se questo era il segno
a cui mirava) e arriva a dimostrare che chiunque può abituarsi
all’orrore. Al limite la pagherà con disturbi psicosomatici, cacarella,
bruxismo… Poca roba. Del resto, non muoiono di fame e stenti ogni
giorno migliaia di bambini senza che io ci perda il sonno? Il fatto che
io non sia lì a guardarli morire, bensì distante migliaia di miglia, mi
rende poi tanto diverso da Maximilien Aue, mi rende forse più innocente
di lui? Aue è mio fratello, è contro me stesso che devo vigilare,
nessuno di noi è immune dal diventare "nazista".

Littell, per dirla in una delle sue lingue native, has got a point,
eppure il suo successo è un fallimento, perché mi anestetizza, toglie
calore alle dita che reggono il libro. L’inflazione della valuta-morte
mi fa davvero sembrare uno sterminio poco più di una statistica, e il
rischio è che diventiamo più cinici anziché più vigili nei confronti di
noi stessi. Eterogenesi dei fini. Per metterla giù in modo chiaro:
finiamo la lettura più stronzi di quando l’avevamo iniziata.

Detto questo, è un romanzo importante, epocale, che non si può né si
deve ignorare, che va letto e affrontato. E’ anche un romanzo impervio,
con centinaia di nomi e cognomi che non è possibile tenere a mente,
parole tedesche che mettono soggezione, scartoffie infilate nel flusso
senza alcuna mediazione. Sovente Littell va oltre il nozionismo e si
produce in tirate piene di riferimenti criptici, come se si stesse
rivolgendo – e forse è davvero così – alla corporazione degli storici
anziché ai lettori comuni.

Durante un viaggio a Parigi, Aue si imbatte in un libro di Maurice Blanchot, Passi falsi, il quale contiene un saggio su Moby Dick,
"libro impossibile" che "si rivela solo attraverso l’interrogativo che
pone". Fin troppo scoperta, la dichiarazione di poetica: Littell è
melvilliano dallo sfintere al nervo ottico. E se Melville – come fa notare Henry Jenkins – scriveva così perché era un fan, un appassionato della navigazione che voleva sviscerarne ogni aspetto, allora Littell di cosa è fan? Littell è un fan
del Novecento, inteso come "secolo di ferro e fuoco". Coglierne
l’essenza è stato per anni la sua ossessione, la balena bruna a cui
dare la caccia.

Ma non è forse l’ossessione di noi tutti? Quel mondo è sempre con
noi: la seconda guerra mondiale è l’evento storico più raccontato e
rappresentato di tutti i tempi, e il Führer ci tiene compagnia
continuando a sbucare come monito, icona pop, pietra di paragone.
Qualunque sterminio e genocidio è implicitamente o esplicitamente
valutato in confronto alla Shoah, a cui ci riferiamo per metonimia:
"Auschwitz". Qualunque nemico, anche occasionale, viene paragonato
all’imbianchino. L’avvocato americano Mike Godwin ha coniato una "regola" (Godwin’s Law)
secondo cui "più una discussione on line si protrae nel tempo, più
aumentano le probabilità che uno dei partecipanti venga paragonato a
Hitler."

Le benevole non sarà il romanzo definitivo su nazismo e
dintorni. Continueremo a raccontare quella storia, perché non possiamo
farne a meno. Ci viviamo ancora dentro e chissà quando ne usciremo. Il
nazismo ha perso eppure ha vinto, condicio sine qua non del nostro immaginario.

– Jonathan Littell, Le benevole, traduzione di Margherita Botto, Supercoralli Einaudi, Torino 2007, pp. 956, € 24

 

Strade e storielle sociali a genova

13 Dicembre 2007 Commenti chiusi

 

Segnalo, molto rapidamente che non ho moltissimo tempo, un bel lavoro che il  mio socio sta portando a termine sul suo blog, mentre siamo in sospeso sul resto dei nostro lavori narrativo-editoriali: prendi le vie famose per il g8, conoscine la storia, e raccontala a chi non la sa, con il giusto tocco di ironia che merita la realtà abbruttita che ci circonda fin troppo spesso. I due post [ uno e due ] sono molto divertenti, e forse potremmo impegnarci in due per farne qualcosa di più che una boutade.

I progetti di blackswift (molti) latitano nell’attesa di avere tempo e voglia di scrivere e leggere, cosa che sembra venire difficile a entrambi (me e il mio socio armeno), ma non temete, non cesseremo di stupirvi. Le strade, come già si può intuire dall’approccio di monocromatica, non sono neutre: i luoghi nascondono storie, soprattutto storie che si intrecciano con la cronologia ufficiale delle epoche dando uno spessore diverso a fatti che messi in sequenza riducono drasticamente il senso del processo storico. Forse fermarsi ogni tanto a raccontare come si vivono i luoghi delle proprie città basterebbe a tenere viva la loro anima.